Intero numero disponibile qui.
Elena Giglia, Università di Torino – ORCID ID: 0000-0003-4927-2632
E-mail: elena.giglia@unito.it
Paola Chiara Masuzzo, IGDORE – ORCID ID: 0000-0003-3699-1195
E-mail: paola.masuzzo@igdore.org
doi: 10.14672/vds20231ed3
(https://doi.org/10.14672/vds20231ed3)
“Open Science è solo la scienza, ma fatta bene”, amava dire Jon Tennant – cui questo numero è dedicato. Abbiamo avuto la fortuna di condividere un po’ della nostra vita e delle nostre scelte con lui, e ora siamo qui per raccontarvi perché per noi la Open Science è una vera e propria passione.
Possiamo partire da una definizione di Open Science: “la transizione verso un nuovo modo aperto e partecipativo di fare ricerca, diffonderla e valutarla. Il punto centrale è aumentare collaborazione e trasparenza in ogni fase della ricerca, attraverso la condivisione più aperta e tempestiva possibile di dati, pubblicazioni, software, strumenti, protocolli. La Open Science porta a risultati scientifici più robusti, a una ricerca più efficace, a una circolazione più rapida dei risultati per tutti. Questo si traduce a sua volta in un maggiore impatto sociale ed economico”[1].
I tre verbi presenti nella definizione sono tutti ugualmente importanti. Occorre fare ricerca in modo nuovo – coinvolgendo gli attori sociali, co-creando, dando accesso a tutti gli elementi del processo -; diffonderla in modo nuovo – con l’immediatezza dei pre-print, con la completezza di un open lab notebook che contiene testi, dati, codice, con la collegialità della open peer review che innesca una sana conversazione sull’oggetto stesso della ricerca -; valutando in modo diverso – e qui la recente iniziativa europea COARA[2] può giocare un ruolo fondamentale nell’individuare criteri diversi dalle logiche delle liste di riviste o del numero di citazioni – e premiando la collaborazione e l’apertura.
Ma c’è anche un’altra definizione che ci piace ricordare, più personale, data da una dottoranda dopo aver seguito un corso di formazione sulla Open Science: “è importante tenere a mente che esiste un’alternativa che ci permette di essere trattati con dignità e di focalizzarci davvero sull’essenza del nostro lavoro”. La dignità del lavoro di ricerca: chiedetevi perché avete scelto di diventare ricercatori e ricercatrici, e chiedetevi se il sistema attuale risponde alle vostre aspettative o se piuttosto è diventato un ambiente asfittico e iper-competitivo in cui si è costretti a pubblicare, pubblicare, pubblicare – e a fare di tutto per pubblicare sulle riviste “prestigiose”, incluso falsificare o fabbricare i dati, come dimostra l’aumento esponenziale delle ritrattazioni.
Quello che amiamo della Open Science è proprio questo tratto alternativo, liberante, del fare ricerca con lentezza, collaborando e costruendo insieme, raccontandola così com’è, con i suoi fallimenti e i suoi passi incerti. Il motto “provando e riprovando” di galileiana memoria dovrebbe essere la chiave della scienza moderna: ma quante riviste (più o meno “prestigiose”) pubblicano risultati negativi? Eppure, la scienza progredisce anche e soprattutto grazie agli errori – e, dal punto di vista di chi finanzia la ricerca, pubblicare i risultati negativi evita di sprecare tempo e risorse per riprodurre esperimenti e studi che con quelle specifiche non hanno dato risultati.
La scienza è un processo incrementale: si progredisce sulla base dei risultati o delle scoperte di chi è venuto prima di noi. In questo sta il valore della Open Science come chiave di accesso alla memoria, fondamento per creare nuova conoscenza. Ma se non si ha accesso ai risultati, perché chiusi in riviste da migliaia di dollari in abbonamento, o perché abbandonati sul fondo di un cassetto, come si può progredire? E, come ha dimostrato la COVID, come si può progredire se non si ha accesso ai dati, al codice usato per processarli, ai protocolli, alle metodologie, in altre parole a tutti gli elementi del processo di ricerca? Come si può riprodurre o replicare uno studio, se si può leggere solo la sintesi finale sotto forma di articolo? Come si può giudicare l’integrità di una ricerca se si vede solo l’atto finale, ovvero il tradizionale articolo su rivista, e si ignora tutto quanto sta in mezzo fra l’ipotesi iniziale e il risultato finale?
Per questo serve la Open Science, per avere una scienza più solida, trasparente e riproducibile, perché si abbia accesso a tutti i passaggi. E tutti i passaggi del processo della ricerca devono contare per la valutazione, insieme alla capacità di creare una scuola, di trasmettere un metodo, di creare ambienti di lavoro non tossici e rispettosi di ognuno.
Eppure, la nostra cultura è ancora tutta focalizzata – per ragioni di valutazione della ricerca – solo sugli articoli pubblicati in riviste dai costi non sostenibili e dai tempi di pubblicazione biblici. Di nuovo, la COVID ha mostrato chiaramente che i dati e i risultati servono subito, non dopo due anni e oltre dall’avvio dell’iter di pubblicazione. Per questo l’uso dei pre-print è diventato vitale durante la pandemia, e in futuro dovremmo avvalerci sempre più di open lab notebook, i quaderni di laboratorio digitali che contengono testo, dati, codice, sono documenti vivi e non fossili come le tradizionali riviste scientifiche che altro non fanno se non replicare in digitale quanto avveniva su carta, senza sfruttare le potenzialità del web.
Condividere i risultati e i dati è fondamentale, ma Open Science non è e non deve essere solo questa attenzione alla fase finale della disseminazione: il vero tratto distintivo è il modo nuovo di produrre conoscenza, co-creando con tutti gli attori sociali, rispettando le diversità non solo di genere ma anche linguistiche, rispettando le altre culture e punti di vista.
Jon ricordava sempre che la Open Science è un diritto umano, e lo stesso riferimento alla Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo si trova nelle recenti Raccomandazioni UNESCO sulla Open Science, che puntano proprio sulla diversità, inclusione, dialogo con altre forme di cultura per una scienza che sia equa, davvero globale, e che sia rispondente ai bisogni della società. La scienza dei cittadini – e qui ritorna il rispetto e il valore del multilinguismo, a fronte dell’appiattimento attuale sull’inglese – è un elemento importante della Open Science, e porta a un mutuo accrescimento. Riavvicinare la scienza alla società e ai suoi bisogni reali – pensiamo al cambiamento climatico, o alla violenza di genere, o alle malattie neurodegenerative – è fondamentale.
Perché la scienza sia davvero inclusiva e rispettosa non basta premettere “Open” a tutti i suoi elementi costitutivi: occorre cambiare paradigma, vedere la scienza davvero come bene comune globale, essere attenti alla sostenibilità, se no si rischia non solo di perpetuare ma di ingigantire le diseguaglianze, come sta dimostrando la corsa scellerata ai contratti trasformativi e al pagamento dell’Open Access ibrido: quando la rivista Nature chiede 11.500 dollari per pubblicare Open un solo articolo, sta in realtà tradendo l’idea stessa di Open Access e Open Science.
La scienza potrà essere davvero aperta quando lo saranno anche le infrastrutture e i servizi per crearla e pubblicarla, che devono tornare nelle mani della comunità scientifica. È il momento del cosiddetto “Diamond Open Access”, in cui le istituzioni di ricerca si fanno carico anche del passo finale (la disseminazione). Intorno a questo concetto di un accesso sostenibile ed equo alle pubblicazioni scientifiche sono basate anche le recenti Conclusioni del Consiglio d’Europa[3], che riconoscono la necessità di un cambio radicale di paradigma e di modelli di business. Le Conclusioni sostengono modelli non-profit, che favoriscano invece di precludere la grande conversazione che è alla base della scienza, e modelli innovativi, come le piattaforme di pubblicazione al posto delle riviste tradizionali.
Ma se pensate che la Open Science sia solo servizi e infrastrutture, vi sbagliate: la Open Science è anche e innanzitutto una comunità di persone, entusiaste, portatrici sane dei valori dell’inclusione e dell’equità, della collaborazione e del dialogo. Ci si riconosce, ci si ritrova in convegni, progetti, gruppi di lavoro, corsi di formazione, nei quali si condivide la stessa passione e si cerca di trasmetterla agli altri.
Per questo, e per molto altro ancora, auguriamo buon cammino a questa nuova iniziativa editoriale, confidando che possa diventare luogo di dialogo e di crescita.
[1]Definition in Qeios, https://doi.org/10.32388/838962 (ultima visita sito web: 5 giugno 2023).
[2]COARA, Coalition for the Advancement of Research Assessment, https://coara.eu/ (ultima visita sito web: 5 giugno 2023).
[3]Council conclusions, May 23, 2023, https://data.consilium.europa.eu/doc/document/ST-9616-2023-INIT/en/pdf (ultima visita sito web: 5 giugno 2023).