Il Nichilismo oggi. Uno sguardo sul saggio “L’ospite inquietante” di Umberto Galimberti e oltre
L’immagine, di proprietà dell’editore, è qui utilizzata solo ai fini previsti di trattazione del testo e d’incentivare la conoscenza e la diffusione dell’opera.

Recensione di Davide Orlandi, Universidad de Granada.

ORCID ID: 0009-0007-2102-625X

E-mail: orlandi.dav@tiscali.it

doi: 10.14672/VDS20242RR1

(https://doi.org/10.14672/VDS20242RR1)

Titolo della recensione: Il Nichilismo oggi. Uno sguardo sul saggio “L’ospite inquietante” di Umberto Galimberti e oltre

Titolo del saggio: L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani.

Editore: Feltrinelli, Milano 2008

Dio è morto […] e noi lo abbiamo ucciso! […] non ci fu mai un’azione più grande. Tutti coloro che verranno dopo di noi apparterranno, in virtù di questa azione ad una storia più alta di quanto mai siano state tutte le storie fino ad oggi.
Nietzsche, La gaia scienza
Se l’uomo è un essere volto alla costruzione di senso, nel deserto dell’insensatezza che l’atmosfera nichilista del nostro tempo diffonde, il disagio non è più psicologico ma culturale. E allora è sulla cultura collettiva e non sulla sofferenza individuale che bisogna agire […] I nostri giovani non si interrogano più sul senso della sofferenza propria o altrui, come l’umanità ha sempre fatto, ma sul significato stesso della loro esistenza che non appare loro priva di senso perché costellata dalla sofferenza, ma al contrario appare insopportabile perché priva di senso.
Umberto Galimberti, L’ospite inquietante

Tra la prima e la seconda citazione vi è racchiusa tutta la storia e l’evoluzione del pensiero del ventesimo secolo.

I giovani della mia generazione non provano né la tensione tipicamente leopardiana verso la ricerca di senso né la convinzione di Nietzsche di un’umanità resa più grande, in seguito all’accettazione della tragicità del vivere. Quello che emerge, pertanto, è un diffuso senso di vuoto e assenza di speranza nei confronti del futuro.

Tale evoluzione attuale della percezione della vita può esser ben spiegata attraverso un’analisi approfondita del saggio del filosofo Umberto Galimberti, riassunta in tre concetti fondamentali.

L’evoluzione del pensiero filosofico occidentale

Solo verso la fine dell’Ottocento furono messe in crisi tutte le certezze, e le istituzioni religiose e morali create dall’uomo nei secoli precedenti.

L’uomo scopre di essere inorganico, incompiuto, molteplice e scopre la falsità delle certezze che erano state edificate con il fine di controllare e dominare il caos dell’esistenza.

Proprio in Nietzsche tale consapevolezza porta alla rottura con la tradizione e con la messa in discussione della struttura intera della cultura occidentale, fino a teorizzare il Nichilismo, ovvero la perdita di valore di ogni valore supremo.

In contrasto sia con l’Idealismo sia con il Positivismo il filosofo di Röcken esalta la civiltà presocratica per il suo senso tragico che è l’accettazione della vita così come è.

Immagine emblematica di questo “sì totale al mondo” è Dioniso, forza istintiva, simbolo di un’umanità in perfetto accordo con la natura.

Nei secoli successivi, con le costruzioni della metafisica e della religione, l’uomo ha maturato sempre di più la pretesa di dominare la vita attraverso la ragione.

Tutto ciò ha prodotto la decadenza della cultura occidentale che culmina con la “morte di Dio”, quale eliminazione di tutti i valori prodotti dall’umanità. Ciò che resta a questo punto all’uomo, ritrovatosi nel “Nulla”, è il mondo e l’accettazione di sé stesso e della sua tragicità dell’esistenza; solo così, infatti, può possedere quell’ ‘amor fati’ che lo concilia gioiosamente al reale, accettando come necessario l’eterno ritorno della vita e facendo fronte alla svalutazione di tutti i valori.

A distanza di un secolo, però, l’uomo nuovo non è stato in grado di crearsi nuovi valori partendo da sé né è stato in grado di accettare la concezione circolare del tempo, in cui ogni attimo è ritenuto di fondamentale importanza in quanto ripetibile.

La libera creazione di senso, al contrario, ha ceduto il posto all’indifferenza o all’insensatezza. 

L’affermazione della tecnica

All’evoluzione del pensiero in questa direzione nichilista si aggiunge l’affermazione della Tecnica, data dall’evoluzione stessa delle conoscenze scientifiche.

La Tecnica porta ad una totale trasformazione del mondo, obbligando l’uomo ad adattarsi ai suoi ritmi e cambiamenti.

La Tecnica non ha uno scopo né un fine, funziona e basta, travolgendo con crescente rapidità tutte le distinzioni di cultura e valori che caratterizzavano l’uomo pretecnologico.

Il primato del mercato e delle sue leggi

L’innovazione della tecnica e la capacità di produzione e commercializzazione a livello planetario hanno portato ad un rapido cambiamento sociale, il tutto collegato allo sviluppo di un capitalismo industriale.

Ogni forma di etica è stata, infatti, soppiantata dalle leggi dell’economia di mercato imposte negli ultimi tempi. Il denaro è il cosiddetto “unico generatore simbolico” di una società dove produzione e consumo sono le facce di una stessa medaglia, che non produce alcuna felicità.

Si producono merci, infatti, per soddisfare determinati bisogni, ma si producono anche altrettanti bisogni per garantire la continua produzione delle merci che assicurano denaro. Si conferma così il carattere nichilista della nostra cultura economica, che eleva il non essere di tutte le cose a condizione di esistenza.

Soprattutto i giovani sono le vittime di questo processo, i quali ricercano la propria identità nelle cose che possiedono e che sono continuamente a disposizione di cose prima ancora che in loro sorga l’emozione desiderante, facendo sì che ogni cosa è consumata con totale indifferenza e in maniera individualistica. Tale atteggiamento di indifferenza e consumo di merci pervade più in generale il consumo dei divertimenti e di tutti gli aspetti della vita.

Il malessere dei giovani

(futuro come promessa > futuro come minaccia)

Il riferimento non è al dolore o al pianto, ma all’impotenza, alla disgregazione e alla mancanza di senso, che fanno della crisi attuale qualcosa di diverso dalle altre a cui l’Occidente ha saputo adattarsi, perché si tratta di una crisi dei fondamenti stessi della nostra civiltà (Umberto Galimberti, L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani).

I fattori di cambiamento culturale e materiale appena descritti hanno portato nei nostri giorni ad una crisi profonda, perché ciò che è stato scardinato è la percezione del futuro come promessa, la convinzione, cioè, che la storia dell’uomo sia una storia di progresso e di salvezza.

L’Occidente, una volta abbandonato il pessimismo degli antichi greci, che nell’ottica di Nietzsche “sono stati gli unici ad avere avuto la forza di guardare in faccia il dolore”, si è consegnato all’ottimismo della tradizione giudaico-cristiana che, sia nelle forme della religione sia nelle forme laicizzate della scienza, utopia e rivoluzione, guardava il passato come male, il presente come redenzione e il futuro o progresso (scientifico o sociologico) come salvezza.

La morte di Dio, infatti, non ha lasciato solo orfani, ma anche eredi, quali la scienza, l’utopia e la rivoluzione che assicuravano un domani luminoso e felice grazie ai progressi della scienza.

Sul versante sociologico Marx, per esempio, analizza le contraddizioni del sistema capitalistico in vista di una radicale trasformazione del mondo, mentre sul versante psicologico Freud ipotizzava un prosciugamento delle forze inconsce non controllate dall’Io, perché “dov’era l’Es deve subentrare l’Io. Questa è l’opera della civiltà”[1].

Questa visione ottimistica, però, è crollata; Dio è davvero morto e i suoi eredi (scienza, utopia e rivoluzione) non hanno mantenuto la promessa.

Inquinamenti di ogni tipo, disuguaglianze sociali, esplosioni di violenze, forme di intolleranza, guerre ed altrettanti disastri economico-sociali, fanno precipitare il futuro dall’estrema positività all’estrema negatività.

E questo perché se è vero che la tecno-scienza è progredita nella conoscenza del reale, getta allo stesso tempo in una forma di ignoranza che è quella che rende incapaci i nostri giovani di far fronte a problemi esistenziali; gli stessi, d’altra parte, che Nietzsche affermava di accettare come “amor fati”, senza nascondersi dietro alle false illusioni delle religioni, costruendo il senso della propria esistenza nel contatto con la vita terrena e i suoi valori.

Presa di coscienza

Una delle prime reazioni di fronte a tali problemi che inquietano l’uomo e che ruotano paurosamente attorno all’assenza di senso potrebbe essere la mera presa di coscienza, priva di una qualche prospettiva di cambiamento.

Senza più ancore a cui aggrapparsi, religiose, metafisiche o trascendentali che siano, l’uomo ormai si sente perso di fronte al “Nulla” dilagante e ogni sua azione propositiva appare assurda, senza senso e quasi inutile.

Proprio questa metafisica angoscia, senso di sradicamento, assenza di progetti per il futuro e inazione erano le tematiche su cui si incentravano le opere teatrali scritte dal celebre drammaturgo Samuel Beckett.

Il suo teatro, infatti, può essere considerato come un esempio tangibile di un tipo di reazione “apatica” di fronte ad una drammatica situazione, tipica di chi, seppur consapevole di quanto sta accadendo, aspetta un avvenimento che appare imminente, non facendo assolutamente niente affinché questo si realizzi.

Questo è l’atteggiamento dei due protagonisti, Vladimir e Estragon, di Waiting for Godot (1954).

I due barboni, infatti, si limitano ad aspettare sulla panchina invece di avviarsi incontro a Godot, il misterioso personaggio tanto atteso, ma che mai si presenta all’appuntamento.

L’opera è stata considerata come il punto di inizio dell’absurd drama, in quanto, divisa in due atti, presenta una trama ridotta all’essenziale, costituita solo dall’evoluzione di micro-eventi.

Non ha personaggi intesi nel senso tradizionale, aventi cioè una personalità caratteristica; non presenta dialoghi, ma solo una serie di discorsi sconnessi e superficiali, inerenti ad argomenti futili e banali, da cui emerge il nonsenso della vita umana. Non c’è sviluppo nel tempo, poiché non sembra esistere possibilità di cambiamento.

Beckett, del resto, non voleva proporre alcuna soluzione, egli, così come molti altri esponenti del famoso theatre of absurd, era convinto che analizzando il problema si rischiava solo di semplificarlo, bloccandole la comprensione finale della verità (when you try to systemize, you simplify and stop understanding the truth).

Così il fine delle sue opere era semplicemente quello di riportare concretamente sul palcoscenico l’assurdità della condizione degli uomini, incapaci di comunicare e capirsi tra loro (lack of communication). Riprendendo come esempio il già citato Waiting for Godot, i due personaggi, pervasi da un profondo individualismo, seguivano solo i loro pensieri ed erano perfettamente consapevoli che le parole da loro emesse altro non erano che dei modi per riempire l’infinita attesa.

Il pessimismo di Beckett era intensificato, inoltre, dalla convinzione di tempo come costituito da una serie di eventi che si succedevano senza senso “time essentially is chaos”.

L’evasione giovanile

Molti ancora non sanno distinguere nel riso di un giovane, lo spunto della gioia o la smorfia della tragedia imminente. (Umberto Galimberti, L’ospite inquietante).

La mancanza di un futuro come promessa induce, oltre all’arresto del desiderio dei giovani all’assoluto presente, senza più progetti, in quell’ottica del “meglio star bene e gratificarsi oggi se tanto il domani è senza prospettiva”, a quattro esiti ben diversi tra loro, ma tutti originati da questo clima nichilista di cui è pervasa la società attuale.

In primo luogo, il rischio di indurre gli adolescenti a studiare con motivazioni utilitaristiche, impostando un tipo di educazione finalizzata esclusivamente alla sopravvivenza, dove è implicito che “ci si salva da soli”. Poi, il disinteresse per tutto, attraverso l’ignavia e la non partecipazione che portano agli atteggiamenti opachi dell’indifferenza.

In terzo luogo, lo stordimento dell’apparato emotivo, attraverso quelle pratiche rituali che sono le notti in discoteca o i percorsi della droga.

Se il sogno diurno rivela l’incapacità di affrontare il reale, i sogni promossi dalla droga o dall’alcool non fanno fatica ad essere accolti da chi, come i giovani d’oggi, si ritrova a dover inventare un’altra società in cui poter continuare in qualche modo ad esistere e non a sopravvivere.

L’uso e abuso di sostanze stupefacenti, infatti, fa sia cessare il senso di vuoto di fronte al “Nulla”, facendo da “anestesia” delle emozioni più angoscianti sia ricercare quell’euforia in grado di mascherare la depressione.

Infine, il gesto estremo, con il quale porre fine ad una vita che senza più incanti non ha più voglia di vivere.

Verso un tentativo di soluzione

Pensare significa oltrepassare. Certo, finora oltrepassare non è stato troppo acuto nel cercarsi il proprio pensiero. O, se questo è stato trovato, c’erano occhi troppo malmessi […] infatti l’immenso giacimento utopico del mondo è esplicitamente quasi privo di rischiaramento. […] e allora la filosofia avrà coscienza del domani e prenderà partito per il futuro (Ernst Bloch, Il principio speranza).

Di fronte al deserto di insensatezza che l’atmosfera nichilista del nostro tempo diffonde è comunque possibile scorgere una via d’uscita.

Rimedio importante non è tanto l’uso assai diffuso di cure farmacologiche o psicoterapiche, che curano le sofferenze che originano nel singolo individuo, quanto la pratica della filosofia.

Quest’ultima, proprio come afferma Lucio Anneo Seneca, «non è un’arte popolare o fatta per essere ostentata; consiste non in parole, ma in fatti. E non la si usa per trascorrere piacevolmente le giornate o per scacciare la nausea che viene dall’ozio: forma e plasma l’animo, regola la vita, governa le azioni, siede al timone e dirige il corso in mezzo ai pericoli del mare in tempesta»[2].

Dal filosofo stoico e dalle sue Epistulae ad Lucilium impariamo, dunque, che la filosofia è importante in quanto cura soprattutto la salute dell’anima, poi quella del corpo, dal momento che se l’anima sta male anche il corpo sta male.

Questo lo aveva capito già nel I secolo a.C. Tito Lucrezio Caro, il quale scrivendo il De Rerum Natura si propose di diffondere l’esposizione della filosofia epicurea, sicuro che questa sola fosse in grado di assicurare agli uomini la soluzione dei loro problemi esistenziali. Si tratta di un vero e proprio poema in esametri con fini didascalici; scopo del poeta vate è, infatti, la lotta della ragione contro le tenebre dell’ignoranza per far prevalere la luce rasserenante della verità.

Pur trovandoci in un contesto storico-culturale completamente diverso da quello di Lucrezio, la sua riflessione è a mio parere profondamente attuale.

Infatti, se un ragazzo della nuova generazione leggesse l’opera riscontrerebbe in diversi passi delle somiglianze tra gli atteggiamenti della negativa e desolata condizione umana ai tempi dei romani e la propria, attuale condizione di incertezza, precarietà, dolore e vulnerabilità.

Non solo, ma proprio dalla lettura del poema si potrebbe evincere che è possibile far fronte ad una situazione esistenziale dolorosa e difficile, quale quella della società moderna. Lucrezio, infatti, afferma con accenti di profonda convinzione che è possibile per l’uomo, purché aderisca alla verità e alla sapienza epicurea, affrontare le problematiche esistenziali, sconfiggendo la sofferenza e raggiungendo la felicità.

Prospetto di una soluzione non tecnologica

Ciò che il Nichilismo vuole è lo spaesamento. Per questo non serve a niente metterlo alla porta, perché ovunque, già da tempo e in modo invisibile, esso si aggira per la casa. Ciò che occorre è accorgersi di quest’ospite e guardarlo bene in faccia (Martin Heidegger, La questione dell’essere).

Anche oggi si può cercare quella forza d’animo che permette di oltrepassare il nichilismo, forza d’animo che si chiama “resilienza”. Proprio di resilienza hanno bisogno i giovani soprattutto oggi, perché non sono più sostenuti da una tradizione, perché si sono rotte le tavole dove erano incise le leggi della morale, perché si è smarrito il senso dell’esistenza e si è fatta assai incerta la sua direzione.

Il rischio che corrono i giovani, dunque, quando evitano le soluzioni estreme, è quello di vivere senza sentimento, nobiltà, tra “una vogliuzza per il giorno, una vogliuzza per la notte, fermo restando la salute” come afferma Nietzsche[3].

Passioncelle generiche che sfiorano le loro anime assopite, ma non le risvegliano.

Bisogna, invece, avere il coraggio di guardare bene in faccia la realtà ed accettarla, di

“reggere” la morte di Dio e la perdita delle certezze assolute.

Queste erano le peculiarità proprie dell’Oltreuomo (Ubermensch) di Nietzsche, un tipo di uomo che si colloca al di là di ogni tipo antropologico dato, il quale, facendo propria la prospettiva dell’eterno ritorno e ponendosi come volontà di potenza, capace cioè di creare nuovi valori partendo da sé, procede oltre il nichilismo e si staglia nella prospettiva del futuro.

Questo è quello che dovrebbero fare i giovani per affrontare la crisi attuale, prendendo a modello proprio l’Oltreuomo nietzschiano, dandogli per di più una nuova accezione. Non bisognerebbe considerare, infatti, il carattere elitario di tale concetto filosofico così come era stato pensato dal filosofo tedesco, in quanto il superuomo rimanda non ad un possibile modo di essere di tutti, ma ad un possibile modo di essere di pochi. Ecco che eliminato tale aspetto, si tratterebbe di un tipo di Oltreuomo “collettivo”, portatore di valori quali solidarietà, relazione, comunicazione, aiuto reciproco, che possono temprare il carattere asociale sempre più diffuso nella nostra cultura.

I giovani, infatti, anche se non lo confesseranno, attendono qualcosa o qualcuno che li traghetti, perché il mare che attraversano si è fatto minaccioso, anche quando il loro aspetto è trasognato.

C’è bisogno a mio parere di rinsaldare i legami emotivi, sentimentali e soprattutto sociali. Se infatti, abbiamo constatato negli ultimi anni che le conquiste tecnologiche e della scienza non hanno assicurato la pace, il dominio sulla natura e quanto altro avevano promesso, è necessario, dunque, lasciar perdere quelle ingannevoli opinioni sull’ottimismo dati da un progresso scientifico e tecnologico e cercare una forma di superamento del nichilismo, in nome di un progresso più civile e morale.

Con ciò intendo dire che bisognerebbe indurre i giovani alla solidarietà, fraternità, alla costruzione di quella social catena che Leopardi nella Ginestra o Fiore del deserto (1836) aveva teorizzato come unica soluzione nei confronti di una natura maligna, vera e propria responsabile delle sofferenze degli uomini.

Trasportando questo stesso concetto di social catena nella realtà attuale, infatti, in cui il nemico non è più la Natura, ma quest’ospite “inquietante” che ha infiacchito l’animo dei giovani, si potrebbe superare questo dilaniante senso di smarrimento, facendo nascere il “vero amor” tra gli uomini e sentimenti come la “pietà” e la “dignità” che dovrebbe essere propria dell’uomo, nonché del giovane, dinanzi alla forza di quest’ospite che lo schiaccia.

In fondo, non è vero che ci si salva da soli.

Bibliografia

Beckett, Samuel. Waiting for Godot. A Tragicomedy in Two Acts. London: Faber & Faber, 2015.

Bloch, Ernst. Il principio speranza. Milano: Garzanti, 2005.

Freud Sigmund. Introduzione alla Psicoanalisi. Nuove lezioni. Torino: Bollati Boringhieri, 2010.

Galimberti Umberto, L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani. Milano: Feltrinelli, 2008.

Heidegger, Martin, La storia dell’essere. Volume 7 i temi del pensiero. Autori classici.  Milano: Marinotti, 2012.

Nietzsche, Friedrich, La gaia scienza, Milano: Adelphi, 1977.

Seneca, Lucio Anneo. Lettere morali a Lucilio, Milano: Mondadori, 2018.


[1]Freud, Sigmund. Introduzione alla Psicoanalisi. Nuove lezioni. Torino: Bollati Boringhieri, 2010.

[2]Seneca, Lucio Anneo. Lettere a Lucilio, XVI, 1-3. Boella Umberto, cur. Torino: UTET, 1983, 109-111.

[3]Nietzsche, Friedrich. Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, in Opere, Milano: Adelphi, 1966, 12, citato in  Galimberti, Umberto. La casa di psiche. Dalla psicoanalisi alla pratica filosofica, Milano: Feltrinelli, 2008, 374.

Recensione (Stefania Lombardi) a “Profughi: Vittime – Nemici – Eroi. Sull’immaginario politico dello straniero”, di Heidrun Friese
L’immagine, di proprietà dell’editore, è qui utilizzata solo ai fini previsti di trattazione del testo e d’incentivare la conoscenza e la diffusione dell’opera.

Recensione di Stefania Lombardi, Università europea di Roma.

E-mail: stefania.lombardi@cnr.it

doi: 10.14672/VDS20242RE6

(https://doi.org/10.14672/VDS20242RE6)

Titolo: Profughi: Vittime – Nemici – Eroi. Sull’immaginario politico dello straniero

Autrice: Heidrun Friese

Formato: 13.97 x 0.81 x 21.59 cm, p. 140

Editore: goWare, Firenze 2023

Nota introduttiva: quella che segue non è propriamente una recensione con parti di dialogo ragionato sull’opera. Si tratta, più che altro, di consigli di lettura riguardo pubblicazioni molto particolari che, tra i vari spunti che possono offrire, si configurano anche come esempi dei temi dell’attuale bando della rivista che s’interroga fra riconoscimento e misconoscimento.

Nemico, vittima, eroe’: ecco le figure dell’immaginario sociale, immagini disegnate da persone mobili. Rappresentazioni che parlano di ostilità, di minaccia, di aggressione ma anche di compassione e di solidarietà verso gli esclusi e gli oppressi. Insieme, creano la cornice per poter attribuire significati e orientamento.

Inizia così, con le parole qui sopra riportate, il saggio di Freise, già citato in uno degli articoli della presente rivista, e che pone l’accento sull’immaginario che abbiamo e/o abbiamo costruito riguardo l’altro, lo straniero. Un’immagine che contrappone sempre un noi e un loro, indipendentemente dal fatto che lo straniero sia percepito come invasore o come vittima.

Non c’è un riconoscimento dell’identità dell’altro se lo vediamo attraverso le lenti del nostro immaginario e non per quello che realmente è.

Troppe volte abbiamo sentito parlare di nostra cultura, nostri valori e nostro benessere in contrapposizione a loro, loro che non sono noi, non hanno il nostro spazio, le nostre protezioni.

Questo saggio indaga queste storture del nostro immaginario partendo da un’immagine tragica che ha fatto il giro del mondo suscitando diverse emozioni.

Ci s’interroga riguardo la responsabilità della politica nella costruzione di questo nostro immaginario che non pone l’altro da noi allo stesso livello di umanità. Persino gli spazi diventano spazi entro cui esercitare la propria umanità dove nulla è garantito al di fuori di tali confini: l’umanità sparisce e le coscienze si tranquillizzano non percependo più le responsabilità. Tutte le società creano stranieri secondo le proprie modalità, come, più volte, ha asserito Bauman. Queste sono creazioni volte al misconoscimento dell’altro fino all’estremo del suo annullamento come esseri umani e, persino, nell’ottica della stessa esistenza. La protezione di uno spazio della politica diventa anche escludente fra noi e loro. Cercare di fuggire da una situazione critica da quello spazio che dovrebbe proteggere rischia di creare misconoscimenti nell’altro spazio che si vorrebbe raggiungere e che non garantisce protezione per tutti gli esseri umani, distinguendo sempre tra un noi e un loro.

L’idea principale del saggio è proprio questo misconoscimento che parte dal nostro immaginario, a vari livelli. E su vari livelli si dovrà intervenire per indagare queste pratiche di misconoscimento e attuare il dovuto riconoscimento.

Il saggio dialoga costantemente con la letteratura esistente sull’argomento provando a indicare qualche via per passare dal misconoscimento al riconoscimento.

Non più nemico, vittima, eroe, semplicemente umano.

Recensione (Stefania Lombardi) a “Zack Snyder. Into the Snyderverse”, di Filippo Rossi
L’immagine, di proprietà dell’editore, è qui utilizzata solo ai fini previsti di trattazione del testo e d’incentivare la conoscenza e la diffusione dell’opera.

Recensione di Stefania Lombardi

Titolo: Zack Snyder. Into the Snyderverse

Autore: Filippo Rossi

Formato: volume 14,8×21, brossura con alette, bianco e nero, p. 432

Editore: Edizioni NPE, 2024

Nota introduttiva: quella che segue non è propriamente una recensione con parti di dialogo ragionato sull’opera. Si tratta, più che altro, di consigli di lettura riguardo pubblicazioni molto particolari che, tra i vari spunti che possono offrire, si configurano anche come esempi dei temi dell’attuale bando della rivista che s’interroga fra riconoscimento e misconoscimento.

Con 432 pagine, quest’ultima, appassionata, fatica di Filippo Rossi, può, esattamente come il suo “Dune. Tra le sabbie del mito”, essere una sorta di piccola enciclopedia sull’argomento.

Tra dettagliata documentazione, ricca di preziose immagini, aneddoti e curiosità, l’autore ci porta e ci trasporta nell’universo della mente del regista Zack Snyder.

Per l’autore non può essere accettabile il misconoscimento a lungo protratto verso la figura di un regista così poliedrico e intenso, nonché profondo dietro un’apparente banalità.

Troppo a lungo il suo lavoro, la sua profondità e il suo genio non sono stati compresi e misconosciuti.

L’autore stesso ci ha tenuto a sottolineare questi aspetti in un’intervista: https://www.ilcineocchio.it/cinema/recensione-libro-intervista-zack-snyder-into-the-snyderverse-di-filippo-rossi/

Parlando del suo libro, l’autore dirà, nell’intervista:

Quello di Gotham City è crimine estremo, appunto, pensato per essere ultracaricato e quindi surreale. Il mondo di Batman è tutto surreale. Qualsiasi opera d’arte “siamo noi”; ma se la Marvel (soprattutto in versione Marvel Studios cinematografici) resta ancorata a sempre più prevedibili concetti iperrealistici e/o semi-fantascientifici, la DC di Batman è più “fantasy”, quindi surreale perché profondamente simbolica. Un Joker e un Bruce Wayne non possono esistere nel nostro mondo reale – solo Christopher Nolan ci ha provato, e tra alti e bassi ha infatti creato una visione inedita e indipendente.
Invece, nell’ottica di un’altra più fedele e ancora più significativa visione, quella oggi riabilitata del comunque declinante Zack Snyder, Bruce Wayne e il Joker non potrebbero esistere perché sono caricati al massimo fino al livello archetipo, per metterci di fronte (noi esseri umani mortali del mondo reale) al Bene e al Male filosofici. Bruce Wayne non è ricchissimo, ma è “Ricco” – può tutto, con idee e soldi; il Joker non è pazzo, ma è “Pazzo” – può tutto, con volontà e fisico. Sono loro, infatti, i veri Super-uomini della DC. Superman è solamente un inesistente Dio che vorrebbe essere uomo normale, non “Super”.

Il libro-enciclopedia si struttura con un prologo, 11 capitoli, e un epilogo. Nel prologo è già dichiarato che si sta parlando di un genio americano. Nel primo capitolo si analizza l’influenza del mondo dei fumetti che s’imprime nella resa cinematografica di Snyder. Nel secondo si fa un tuffo indietro con la nascita come regista nell’immaginario Zombie. Nei capitoli centrali si cura molto la parte cinematografica tratta dall’universo DC comics. L’epilogo definisce Snyder come il regista più sottovalutato dell’universo e riprende l’idea di genio anticipata nel prologo.

Per avere un’idea di quanto Snyder possa essere divisivo e non immediato, occorre leggere direttamente l’autore:

‘Legend of the Guardians: The Owls of Ga’Hoole’ non è tra i migliori film d’animazione degli ultimi anni, e in effetti non è nemmeno uno dei più riusciti film d’animazione semi-dimenticati. Si tratta di un carichissimo promemoria di ottantotto minuti del motivo per cui ‘La Compagnia dell’Anello’, il primo episodio della trilogia del ‘Signore degli Anelli’ di Peter Jackson, si apre con un’introduzione esplicativa di dieci minuti. Snyder ha qualche difficoltà nel coinvolgerci nella storia mitizzata di alcuni giovani gufi che scappano da un campo di concentramento dei gufi per trovare i gufi vendicatori e sconfiggere il gufo-Hitler, per poi ballare a gufo-città. È difficile che gli spettatori si interessino al parlamento dei gufi o che si orientino nei furibondi duelli tra gufi artigliati d’acciaio.
Eppure…che sia questo il capolavoro segreto del regista?
Attraverso i ventrigli (in originale ‘gizzards’), le voci dei secoli sussurrano e dicono cosa è giusto. Succede ai gufi, così a Snyder. È facile capire perché il regista voglia realizzare quest’opera. Non è un gran cambiamento di genere per lui, dato che il solo esordio ‘Dawn of the Dead’ è definibile come puro film ‘live action’ (gli altri mantengono un forte sapore di artificio visivo). ‘Legend of the Guardians’ e, ad esempio, 300 presentano creature visivamente ricostruite come i loro ambienti. Snyder è ansioso di giocare in un mondo che può controllare completamente. Non resiste all’idea di accelerare o rallentare un combattimento tra due uccelli arrabbiati, inseriti in una grafica naturalistica dagli esagerati toni oscuri. Alla cosiddetta “St. Aegolious Home for Orphaned Owls” succedono cose turche.
Vi ha luogo un film teoricamente per bambini, nel quale la perfida fattucchiera dello storico ‘Excalibur’, l’amatissima Helen “Fata Morgana” Mirren (che il fan Zack Snyder incontra per la prima volta) dà la voce a una folle gufa fascista.
La stregoneria celtica dello smeraldino film del 1981 evoca cortecce australiane e penne di volatile che danzano nel fuoco.

Toccando il tema del misconoscimento e del dovuto riconoscimento dell’opera di Snyder, l’autore riesce a fare filosofia pratica, si toccano vette alte di filosofia parlando di filmografia in gran parte tratta dall’universo fumettistico.

Si tratta di tornare al significato originario della filosofia, alla passione e all’amore che l’hanno animata sin dai suoi albori.

Questa passione è stata consacrata in un’intervista congiunta fra autore e regista, come degno compendio e approfondimento ulteriore: https://www.youtube.com/watch?v=KYB2ZB27RQ4

Il libro-enciclopedia si può leggere a pezzi, modello consultazione.

Tuttavia, è con la lettura completa che se ne vede il percorso umano, intellettuale, passionale e filosofico che va al misconoscimento della società in un percorso che porta verso il giusto riconoscimento dell’autore.

Una sorta di mini-enciclopedia ragionata che serve non solo come consultazione, ma per pensare.

Recensione (Stefania Lombardi) a “La comunità dei viventi”, di Idolo Hoxhvogli
L’immagine, di proprietà dell’editore, è qui utilizzata solo ai fini previsti di trattazione del testo e d’incentivare la conoscenza e la diffusione dell’opera.

Recensione di Stefania Lombardi, Università europea di Roma

E-mail: stefania.lombardi@cnr.it

doi: 10.14672/VDS20242RE4

(https://doi.org/10.14672/VDS20242RE4)

Titolo: La comunità dei viventi

Autore: Idolo Hoxhvogli

Formato: 11.9 x 1.5 x 20 cm, p. 58

Editore: Editrice Clinamen, Firenze 2023

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Nota introduttiva: quella che segue non è propriamente una recensione con parti di dialogo ragionato sull’opera. Si tratta, più che altro, di consigli di lettura riguardo pubblicazioni molto particolari che, tra i vari spunti che possono offrire, si configurano anche come esempi dei temi dell’attuale bando della rivista che s’interroga fra riconoscimento e misconoscimento.
La morfologia, in quanto discorso sulle forme, è il principio di una filosofia dello spazio urbano. I profili architettonici, l’intreccio delle vie, le configurazioni fenomeniche degli edifici soni figure della possibilità. La costruzione è preceduta dal desiderio, strutturato in discorsi che parlano il parlante prima che il parlante parli. La città, nella sua concretezza, abita un ordine simbolico precedente allo sviluppo fenotipico. Per la filosofia dell’urbanistica sono imprescindibili l’archeologia delle convinzioni, la narratologia, l’ingegneria delle identità migranti (citazione dal libro).

Breve e intenso è “La comunità dei viventi” di Idolo Hoxhovogli che riprende, inconsapevolmente (e per questo ancora più notevole e prezioso), alcuni temi già tracciati dal filosofo Mario Guarna in “Il vivente. Ciò che Gesù non rivela, Tommaso non lo nasconde” con una splendida prefazione di Riccardo Roni.

Se in quella prefazione Roni parla del libro come una Spoon River dell’immanenza e che mira alla trascendenza, qui, come in uno specchio ribaltato, si potrebbe parlare di una Spoon River della trascendenza che cerca la salvezza nell’immanenza ma senza trovarla e senza smettere, tuttavia, di cercare, come è l’essenza stessa del filosofare più autentico.

Come in Antichrist di Lars von Trier abbiamo, qui, delle figure simboliche e archetipe. Sappiamo che in Antichrist il corvo è la morte, il cervo il dolore, e la volpe la disperazione.

In questo saggio di Hoxhovogli ci sono, invece, le figure simbolo e archetipo della libertà rappresentate dall’anarca, l’incognita, il mistero, l’animale.

Attraverso massime e aforismi, come se ci trovassimo dinanzi allo Zarathustra di Nietzsche, l’autore svela, poco alla volta, il suo pensiero, centellinato come in un percorso di formazione e di consapevolezza dove si giunge per gradi, perché “ciò che è profondo ama la maschera”, come direbbe Reale lettore di Platone.

Qui le voci sono plurali e non singolari perché l’essenza è consegnata a una pluralità.

Visionario e innovativo, questo saggio ci mette dinanzi a scelte, non scelte, possibilità, regno dei morti e critica (heideggeriana?) alla tecnocrazia, dove, nascosta e quasi impercettibile, resta sempre quella speranza che caratterizza la comunità dei viventi e il suo futuro.

Più che un saggio, ci troviamo dinanzi a un manuale per meditare e cercare degli indizi quando ci troviamo in situazioni apparentemente senza via d’uscita.

Perché una scelta c’è sempre e tutto inizia con una scelta, sbagliata, e può concludersi con un altro tipo di scelta. E, come sostiene l’autore, con la scrittura si può convertire l’essenza.

Recensione (Domenico Bilotti) a “Distruggere Assange. Per farla finita con la libertà d’informazione”, di Sara Chessa
L’immagine, di proprietà dell’editore, è qui utilizzata solo ai fini previsti di trattazione del testo e d’incentivare la conoscenza e la diffusione dell’opera.

Recensione di Domenico Bilotti, Università Magna Graecia – Catanzaro.

E-mail: domenico_bilotti@yahoo.it

doi: 10.14672/VDS20242RE3

(https://doi.org/10.14672/VDS20242RE3)

Titolo: Distruggere Assange. Per farla finita con la libertà d’informazione

Autrice: Sara Chessa

Formato: ‎14.9 x 2.4 x 21 cm, p. 256

Editore: Castelvecchi, Roma 2023 

Ciò che rende un volume di scienza ancor più urgente ed epistemologicamente, oltre che deontologicamente, necessario dei suoi stessi contenuti testuali probabilmente risiede nella necessità di colmare un baco informativo, altrimenti alto come una cortina nebbiosa. 

Del giornalista e mediattivista australiano Julian Assange sentiamo parlare sempre di meno, già poco sapendone, e per di più il “filtro” delle notizie rilevanti spesso mette sotto il cono di luce elementi a propria volta confusionari e inadeguati. In tale ottica, il lavoro monografico di Sara Chessa si rivela doppiamente utile: per fare ordine su una vicenda così malamente obliata, persino nei suoi profili più truci, e per rilanciare una vera discussione collettiva sul tema dei diritti nel rapporto tra istituzioni e cittadinanza. Proprio in questo secondo senso, anzi, l’analisi della Chessa si inserisce in un quadro generale nel quale l’istituzione non è più l’istituzione di prossimità del potere statale (la burocrazia amministrativa, il parlamento, il singolo giudice di una corte giurisdizionale), ma quel fascio di poteri diffusi di cui parlava Foucault. Si tratta d’un campo d’azione nel quale le attribuzioni del singolo sono cancellate e annullate in radice, proprio per l’incommensurabile disparità di forze tra libertà individuali e poteri trans-governativi. 

La notorietà di Assange s’era sviluppata in un primo tempo secondo tutt’altra direttrice. Attraverso l’organizzazione divulgativa WikiLeaks, già nel 2010, aveva avviato una campagna di diffusione di documenti statunitensi secretati, implicanti e involventi la commissione di crimini di guerra. Non era casuale il nome della realtà associativa per il tramite della quale pubblicava Assange. “Wiki” è diventato il prefisso di un nuovo enciclopedismo dal basso (potenzialmente radicale, innovativo, egalitario; nei fatti da sottoporre al giusto setaccio imposto da una ancora alluvionale dispersività). “Leaks” indica proprio la fuoriuscita involontaria di contenuti riservati. Per la prima parola, ovviamente, l’enciclopedia telematica Wikipedia ne ha sancito la fortuna, al punto che tutti i progetti digitali, anche settoriali, che vogliano porgere informazione il più possibile esaustiva, utilizzano “Wiki” pressoché come componente fissa del proprio brand. Per la seconda, “Leaks”, e il concetto di “to leak” (far emergere, far venire fuori, rilasciare in superficie), fu decisiva la precedente rivoluzione digitale di programmi come Napster, che consentivano l’ascolto gratuito di album musicali ancora inediti. L’ultimo disco della star di turno, nei dispacci delle agenzie di stampa internazionali, “leaks online”. E si presta, così, dal chiuso del diritto d’autore della grande discografia mondiale alla circolazione capillare del fanbase. 

Fatto sta che Assange riceve per quasi due anni attestazioni e benemerenze, di cui in qualche misura la Chessa dà conto, nel quadro di una rappresentazione naturale del reporter free lance che fotografa la nudità del re – altro topos della narrativa fiabesca di contenuto politico. Più fatto raccontato, rilasciato al suo inveramento concreto a lungo nascosto, che morale impastoiata. Senonché, proprio nel momento in cui l’affaire WikiLeaks sarebbe potuto essere vettore di una nuova domanda di trasparenza nell’esercizio dei pubblici poteri su scala trans-nazionale, comincia il personalissimo (e in realtà universale) calvario giudiziario internazionale di Assange. Non realizza qui alcuna utilità scandagliare il personaggio e il suo recepimento mainstream: all’epoca, non privo di spettacolarizzazioni, ombre e forse mai del tutto chiarificati scoop. Assange, preso d’entusiasmo, forse ci mette del suo e i suoi podcast via web, all’inizio degli anni Dieci, appaiono ai detrattori soltanto i salotti buoni di un pensiero di alternativa, in realtà non privo di inconfessate cointeressenze, con le interviste di Chomsky e Tariq Ali, le ospitate per Hezbollah e l’incondizionata simpatia verso ogni forma di potere aggregativo contrario all’asse anglo-americano. 

A Chessa va dato indiscutibile merito di non aver in nulla ceduta a questi opposti, e straordinariamente simili, chiacchiericci. Già nel novembre 2010, vieppiù, il giornalista è accusato di stupro, molestie e coercizione illegale. La legislazione svedese consente queste incriminazioni anche per i reati avverso i consenzienti, se non protetti e non preceduti dall’ottemperanza alla richiesta di controllo medico, sulle malattie sessualmente trasmissibili. Decisamente più impegnativa l’accusa che gli giunge dalla giurisdizione statunitense, ove si nomina espressamente l’attività di spionaggio – che, in base a quali circostanze aggravanti configurata, può persino giungere alla condanna capitale. Dal 2012 al 2019, Assange diventa perciò il sequestrato di lusso presso l’Ambasciata ecuadoregna a Londra. L’Ecuador sin dalla prima ora si era offerto di fornire protezione internazionale all’attivista, anche in ragione di previe ostilità col governo americano, e la concessione dello status di rifugiato politico appare inevitabilmente la prima e più percorribile veste giuridica per quella cooperazione. 

Qui chiude il prequel processuale, qui apre l’originale analisi di Sara Chessa, che parla di Assange in nome della libertà d’informazione, ma con tecnica di osservazione quasi diaristica: descrive in sostanza il diario di una discesa agli inferi, che dura almeno sette anni. Il prigioniero di lusso non esiste più: spiamo invece un uomo che soffre di panico, che è incalzato negli istmi di una libertà sempre più limitata, fino a temere accuse ignominiose mano a mano più morbose e addirittura rischi per la propria personale incolumità di vita. 

Perplessità di natura normativa e processualistica erano tangibili persino nell’attribuzione dello status di rifugiato, perché tali meccanismi, pur dietro una cornice internazionale di garanzia, finiscono per concretare una esagerata interrelazione tra le maggioranze politico-governative entro cui vengono determinati e la loro maggiore caducità e fragilità, nel momento in cui quegli stessi assetti di maggioranza si modificano. È proprio ciò che è successo ad Assange a partire dal 2019, quando, in modo del tutto irrituale, il governo ecuadoregno ha ristabilito la propria decisione in direzione opposta alla precedente, facendo così perdere al giornalista australiano anche quella sempre più tenue copertura legale e tuzioristica. 

La catabasi di Julian Assange raggiunge sin qui l’ultima stazione del suo calvario nella prigione Belmarsh del Regno Unito: accostata a Guantanamo, per quanto il paragone sia forzoso, è comunque tra le più note e sorvegliate carceri britanniche. Ciò non bastasse, le agenzie internazionali dei diritti umani (di natura non governativa) e le più autorevoli istituzioni inter-statali (come il Gruppo di lavoro costituito presso l’ONU in materia di detenzione arbitraria) avevano variamente censurato il trattamento procedurale e penitenziario subito dall’uomo. Volta per volta, venivano allegati i trattenimenti irregolari, la prolungata detenzione, il computo inesatto dei termini prescrizionali, le condizioni di prigionia peculiarmente restrittive, superiori a ogni indice di pericolosità anche solo potenziale dell’imputato. Ciascuno di questi aspetti meriterebbe autonoma trattazione giuridica, perché va a contraddire una copiosa giurisprudenza di garanzia che ha sempre stigmatizzato, e al peggior grado, ogni forma detentiva e preventiva di tale natura. Non solo per Assange queste cautele di natura giudiziaria non sono state attivate, ma – ciò sembra trasmetterci l’accorata riflessione di Sara Chessa – il dato intuitivo della vicenda è che Julian Assange è da tredici anni ininterrottamente sotto il bersaglio di una pena in assenza di condanna giusta, che proietta l’idea di una afflizione deliberata, intenzionale, disturbante. 

In tale ottica, non è qui tanto il solo Assange a interrogarci, ma la più diffusa condizione oggettiva dei detenuti “anonimi”, di ristretti e internati di ogni risma e per ogni ragione, per cui la situazione della punitività arriva molto prima di qualsivoglia condanna, trascinandosi per anni e profondendo un complessivo quanto inumano senso di inquietudine persistente. 

È altra probabilmente la peculiarità della vicenda Assange: non l’uomo solo contro le potenze del mondo (tra Stati Uniti, Gran Bretagna, Svezia ed Ecuador forse soltanto le prime due integrerebbero quella a-tecnica definizione), quanto e più il reietto ufficiale nei sistemi dell’informazione di massa. L’universalizzazione delle comunicazioni, nella prospettazione teorico-giuridica di Chessa, non è stata in nulla il viatico di una nuova democrazia digitale o, almeno, ha messo in mostra gli stessi limiti della democrazia rappresentativa, nello Stato costituzionale di diritto: manipolabilità e interesse del potere a veicolare i contenuti che vengono diffusi. Secondo quale criterio di attendibilità? 

Lo sforzo teoretico-costituzionale dei nostri tempi meriterebbe forse la pratica disvelativa e il cimento che Michael Walzer dedicò ai rapporti tra radicalismo politico e riforma religiosa e alle relazioni tra diritto di guerra e principio di legalità. Assange è, parafrasando le parole del filosofo statunitense della critical left, un “radical saint” che combatte “guerre giuste”? Anche in questo caso, il metodo paradigmatico dell’archeologia dei saperi potrebbe rimettere a fuoco la storia ininterrotta dei rapporti sovversivi tra la limitazione dell’arbitrio governativo e la diffusione e la conoscenza dell’informazione giuridicamente rilevante. Dall’obbligo di dire la verità della teologia cataro-valdese fino all’obbligo di dissimulazione a difesa della comunità nella cultura sciita, passando per le pratiche di autoesclusione della morale quacchera, i rapporti tra singolo e autorità hanno, tra i loro tanti presupposti, proprio quello dell’asimmetria informativa. Fino a che punto il residuo fisso di segretezza, insito nelle trattative e nei negoziati volti alla messa in opera della pratica di governo, può giustificare la mancanza di conoscenza e, in caso di violazione di quella segretezza, una penetrante opera di marginalizzazione e persecuzione?   

Di sicuro, la libertà d’informazione non è un servizio incidentale al corretto svolgimento della liberal-democrazia sorta dall’elaborazione borghese e rivoluzionaria illuministica. Essa, anzi, ci si presenta contemporaneamente come necessità storica e come presupposto morale, in una molteplicità di declinazioni politologicamente percorribili. Da questo punto di vista, una omologa intuizione, stando alla teoria politica italiana, sorregge tanto la massima einaudiana del “conoscere per deliberare” quanto la rivendicazione socialista di Antonio Gramsci, per cui la verità è sempre atto rivoluzionario. Nel primo senso, la conoscenza è il presupposto per la selezione argomentativa che conduce alla decisione collettiva; nel secondo, in una dottrina filosofica che mette al centro il ribaltamento dello stato di cose presente, fare circolare il funzionamento sostanziale dei poteri reali significa metterne a nudo la capacità, l’ipocrisia, la marxiana falsa coscienza. 

A questi presupposti teoretici, il pensato e non breve lavoro di Sara Chessa aggiunge una convincente carica umana, che non è orpello affettivo, ma tessuto connettivo profondo, nella battaglia per le libertà fondamentali: l’immedesimazione nell’ingiustizia patita, il racconto in diretta delle sofferenze che per mezzo di essa vengono inflitte. Come e molto più di Antigone, nella Tebe violenta, particolaristica e ghettizzante della governance globale. Tra le fumanti macerie di ogni conflitto esiziale, si alza, appena un soffio, ma potentissima nel generale frastuono, la voce del padre afflitto, del genitore sconfitto. Così l’intervista inedita a John Shipton, padre dell’attivista australiano, si eleva a ulteriore testimonianza di un caso che, dall’intimissima forma del dolore individuale, suggerisce la piena e vera universalità della posta in gioco.  

Recensione (Domenico Bilotti) a “Cronaca, critica e satira: istruzione per l’uso. Linee guida per giornalisti, creator digitali e utenti della rete”, di Fabrizio Criscuolo, Vincenzo Cardone e Francesco Verri
L’immagine, di proprietà dell’editore, è qui utilizzata solo ai fini previsti di trattazione del testo e d’incentivare la conoscenza e la diffusione dell’opera.

Recensione di Domenico Bilotti, Università Magna Graecia – Catanzaro.

E-mail: domenico_bilotti@yahoo.it

doi: 10.14672/VDS20242RE2

(https://doi.org/10.14672/VDS20242RE2)

Titolo: Cronaca, critica e satira: istruzione per l’uso. Linee guida per giornalisti, creator digitali e utenti della rete

Autori: Fabrizio Criscuolo, Vincenzo Cardone e Francesco Verri

Formato: 24 x 17 x 1.5 cm, p. 218

Editore: La Tribuna, Piacenza 2023

Il più interessante risultato ermeneutico di questo volume di Criscuolo, Cardone e Verri è quello di potersi a tutti gli effetti classificare come uno zibaldone delle possibili intersezioni tra la libertà di manifestazione del pensiero e i nuovi ritrovati tecnico-digitali. Se Walter Benjamin già nel 1936 aveva capito che una delle realizzazioni espressive tipiche dell’umano intelletto (l’opera d’arte) sarebbe stata completamente ridisegnata dall’avanzamento massificato della produzione, in “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”, al giurista e all’operatore digitale dei giorni nostri serve incrociare le opportunità ricchissime della divulgazione col kit delle libertà fondamentali che il costituzionalismo ha messo sotto la sua ala di protezione. Uno scudo, per vero, che se già difettoso di fabbrica oggi svela rughe e ruggini, ma che necessita di quel savio lavoro di manutenzione e potenziamento che solo una nuova fucina di Efeso può portare alla luce.

La pubblicazione ha poi il merito di assecondare un tipo di trattazione nella quale certo lo specialista rinviene la giurisprudenza rilevante in modo dovizioso, ma in cui il non addetto ai lavori non si trova mai spiazzato, semmai potendo percorrere il testo alla ricerca delle suggestioni che più gli sembrino pertinenti. Soprattutto nelle titolazioni, il saggio combo autoriale ha preferito che i precedenti più significativi della stretta attualità (trasmissioni televisive o campagne pubblicitarie o network della rete) fossero ricordati sulla base del nome proprio del contendere (marchio, persona, sito), e non con l’indicazione numerica della singola pronuncia. È un’accortezza pregiata: si comprende subito di cosa si stia parlando.

La struttura redazionale del volume rende ulteriormente più semplice questo processo, perché nella prima sezione domina una larghissima panoramica di sistema sulla libertà di stampa – alle radici del sistema informale di pesi e contrappesi nella realtà sociale angloamericana. Nei due capitoli conclusivi, invece, gli aspetti tecnico-procedurali, che invero sembra dovrebbero sempre comunicare con la critica della politica legislativa, ma che è comprensibile interessino più alla categoria forense che se ne occupa e meno al lettore in cerca di approfondimenti circostanziati sulle tematiche sostanziali. Nel mezzo c’è la “carne” del libro: la ragione specifica della sua strettissima attualità. Il senso di una continuità logica, viepiù, che manca spesso alle pubblicazioni collettanee.

Non v’è dubbio che la libertà d’opinione, pur così rilevante nel prisma del socialismo liberale e del costituzionalismo liberaldemocratico, non possa pensarsi del tutto sciolta da vincoli, che sono qualitativamente diversi in ogni caso dal limite della censura nello Stato totalitario e in quello paternalista. Lì, nella prima ipotesi, controllo preventivo di conformità alle strutture obbliganti e obbligate della circolazione delle idee, e, nella seconda, scelta condizionante di contenuti che orientino pedagogicamente l’obbedienza. Qui, invece, massimizzazione del diritto di libertà nella sola guaina contenitiva della dignità umana e della reputazione personale: non il piccato amor proprio dell’offensività, chiosano opportunamente gli Autori, ma il senso proprio di non aggredibilità della sfera intima della persona. L’unica eccezione da norma residuale diviene perciò non paradossalmente ulteriore conferma della scelta sistematica tipica di ogni legislatio libertatis: la non punibilità della diffamazione commessa in stato d’ira dopo aver subito un torto – ontologicamente, c’è una certa somiglianza di famiglia, direbbe Wittgenstein, col senso dell’attenuante dell’aver agito per suggestione di folla in tumulto. Individuo e comunità … comunicano.

Questo delicato bilanciamento ha proiezioni anche nella parte dedicata al diritto di cronaca, dove ci sembra siano due le ipotesi rappresentative dei poli opposti del discorso: da un lato, la crescente valorizzazione semantica del contesto espressivo (sommatoria di immagini, articoli, canali di diffusione e platea potenziale di destinatari) rispetto alla nudità semiologica della semplice interpretazione letterale; dall’altro, la recente scoperta di un “diritto all’oblio”, come situazione soggettiva nella quale si chiede la rimozione gnoseologica del fatto sconveniente a detrimento della persona.

Con efficace sintesi, il terzo capitolo appare l’architrave del volume, essendo tutto incentrato sui rapporti tra il diritto di critica e la satira. Proprio trattando di questo argomento, ovviamente, si nota la persistente attualità di risalenti filoni individuati dalla critica del diritto di matrice giusprivatistica e dalla teoria politica di orientamento progressivo. Sicché, se si volesse brutalmente sintetizzare, a essere esclusa da ogni forma di tutela sarebbe la tendenziosità insultante, mentre sempre destinataria di una cintura di protezione legale dovrebbe essere la buona fede (del lettore, del destinatario della comunicazione, del professionista che la esercita). Senonché queste ovvie coordinate assiologiche di fondo risentono sempre di più dello stress test non tanto dei nuovi mezzi di comunicazione, ma delle nuove forme di diffusione che in essi sono state plasmate. Facendosi sapidamente apprezzare anche dal lettore occasionale, allora, l’analisi tratta della revenge song di Shakira contro il compagno fedifrago – che implicitamente contiene il deprezzamento dell’amante complice. È cosa strutturalmente diversa dal dissing della cultura rap, nella quale attraverso strofe in rima i vocalist si fronteggiano intorno alla rispettiva coerenza, ché quello, al limite, può richiamare – dovessimo cercargli un padre “nobile” – le satire latine o certe sciarade al vetriolo nella tradizione della composizione sirventese.

D’altra parte, cresce il rilievo dei siti che offrono recensioni agli utenti e il controllo reputazionale dell’avviamento nella gastronomia ne esce spesso sfalsato, ingenerando dinamiche in cui l’influencer può essere variamente accattivato da benefit e situazioni di sgradevole bersagliamento prive di riscontro qualitativo avvengono con pari frequenza. Bella la chiusura sulla satira televisiva. Ci si concederà che ci siamo abituati a un tempo esageratamente pruriginoso, nel quale la tentazione preventiva è quella di sterilizzare il perimetro fendente di ogni dissacrazione contropotere. Quella sterilizzazione è, vieppiù, ben altro che neutralistica, dal momento che o informa una pericolosa tentazione totalmente antipolitica (tutti uguali, prevalga il più violento!) o un conformismo melassa nella quale l’unica stella polare non è più genuinità e libertà d’informazione ma non suscettibilità del potere politico o del gruppo sociale. 

Avendone i tre Autori la statura, piacerebbe che un secondo tempo di questa preziosa ricerca potesse diventare uno sguardo panoramico e comparatistico a ciò che succede negli altri sistemi. L’Italia ha il triste primato, censito da associazioni internazionali e largamente sperimentato da tutti nella quotidianità, della maggior circolazione di notizie false e tendenziose, che non hanno nulla di satirico o antifrastico, ma che sono consapevolmente portate avanti da una mole eterodiretta di condivisioni e ri-condivisioni. Affacciarsi sul trattamento giuridico delle fake news in ordinamenti altri (dove il dissenso è costretto a inerpicarsi sul web o dove la barra della coscienza collettiva riesce a trovare più alti spalti di resistenza che da noi) avrebbe l’indiscutibile valenza di condurre il tema della libertà di manifestazione del pensiero a quel livello di interpretazione interculturale necessitato dai nostri tempi di periferie globali. 

Recensione (Luigi Somma) a “L’avventura del Metodo. Come la vita ha nutrito l’opera”, di Edgar Morin
L’immagine, di proprietà dell’editore, è qui utilizzata solo ai fini previsti di trattazione del testo e d’incentivare la conoscenza e la diffusione dell’opera.

Recensione di Luigi Somma, Università degli Studi di Salerno.

ORCID ID: 0009-0006-1236-3484

E-mail: lsomma@unisa.it

doi: 10.14672/VDS20242RE1

(https://doi.org/10.14672/VDS20242RE1)

Titolo: L’avventura del Metodo. Come la vita ha nutrito l’opera

Autore: Edgar Morin

Formato: 22.6 x 2.2 x 14 cm, p. 160

Editore: Raffaello Cortina Editore, Milano 2023

È nell’incontro tra vita e opera, nell’intreccio complesso, e le sue “ramificazioni ricorsive”, tra vita e pensiero che Edgar Morin pone le basi per il suo Metodo, frutto di una lenta e faticosa gestazione durata circa trent’anni; all’interno della quale si può collocare il suo tentativo di liberare la Complessità dalle secche del paradigma riduzionista e semplificatore, quale risultato di un sistema educativo che, fedelmente alla concezione cartesiana, ci insegna a riconoscere nella chiarezza e nella distinzione gli elementi di discrimine e di validazione di qualsivoglia percezione o descrizione del reale. Ancor prima dell’elaborazione del Metodo, Morin aveva già dato pieno accoglimento alla sfida della Complessità[1], giungendo alle radici di quel sentire comune che usava attribuire a ciò che era Complesso i significati arduo, spinoso, confuso e inestricabile:

la parola complessità, nel suo uso banale, significa tutt’al più non è semplice, non è chiaro, non è né bianco né nero[2].

Comprendere come il pensiero possa germinare l’opera significa non soltanto cogliere nelle note autobiografiche di una vita le tappe fondamentali dei rivolgimenti e travalicamenti del suo pensiero, ma anche cogliere niccianamente quel legame inscindibile che fa del pensiero una “struttura mobile” della vita, del suo incessante e caotico divenire (physis):

Da allora la mia vita e la mia opera divennero inseparabili, giacché la mia vita nutriva la mia opera e di rimando la mia opera nutriva la mia vita[3].

Ricostruire le traiettorie dell’opera composita ed eterogenea di Edgar Morin è un compito assai arduo, e tale saggio intende, a mio avviso, tutt’al più contrassegnarne lo spirito in esse operante.

Il “cammino” verso l’elaborazione del metodo è l’esito ultimo di un’interrogazione radicale sul metodo stesso, sui principi e le “metodologie” attraverso le quali regoliamo le nostre conoscenze.

«Abbiamo bisogno di un metodo di conoscenza che traduca la complessità del reale»[4], ossia riconoscere come il modo di pensare dominante fosse regolato da paradigmi mediante i quali organizziamo la nostra conoscenza: i principi d’ordine, di separazione, di riduzione e il carattere assoluto della logica deduttivo-identitaria (i quattro pilastri di certezza).

Se il principio di riduzione «tende a ricondurre il conoscibile a ciò che è misurabile», a ciò che è determinabile mediante quantità misurabili e quindi formalizzabile e riproducibile; dall’altra, il principio di separazione astrae un elemento dal suo contesto, obliterando le (retro)interazioni e le interconnessioni con il suo ambiente, separando ciò che non è separato, eludendo le contraddizioni apparentemente inconciliabili interne ai fenomeni, infine obliterando ciecamente quanto non sia riconducibile a leggi generali, a principi d’ordine e ad un carattere rigidamente deterministico.

La difficoltà insita nel cammino del metodo risiede “nella ricerca stessa di un cammino”, nel rendere conto del processo auto-illusorio (self-deception) con cui erigiamo le basi di un falso sapere, della menzogna insita nell’atto di conoscenza della (propria) realtà. In tal modo, Morin introduce l’idea dell’auto-osservazione e dell’auto-conoscenza, enunciando che “ogni osservatore dovrebbe integrarsi nella sua osservazione e ogni attore osservarsi nella sua azione”[5]. È nella lotta contro “la maschera della pseudo-oggettività” che si traduce morinianamente l’introduzione di uno sguardo soggettivo sulla realtà dei fenomeni; diviene importante nel Metodo riconoscere il ruolo attivo del soggetto/osservatore nell’atto di costruzione della realtà; tuttavia, ciò richiede non soltanto una conoscenza della complessità della realtà, bensì un’operazione individuale di autoverifica delle proprie convinzioni (illusioni), una lotta costante contro la self-deception, contro le proprie menzogne, alle fondamenta delle proprie possibilità di conoscenza. Ed è soltanto tramite questo lavoro di scavo interiore che è possibile giungere ad una Conoscenza Complessa, cioè ad una conoscenza (una conoscenza della conoscenza/una epistemologia della epistemologia) che torni a riflettere sui propri principi di conoscenza, per poter cogliere la trama complessa della realtà, conoscendone non soltanto i singoli fili dell’arazzo nella loro separatezza, e nemmeno il disegno complessivo che essi compongono, ma la profonda interconnessione esistente tra la trama totale e le sue singole parti, così come la (inter-retro)relazione esistente tra le parti stesse. Giacché tale  inter(retro)relazione tra le sue parti può produrre proprietà emergenti, definendo il ciclo di feedback mediante il quale esse tornano a retroagire sulla stessa. È la metafora del baniano, i cui «ramoscelli cadendo a terra, si trasformano in nuove radici che trasformano i rami in nuovi tronchi»[6]. Quale simbolo del ciclo ricorsivo inerente ai processi complessi, i cui “prodotti divengono produttori di ciò che li produce”[7]. Osserviamo emergere la nozione di sistema complesso, banalmente tradotto dalla teoria sociale come l’organizzazione di parti differenti in un tutto, a cui Morin aggiunge il concetto di auto(eco)organizzazione: ciascun sistema determina la propria autonomia soltanto in co-dipendenza con il proprio ambiente, poiché è da esso che trae l’energia (ossia informazioni, energie fisiche e biologiche) necessaria a garantirne il funzionamento. Soltanto i sistemi complessi viventi sono in grado incessantemente di auto-organizzarsi spontaneamente, di stabilire un tale rapporto di co-dipendenza con il proprio ambiente. Bisogna anche precisare come Francis Varela e Humberto Maturana abbiano elaborato una propria concezione di sistema, che presenta alcune caratteristiche parzialmente analoghe. Essi in “Autopoiesi e cognizione La realizzazione del vivente”[8] indicano nella nozione di autopoiesi un sistema autoreferenziale che produce e riproduce gli stessi elementi di cui è costituito. Sono sistemi capaci, pertanto, di auto-organizzarsi, che si caratterizzano quali entità sistemiche dotate della proprietà dell’autonomia. In tal senso, la nicchia è frutto di una selezione operata dall’osservatore nell’ambiente, nel quale è definita la classe di interazione nel quale esso può entrare:

L’osservatore guarda simultaneamente l’organismo e l’ambiente e considera come nicchia quella parte dell’ambiente che egli osserva trovarsi nel suo dominio di interazioni[9].

Quindi, in definitiva, se per l’osservatore la nicchia costituisce comunque parte dell’ambiente, per il sistema osservato essa è l’intera realtà cognitiva. Ciò sta a significare che la nicchia non può essere definita indipendentemente dal sistema che la specifica. È evidente che soltanto un’unità complessa, o anche composita, possiede una struttura e un’organizzazione:

mentre due unità semplici interagiscono  mediante le semplici influenze reciproche delle loro proprietà, due unità composite interagiscono in maniera determinata dalla loro organizzazione e struttura mediante le influenze reciproche delle proprietà dei suoi componenti[10].

In maniera similare, ma con un sentimento di maggiore apertura all’esterno, all’altro, alla rielanza[11], Morin scrive che

ogni auto-eco-organizzazione vivente comporta un computo: una computazione di sé per sé dei processi interni all’organismo, da una parte, dei dati e degli avvenimenti esterni dall’altra. Ogni essere vivente, dagli organismi monocellulari alla sequoia e all’essere umano, si autoafferma ponendosi al centro del mondo […] lo condurrebbe però all’egoismo stretto se non esistesse in ogni soggetto vivente anche un bisogno di rielanza, al suo simile, di integrazione in una comunità, in un noi[12].

Egli inscrive, inoltre, tale processo nella triade disordine/ordine/organizzazione, enfatizzando come da stati caotici ed entropici possano sorgere nuove forme d’ordine, e, quindi di “organizzazione complessa”, quale processo ininterrottamente ricorsivo e genesico:

Ho capito radicalmente che tutto ciò che non reca il segno del disordine elimina l’esistenza, l’essere, la creazione, la vita, la libertà, e ho capito che ogni eliminazione dell’essere, dell’esistenza, del sé, della creazione è demenza razionalizzatrice. Ho capito che l’ordine da solo è soltanto un bulldozer, che l’organizzazione senza disordine è l’asservimento assoluto. Ho capito che occorre temere non il disordine ma il timore del disordine[13].

D’altra parte, il riconoscimento della complessità del reale, dei suoi processi e fenomeni è strettamente connesso ad una rieducazione al pensiero complesso, ossia posto in termini moriniani, ad una “riforma del pensiero”.

A tal proposito, Morin prospetta il ritorno ad un “Umanesimo rigenerato”:

non abbiamo bisogno di un nuovo umanesimo rigenerato, abbiamo bisogno di un umanesimo tornato alle origini e rigenerato[14].

È, dunque, necessario porci oltre le separazioni dicotomiche sulle quali, da Descartes a seguire, si è fondata la cultura occidentale; pensare, ad esempio, oltre la separazione tra natura e cultura, laddove v’è un certo umanesimo che si rivolge all’uomo come un essere divinizzato, destinato al dominio della natura (homo sapiens/faber/oeconomicus). Se da una parte, le scienze umanistiche concepiscono esclusivamente “l’uomo culturale” e dall’altra quelle scientifiche quello “biologico”, è soltanto attingendo ad una “conoscenza globale dell’umano” che si potrà afferrarlo nella sua intrinseca complessità. Ne Il paradigma perduto e ne L’identità umana, si muove il tentativo di Morin di restituire una definizione dell’umano, procedendo oltre le sue separazioni, nella sua “santa trinità”: esso è nel contempo individuo singolare, appartenente alla specie umana e membro della società. È nella co-dipendenza e inter-correlazione tra di esse, e nella comunità di destino che le riassume tutte che si rivolge un nuovo ipotetico umanesimo. Come possiamo disconoscere, così come è posta da Morin, la molteplice natura dell’essere umano, dell’Homo complexus? Dal momento che esso è, nel contempo, homo sapiens e homo demens; ragione e follia; Homo oeconomicus e Homo ludens, ed è soltanto nella comprensione della polarità tra gli opposti, della contraddizione intrinseca che lo attraversa, che possiamo attivare un processo dialettico che ponga in comunicazione reciproca le due polarità della ragione calcolante e del pensiero delirante; poiché è soltanto nella “ragione emotiva”, nel riconoscimento di una ragione capace di riattivare il centro delle emozioni, nel cerchio aperto che li dialettizza, che possiamo ritrovare la realtà profonda dell’umano. «L’umanesimo rigenerato è essenzialmente un umanesimo planetario[15]», in grado di concepire l’essere umano, al di fuori degli abiti dell’homo faber, l’uomo della tecnica, allo scopo di non assoggettare il destino dell’umanità ad una concezione tecno-deterministica del progresso, e, pertanto, di riconoscere nell’umano l’importanza antropologica dell’immaginario e del mito; infine, di riconoscere l’essere umano quale parte di un unico destino planetario, di un unico ecosistema complesso, nel quale esso opera ed operato.

Fare ricorso ad una tale “ragione sensibile, aperta e complessa” significa, per Morin, “rivitalizzare la solidarietà e la responsabilità per prolungare l’ominizzazione in umanizzazione”, infrangere la barriera degli individualismi, far sorgere l’io in senso alla comunità e a un Noi universalistico.

In conclusione, si può iscrivere al cuore della ricerca moriniana di un metodo (di conoscenza) la “crisi della ragione”; abbiamo assistito, difatti, al consolidarsi di “razionalizzazioni” chiuse, così anche l’urbanizzazione, la burocratizzazione e la tecnologizzazione si sono realizzate mediante il ricorso alle regole e i principi della razionalizzazione. Quando la razionalità si costituisce quale razionalismo sancisce il suo assolutismo; essa, cioè, pretende di piegare la realtà ai suoi principi, alle sue regole, fondando un ordine per nulla fondato sulla realtà: “la ragione diventa il grande mito unificatore del sapere, dell’etica e della politica”. Si comprende come ciò abbia posto le condizioni per l’obliterazione di una grande porzione della realtà, e, proprio a quelle dimensioni complesse della stessa, che ineriscono al soggettivo, al caso, al disordine, alla contraddizione, ora relegate al piano del non razionalizzabile. A essa, Edgar Morin, suggellando la sua contraddizione interiore tra scetticismo e volontà di verità, poi tradotta nel Metodo, contrappone una razionalità (complessa) aperta; ossia una ragione che, abbandonando un “modello di ordine” in favore di un “modello di organizzazione (che leghi insieme ordine e disordine), sappia riconoscere i propri limiti e combattere i mostri interiori delle illusioni, che, infine non si lasci “possedere” dalle proprie idee, divenendo invece una “ragione dialettica vivente”, in grado di ristabilire una dialettica “aperta” tra razionale e reale, che non determini, in definitiva, un dominio assoluto della ragione su di esso.


[1]Morin, Edgar. La sfida della Complessità, Firenze: Le Lettere, 2017.

[2]Morin, 27.

[3]Morin, Edgar e Francesco Bellusci, cur. L’avventura del Metodo. Come la vita ha nutrito l’opera. Milano: Raffaello Cortina Editore, 2023, 67.

[4]Morin, 43.

[5]Morin, 48.

[6]Morin, 47.

[7]Morin, 47.

[8]Vedere nota successiva.

[9]Maturana, Humberto R. e Francisco J. Varela. Autopoiesi e cognizione: La Realizzazione del Vivente. Milano: Raffaello Cortina editore, 2001,  56.

[10]Maturana, Humberto R. e Francisco J. Varela, 34.

[11]Morin ha coniato il termine rielanza come unione di due parole francesi: relier (unione) e alliance (alleanza).

[12]Morin, Edgar e Francesco Bellusci, cur. L’avventura del Metodo. Come la vita ha nutrito l’opera. Milano: Raffaello Cortina 2023, 79.

[13]Morin, Edgar. Il Metodo. 1. La natura della natura, 450.

[14]Morin, Edgar. L’avventura del Metodo. Come la vita ha nutrito l’opera (edizione italiana a cura di Francesco Bellusci), Milano: Raffaello Cortina, 2023, 89.

[15]Morin, 114.