Il Nichilismo oggi. Uno sguardo sul saggio “L’ospite inquietante” di Umberto Galimberti e oltre
L’immagine, di proprietà dell’editore, è qui utilizzata solo ai fini previsti di trattazione del testo e d’incentivare la conoscenza e la diffusione dell’opera.

Recensione di Davide Orlandi, Universidad de Granada.

ORCID ID: 0009-0007-2102-625X

E-mail: orlandi.dav@tiscali.it

doi: 10.14672/VDS20242RR1

(https://doi.org/10.14672/VDS20242RR1)

Titolo della recensione: Il Nichilismo oggi. Uno sguardo sul saggio “L’ospite inquietante” di Umberto Galimberti e oltre

Titolo del saggio: L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani.

Editore: Feltrinelli, Milano 2008

Dio è morto […] e noi lo abbiamo ucciso! […] non ci fu mai un’azione più grande. Tutti coloro che verranno dopo di noi apparterranno, in virtù di questa azione ad una storia più alta di quanto mai siano state tutte le storie fino ad oggi.
Nietzsche, La gaia scienza
Se l’uomo è un essere volto alla costruzione di senso, nel deserto dell’insensatezza che l’atmosfera nichilista del nostro tempo diffonde, il disagio non è più psicologico ma culturale. E allora è sulla cultura collettiva e non sulla sofferenza individuale che bisogna agire […] I nostri giovani non si interrogano più sul senso della sofferenza propria o altrui, come l’umanità ha sempre fatto, ma sul significato stesso della loro esistenza che non appare loro priva di senso perché costellata dalla sofferenza, ma al contrario appare insopportabile perché priva di senso.
Umberto Galimberti, L’ospite inquietante

Tra la prima e la seconda citazione vi è racchiusa tutta la storia e l’evoluzione del pensiero del ventesimo secolo.

I giovani della mia generazione non provano né la tensione tipicamente leopardiana verso la ricerca di senso né la convinzione di Nietzsche di un’umanità resa più grande, in seguito all’accettazione della tragicità del vivere. Quello che emerge, pertanto, è un diffuso senso di vuoto e assenza di speranza nei confronti del futuro.

Tale evoluzione attuale della percezione della vita può esser ben spiegata attraverso un’analisi approfondita del saggio del filosofo Umberto Galimberti, riassunta in tre concetti fondamentali.

L’evoluzione del pensiero filosofico occidentale

Solo verso la fine dell’Ottocento furono messe in crisi tutte le certezze, e le istituzioni religiose e morali create dall’uomo nei secoli precedenti.

L’uomo scopre di essere inorganico, incompiuto, molteplice e scopre la falsità delle certezze che erano state edificate con il fine di controllare e dominare il caos dell’esistenza.

Proprio in Nietzsche tale consapevolezza porta alla rottura con la tradizione e con la messa in discussione della struttura intera della cultura occidentale, fino a teorizzare il Nichilismo, ovvero la perdita di valore di ogni valore supremo.

In contrasto sia con l’Idealismo sia con il Positivismo il filosofo di Röcken esalta la civiltà presocratica per il suo senso tragico che è l’accettazione della vita così come è.

Immagine emblematica di questo “sì totale al mondo” è Dioniso, forza istintiva, simbolo di un’umanità in perfetto accordo con la natura.

Nei secoli successivi, con le costruzioni della metafisica e della religione, l’uomo ha maturato sempre di più la pretesa di dominare la vita attraverso la ragione.

Tutto ciò ha prodotto la decadenza della cultura occidentale che culmina con la “morte di Dio”, quale eliminazione di tutti i valori prodotti dall’umanità. Ciò che resta a questo punto all’uomo, ritrovatosi nel “Nulla”, è il mondo e l’accettazione di sé stesso e della sua tragicità dell’esistenza; solo così, infatti, può possedere quell’ ‘amor fati’ che lo concilia gioiosamente al reale, accettando come necessario l’eterno ritorno della vita e facendo fronte alla svalutazione di tutti i valori.

A distanza di un secolo, però, l’uomo nuovo non è stato in grado di crearsi nuovi valori partendo da sé né è stato in grado di accettare la concezione circolare del tempo, in cui ogni attimo è ritenuto di fondamentale importanza in quanto ripetibile.

La libera creazione di senso, al contrario, ha ceduto il posto all’indifferenza o all’insensatezza. 

L’affermazione della tecnica

All’evoluzione del pensiero in questa direzione nichilista si aggiunge l’affermazione della Tecnica, data dall’evoluzione stessa delle conoscenze scientifiche.

La Tecnica porta ad una totale trasformazione del mondo, obbligando l’uomo ad adattarsi ai suoi ritmi e cambiamenti.

La Tecnica non ha uno scopo né un fine, funziona e basta, travolgendo con crescente rapidità tutte le distinzioni di cultura e valori che caratterizzavano l’uomo pretecnologico.

Il primato del mercato e delle sue leggi

L’innovazione della tecnica e la capacità di produzione e commercializzazione a livello planetario hanno portato ad un rapido cambiamento sociale, il tutto collegato allo sviluppo di un capitalismo industriale.

Ogni forma di etica è stata, infatti, soppiantata dalle leggi dell’economia di mercato imposte negli ultimi tempi. Il denaro è il cosiddetto “unico generatore simbolico” di una società dove produzione e consumo sono le facce di una stessa medaglia, che non produce alcuna felicità.

Si producono merci, infatti, per soddisfare determinati bisogni, ma si producono anche altrettanti bisogni per garantire la continua produzione delle merci che assicurano denaro. Si conferma così il carattere nichilista della nostra cultura economica, che eleva il non essere di tutte le cose a condizione di esistenza.

Soprattutto i giovani sono le vittime di questo processo, i quali ricercano la propria identità nelle cose che possiedono e che sono continuamente a disposizione di cose prima ancora che in loro sorga l’emozione desiderante, facendo sì che ogni cosa è consumata con totale indifferenza e in maniera individualistica. Tale atteggiamento di indifferenza e consumo di merci pervade più in generale il consumo dei divertimenti e di tutti gli aspetti della vita.

Il malessere dei giovani

(futuro come promessa > futuro come minaccia)

Il riferimento non è al dolore o al pianto, ma all’impotenza, alla disgregazione e alla mancanza di senso, che fanno della crisi attuale qualcosa di diverso dalle altre a cui l’Occidente ha saputo adattarsi, perché si tratta di una crisi dei fondamenti stessi della nostra civiltà (Umberto Galimberti, L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani).

I fattori di cambiamento culturale e materiale appena descritti hanno portato nei nostri giorni ad una crisi profonda, perché ciò che è stato scardinato è la percezione del futuro come promessa, la convinzione, cioè, che la storia dell’uomo sia una storia di progresso e di salvezza.

L’Occidente, una volta abbandonato il pessimismo degli antichi greci, che nell’ottica di Nietzsche “sono stati gli unici ad avere avuto la forza di guardare in faccia il dolore”, si è consegnato all’ottimismo della tradizione giudaico-cristiana che, sia nelle forme della religione sia nelle forme laicizzate della scienza, utopia e rivoluzione, guardava il passato come male, il presente come redenzione e il futuro o progresso (scientifico o sociologico) come salvezza.

La morte di Dio, infatti, non ha lasciato solo orfani, ma anche eredi, quali la scienza, l’utopia e la rivoluzione che assicuravano un domani luminoso e felice grazie ai progressi della scienza.

Sul versante sociologico Marx, per esempio, analizza le contraddizioni del sistema capitalistico in vista di una radicale trasformazione del mondo, mentre sul versante psicologico Freud ipotizzava un prosciugamento delle forze inconsce non controllate dall’Io, perché “dov’era l’Es deve subentrare l’Io. Questa è l’opera della civiltà”[1].

Questa visione ottimistica, però, è crollata; Dio è davvero morto e i suoi eredi (scienza, utopia e rivoluzione) non hanno mantenuto la promessa.

Inquinamenti di ogni tipo, disuguaglianze sociali, esplosioni di violenze, forme di intolleranza, guerre ed altrettanti disastri economico-sociali, fanno precipitare il futuro dall’estrema positività all’estrema negatività.

E questo perché se è vero che la tecno-scienza è progredita nella conoscenza del reale, getta allo stesso tempo in una forma di ignoranza che è quella che rende incapaci i nostri giovani di far fronte a problemi esistenziali; gli stessi, d’altra parte, che Nietzsche affermava di accettare come “amor fati”, senza nascondersi dietro alle false illusioni delle religioni, costruendo il senso della propria esistenza nel contatto con la vita terrena e i suoi valori.

Presa di coscienza

Una delle prime reazioni di fronte a tali problemi che inquietano l’uomo e che ruotano paurosamente attorno all’assenza di senso potrebbe essere la mera presa di coscienza, priva di una qualche prospettiva di cambiamento.

Senza più ancore a cui aggrapparsi, religiose, metafisiche o trascendentali che siano, l’uomo ormai si sente perso di fronte al “Nulla” dilagante e ogni sua azione propositiva appare assurda, senza senso e quasi inutile.

Proprio questa metafisica angoscia, senso di sradicamento, assenza di progetti per il futuro e inazione erano le tematiche su cui si incentravano le opere teatrali scritte dal celebre drammaturgo Samuel Beckett.

Il suo teatro, infatti, può essere considerato come un esempio tangibile di un tipo di reazione “apatica” di fronte ad una drammatica situazione, tipica di chi, seppur consapevole di quanto sta accadendo, aspetta un avvenimento che appare imminente, non facendo assolutamente niente affinché questo si realizzi.

Questo è l’atteggiamento dei due protagonisti, Vladimir e Estragon, di Waiting for Godot (1954).

I due barboni, infatti, si limitano ad aspettare sulla panchina invece di avviarsi incontro a Godot, il misterioso personaggio tanto atteso, ma che mai si presenta all’appuntamento.

L’opera è stata considerata come il punto di inizio dell’absurd drama, in quanto, divisa in due atti, presenta una trama ridotta all’essenziale, costituita solo dall’evoluzione di micro-eventi.

Non ha personaggi intesi nel senso tradizionale, aventi cioè una personalità caratteristica; non presenta dialoghi, ma solo una serie di discorsi sconnessi e superficiali, inerenti ad argomenti futili e banali, da cui emerge il nonsenso della vita umana. Non c’è sviluppo nel tempo, poiché non sembra esistere possibilità di cambiamento.

Beckett, del resto, non voleva proporre alcuna soluzione, egli, così come molti altri esponenti del famoso theatre of absurd, era convinto che analizzando il problema si rischiava solo di semplificarlo, bloccandole la comprensione finale della verità (when you try to systemize, you simplify and stop understanding the truth).

Così il fine delle sue opere era semplicemente quello di riportare concretamente sul palcoscenico l’assurdità della condizione degli uomini, incapaci di comunicare e capirsi tra loro (lack of communication). Riprendendo come esempio il già citato Waiting for Godot, i due personaggi, pervasi da un profondo individualismo, seguivano solo i loro pensieri ed erano perfettamente consapevoli che le parole da loro emesse altro non erano che dei modi per riempire l’infinita attesa.

Il pessimismo di Beckett era intensificato, inoltre, dalla convinzione di tempo come costituito da una serie di eventi che si succedevano senza senso “time essentially is chaos”.

L’evasione giovanile

Molti ancora non sanno distinguere nel riso di un giovane, lo spunto della gioia o la smorfia della tragedia imminente. (Umberto Galimberti, L’ospite inquietante).

La mancanza di un futuro come promessa induce, oltre all’arresto del desiderio dei giovani all’assoluto presente, senza più progetti, in quell’ottica del “meglio star bene e gratificarsi oggi se tanto il domani è senza prospettiva”, a quattro esiti ben diversi tra loro, ma tutti originati da questo clima nichilista di cui è pervasa la società attuale.

In primo luogo, il rischio di indurre gli adolescenti a studiare con motivazioni utilitaristiche, impostando un tipo di educazione finalizzata esclusivamente alla sopravvivenza, dove è implicito che “ci si salva da soli”. Poi, il disinteresse per tutto, attraverso l’ignavia e la non partecipazione che portano agli atteggiamenti opachi dell’indifferenza.

In terzo luogo, lo stordimento dell’apparato emotivo, attraverso quelle pratiche rituali che sono le notti in discoteca o i percorsi della droga.

Se il sogno diurno rivela l’incapacità di affrontare il reale, i sogni promossi dalla droga o dall’alcool non fanno fatica ad essere accolti da chi, come i giovani d’oggi, si ritrova a dover inventare un’altra società in cui poter continuare in qualche modo ad esistere e non a sopravvivere.

L’uso e abuso di sostanze stupefacenti, infatti, fa sia cessare il senso di vuoto di fronte al “Nulla”, facendo da “anestesia” delle emozioni più angoscianti sia ricercare quell’euforia in grado di mascherare la depressione.

Infine, il gesto estremo, con il quale porre fine ad una vita che senza più incanti non ha più voglia di vivere.

Verso un tentativo di soluzione

Pensare significa oltrepassare. Certo, finora oltrepassare non è stato troppo acuto nel cercarsi il proprio pensiero. O, se questo è stato trovato, c’erano occhi troppo malmessi […] infatti l’immenso giacimento utopico del mondo è esplicitamente quasi privo di rischiaramento. […] e allora la filosofia avrà coscienza del domani e prenderà partito per il futuro (Ernst Bloch, Il principio speranza).

Di fronte al deserto di insensatezza che l’atmosfera nichilista del nostro tempo diffonde è comunque possibile scorgere una via d’uscita.

Rimedio importante non è tanto l’uso assai diffuso di cure farmacologiche o psicoterapiche, che curano le sofferenze che originano nel singolo individuo, quanto la pratica della filosofia.

Quest’ultima, proprio come afferma Lucio Anneo Seneca, «non è un’arte popolare o fatta per essere ostentata; consiste non in parole, ma in fatti. E non la si usa per trascorrere piacevolmente le giornate o per scacciare la nausea che viene dall’ozio: forma e plasma l’animo, regola la vita, governa le azioni, siede al timone e dirige il corso in mezzo ai pericoli del mare in tempesta»[2].

Dal filosofo stoico e dalle sue Epistulae ad Lucilium impariamo, dunque, che la filosofia è importante in quanto cura soprattutto la salute dell’anima, poi quella del corpo, dal momento che se l’anima sta male anche il corpo sta male.

Questo lo aveva capito già nel I secolo a.C. Tito Lucrezio Caro, il quale scrivendo il De Rerum Natura si propose di diffondere l’esposizione della filosofia epicurea, sicuro che questa sola fosse in grado di assicurare agli uomini la soluzione dei loro problemi esistenziali. Si tratta di un vero e proprio poema in esametri con fini didascalici; scopo del poeta vate è, infatti, la lotta della ragione contro le tenebre dell’ignoranza per far prevalere la luce rasserenante della verità.

Pur trovandoci in un contesto storico-culturale completamente diverso da quello di Lucrezio, la sua riflessione è a mio parere profondamente attuale.

Infatti, se un ragazzo della nuova generazione leggesse l’opera riscontrerebbe in diversi passi delle somiglianze tra gli atteggiamenti della negativa e desolata condizione umana ai tempi dei romani e la propria, attuale condizione di incertezza, precarietà, dolore e vulnerabilità.

Non solo, ma proprio dalla lettura del poema si potrebbe evincere che è possibile far fronte ad una situazione esistenziale dolorosa e difficile, quale quella della società moderna. Lucrezio, infatti, afferma con accenti di profonda convinzione che è possibile per l’uomo, purché aderisca alla verità e alla sapienza epicurea, affrontare le problematiche esistenziali, sconfiggendo la sofferenza e raggiungendo la felicità.

Prospetto di una soluzione non tecnologica

Ciò che il Nichilismo vuole è lo spaesamento. Per questo non serve a niente metterlo alla porta, perché ovunque, già da tempo e in modo invisibile, esso si aggira per la casa. Ciò che occorre è accorgersi di quest’ospite e guardarlo bene in faccia (Martin Heidegger, La questione dell’essere).

Anche oggi si può cercare quella forza d’animo che permette di oltrepassare il nichilismo, forza d’animo che si chiama “resilienza”. Proprio di resilienza hanno bisogno i giovani soprattutto oggi, perché non sono più sostenuti da una tradizione, perché si sono rotte le tavole dove erano incise le leggi della morale, perché si è smarrito il senso dell’esistenza e si è fatta assai incerta la sua direzione.

Il rischio che corrono i giovani, dunque, quando evitano le soluzioni estreme, è quello di vivere senza sentimento, nobiltà, tra “una vogliuzza per il giorno, una vogliuzza per la notte, fermo restando la salute” come afferma Nietzsche[3].

Passioncelle generiche che sfiorano le loro anime assopite, ma non le risvegliano.

Bisogna, invece, avere il coraggio di guardare bene in faccia la realtà ed accettarla, di

“reggere” la morte di Dio e la perdita delle certezze assolute.

Queste erano le peculiarità proprie dell’Oltreuomo (Ubermensch) di Nietzsche, un tipo di uomo che si colloca al di là di ogni tipo antropologico dato, il quale, facendo propria la prospettiva dell’eterno ritorno e ponendosi come volontà di potenza, capace cioè di creare nuovi valori partendo da sé, procede oltre il nichilismo e si staglia nella prospettiva del futuro.

Questo è quello che dovrebbero fare i giovani per affrontare la crisi attuale, prendendo a modello proprio l’Oltreuomo nietzschiano, dandogli per di più una nuova accezione. Non bisognerebbe considerare, infatti, il carattere elitario di tale concetto filosofico così come era stato pensato dal filosofo tedesco, in quanto il superuomo rimanda non ad un possibile modo di essere di tutti, ma ad un possibile modo di essere di pochi. Ecco che eliminato tale aspetto, si tratterebbe di un tipo di Oltreuomo “collettivo”, portatore di valori quali solidarietà, relazione, comunicazione, aiuto reciproco, che possono temprare il carattere asociale sempre più diffuso nella nostra cultura.

I giovani, infatti, anche se non lo confesseranno, attendono qualcosa o qualcuno che li traghetti, perché il mare che attraversano si è fatto minaccioso, anche quando il loro aspetto è trasognato.

C’è bisogno a mio parere di rinsaldare i legami emotivi, sentimentali e soprattutto sociali. Se infatti, abbiamo constatato negli ultimi anni che le conquiste tecnologiche e della scienza non hanno assicurato la pace, il dominio sulla natura e quanto altro avevano promesso, è necessario, dunque, lasciar perdere quelle ingannevoli opinioni sull’ottimismo dati da un progresso scientifico e tecnologico e cercare una forma di superamento del nichilismo, in nome di un progresso più civile e morale.

Con ciò intendo dire che bisognerebbe indurre i giovani alla solidarietà, fraternità, alla costruzione di quella social catena che Leopardi nella Ginestra o Fiore del deserto (1836) aveva teorizzato come unica soluzione nei confronti di una natura maligna, vera e propria responsabile delle sofferenze degli uomini.

Trasportando questo stesso concetto di social catena nella realtà attuale, infatti, in cui il nemico non è più la Natura, ma quest’ospite “inquietante” che ha infiacchito l’animo dei giovani, si potrebbe superare questo dilaniante senso di smarrimento, facendo nascere il “vero amor” tra gli uomini e sentimenti come la “pietà” e la “dignità” che dovrebbe essere propria dell’uomo, nonché del giovane, dinanzi alla forza di quest’ospite che lo schiaccia.

In fondo, non è vero che ci si salva da soli.

Bibliografia

Beckett, Samuel. Waiting for Godot. A Tragicomedy in Two Acts. London: Faber & Faber, 2015.

Bloch, Ernst. Il principio speranza. Milano: Garzanti, 2005.

Freud Sigmund. Introduzione alla Psicoanalisi. Nuove lezioni. Torino: Bollati Boringhieri, 2010.

Galimberti Umberto, L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani. Milano: Feltrinelli, 2008.

Heidegger, Martin, La storia dell’essere. Volume 7 i temi del pensiero. Autori classici.  Milano: Marinotti, 2012.

Nietzsche, Friedrich, La gaia scienza, Milano: Adelphi, 1977.

Seneca, Lucio Anneo. Lettere morali a Lucilio, Milano: Mondadori, 2018.


[1]Freud, Sigmund. Introduzione alla Psicoanalisi. Nuove lezioni. Torino: Bollati Boringhieri, 2010.

[2]Seneca, Lucio Anneo. Lettere a Lucilio, XVI, 1-3. Boella Umberto, cur. Torino: UTET, 1983, 109-111.

[3]Nietzsche, Friedrich. Così parlò Zarathustra. Un libro per tutti e per nessuno, in Opere, Milano: Adelphi, 1966, 12, citato in  Galimberti, Umberto. La casa di psiche. Dalla psicoanalisi alla pratica filosofica, Milano: Feltrinelli, 2008, 374.

Recensione (Stefania Lombardi) a “Profughi: Vittime – Nemici – Eroi. Sull’immaginario politico dello straniero”, di Heidrun Friese
L’immagine, di proprietà dell’editore, è qui utilizzata solo ai fini previsti di trattazione del testo e d’incentivare la conoscenza e la diffusione dell’opera.

Recensione di Stefania Lombardi, Università europea di Roma.

E-mail: stefania.lombardi@cnr.it

doi: 10.14672/VDS20242RE6

(https://doi.org/10.14672/VDS20242RE6)

Titolo: Profughi: Vittime – Nemici – Eroi. Sull’immaginario politico dello straniero

Autrice: Heidrun Friese

Formato: 13.97 x 0.81 x 21.59 cm, p. 140

Editore: goWare, Firenze 2023

Nota introduttiva: quella che segue non è propriamente una recensione con parti di dialogo ragionato sull’opera. Si tratta, più che altro, di consigli di lettura riguardo pubblicazioni molto particolari che, tra i vari spunti che possono offrire, si configurano anche come esempi dei temi dell’attuale bando della rivista che s’interroga fra riconoscimento e misconoscimento.

Nemico, vittima, eroe’: ecco le figure dell’immaginario sociale, immagini disegnate da persone mobili. Rappresentazioni che parlano di ostilità, di minaccia, di aggressione ma anche di compassione e di solidarietà verso gli esclusi e gli oppressi. Insieme, creano la cornice per poter attribuire significati e orientamento.

Inizia così, con le parole qui sopra riportate, il saggio di Freise, già citato in uno degli articoli della presente rivista, e che pone l’accento sull’immaginario che abbiamo e/o abbiamo costruito riguardo l’altro, lo straniero. Un’immagine che contrappone sempre un noi e un loro, indipendentemente dal fatto che lo straniero sia percepito come invasore o come vittima.

Non c’è un riconoscimento dell’identità dell’altro se lo vediamo attraverso le lenti del nostro immaginario e non per quello che realmente è.

Troppe volte abbiamo sentito parlare di nostra cultura, nostri valori e nostro benessere in contrapposizione a loro, loro che non sono noi, non hanno il nostro spazio, le nostre protezioni.

Questo saggio indaga queste storture del nostro immaginario partendo da un’immagine tragica che ha fatto il giro del mondo suscitando diverse emozioni.

Ci s’interroga riguardo la responsabilità della politica nella costruzione di questo nostro immaginario che non pone l’altro da noi allo stesso livello di umanità. Persino gli spazi diventano spazi entro cui esercitare la propria umanità dove nulla è garantito al di fuori di tali confini: l’umanità sparisce e le coscienze si tranquillizzano non percependo più le responsabilità. Tutte le società creano stranieri secondo le proprie modalità, come, più volte, ha asserito Bauman. Queste sono creazioni volte al misconoscimento dell’altro fino all’estremo del suo annullamento come esseri umani e, persino, nell’ottica della stessa esistenza. La protezione di uno spazio della politica diventa anche escludente fra noi e loro. Cercare di fuggire da una situazione critica da quello spazio che dovrebbe proteggere rischia di creare misconoscimenti nell’altro spazio che si vorrebbe raggiungere e che non garantisce protezione per tutti gli esseri umani, distinguendo sempre tra un noi e un loro.

L’idea principale del saggio è proprio questo misconoscimento che parte dal nostro immaginario, a vari livelli. E su vari livelli si dovrà intervenire per indagare queste pratiche di misconoscimento e attuare il dovuto riconoscimento.

Il saggio dialoga costantemente con la letteratura esistente sull’argomento provando a indicare qualche via per passare dal misconoscimento al riconoscimento.

Non più nemico, vittima, eroe, semplicemente umano.

Recensione (Stefania Lombardi) a “Zack Snyder. Into the Snyderverse”, di Filippo Rossi
L’immagine, di proprietà dell’editore, è qui utilizzata solo ai fini previsti di trattazione del testo e d’incentivare la conoscenza e la diffusione dell’opera.

Recensione di Stefania Lombardi

Titolo: Zack Snyder. Into the Snyderverse

Autore: Filippo Rossi

Formato: volume 14,8×21, brossura con alette, bianco e nero, p. 432

Editore: Edizioni NPE, 2024

Nota introduttiva: quella che segue non è propriamente una recensione con parti di dialogo ragionato sull’opera. Si tratta, più che altro, di consigli di lettura riguardo pubblicazioni molto particolari che, tra i vari spunti che possono offrire, si configurano anche come esempi dei temi dell’attuale bando della rivista che s’interroga fra riconoscimento e misconoscimento.

Con 432 pagine, quest’ultima, appassionata, fatica di Filippo Rossi, può, esattamente come il suo “Dune. Tra le sabbie del mito”, essere una sorta di piccola enciclopedia sull’argomento.

Tra dettagliata documentazione, ricca di preziose immagini, aneddoti e curiosità, l’autore ci porta e ci trasporta nell’universo della mente del regista Zack Snyder.

Per l’autore non può essere accettabile il misconoscimento a lungo protratto verso la figura di un regista così poliedrico e intenso, nonché profondo dietro un’apparente banalità.

Troppo a lungo il suo lavoro, la sua profondità e il suo genio non sono stati compresi e misconosciuti.

L’autore stesso ci ha tenuto a sottolineare questi aspetti in un’intervista: https://www.ilcineocchio.it/cinema/recensione-libro-intervista-zack-snyder-into-the-snyderverse-di-filippo-rossi/

Parlando del suo libro, l’autore dirà, nell’intervista:

Quello di Gotham City è crimine estremo, appunto, pensato per essere ultracaricato e quindi surreale. Il mondo di Batman è tutto surreale. Qualsiasi opera d’arte “siamo noi”; ma se la Marvel (soprattutto in versione Marvel Studios cinematografici) resta ancorata a sempre più prevedibili concetti iperrealistici e/o semi-fantascientifici, la DC di Batman è più “fantasy”, quindi surreale perché profondamente simbolica. Un Joker e un Bruce Wayne non possono esistere nel nostro mondo reale – solo Christopher Nolan ci ha provato, e tra alti e bassi ha infatti creato una visione inedita e indipendente.
Invece, nell’ottica di un’altra più fedele e ancora più significativa visione, quella oggi riabilitata del comunque declinante Zack Snyder, Bruce Wayne e il Joker non potrebbero esistere perché sono caricati al massimo fino al livello archetipo, per metterci di fronte (noi esseri umani mortali del mondo reale) al Bene e al Male filosofici. Bruce Wayne non è ricchissimo, ma è “Ricco” – può tutto, con idee e soldi; il Joker non è pazzo, ma è “Pazzo” – può tutto, con volontà e fisico. Sono loro, infatti, i veri Super-uomini della DC. Superman è solamente un inesistente Dio che vorrebbe essere uomo normale, non “Super”.

Il libro-enciclopedia si struttura con un prologo, 11 capitoli, e un epilogo. Nel prologo è già dichiarato che si sta parlando di un genio americano. Nel primo capitolo si analizza l’influenza del mondo dei fumetti che s’imprime nella resa cinematografica di Snyder. Nel secondo si fa un tuffo indietro con la nascita come regista nell’immaginario Zombie. Nei capitoli centrali si cura molto la parte cinematografica tratta dall’universo DC comics. L’epilogo definisce Snyder come il regista più sottovalutato dell’universo e riprende l’idea di genio anticipata nel prologo.

Per avere un’idea di quanto Snyder possa essere divisivo e non immediato, occorre leggere direttamente l’autore:

‘Legend of the Guardians: The Owls of Ga’Hoole’ non è tra i migliori film d’animazione degli ultimi anni, e in effetti non è nemmeno uno dei più riusciti film d’animazione semi-dimenticati. Si tratta di un carichissimo promemoria di ottantotto minuti del motivo per cui ‘La Compagnia dell’Anello’, il primo episodio della trilogia del ‘Signore degli Anelli’ di Peter Jackson, si apre con un’introduzione esplicativa di dieci minuti. Snyder ha qualche difficoltà nel coinvolgerci nella storia mitizzata di alcuni giovani gufi che scappano da un campo di concentramento dei gufi per trovare i gufi vendicatori e sconfiggere il gufo-Hitler, per poi ballare a gufo-città. È difficile che gli spettatori si interessino al parlamento dei gufi o che si orientino nei furibondi duelli tra gufi artigliati d’acciaio.
Eppure…che sia questo il capolavoro segreto del regista?
Attraverso i ventrigli (in originale ‘gizzards’), le voci dei secoli sussurrano e dicono cosa è giusto. Succede ai gufi, così a Snyder. È facile capire perché il regista voglia realizzare quest’opera. Non è un gran cambiamento di genere per lui, dato che il solo esordio ‘Dawn of the Dead’ è definibile come puro film ‘live action’ (gli altri mantengono un forte sapore di artificio visivo). ‘Legend of the Guardians’ e, ad esempio, 300 presentano creature visivamente ricostruite come i loro ambienti. Snyder è ansioso di giocare in un mondo che può controllare completamente. Non resiste all’idea di accelerare o rallentare un combattimento tra due uccelli arrabbiati, inseriti in una grafica naturalistica dagli esagerati toni oscuri. Alla cosiddetta “St. Aegolious Home for Orphaned Owls” succedono cose turche.
Vi ha luogo un film teoricamente per bambini, nel quale la perfida fattucchiera dello storico ‘Excalibur’, l’amatissima Helen “Fata Morgana” Mirren (che il fan Zack Snyder incontra per la prima volta) dà la voce a una folle gufa fascista.
La stregoneria celtica dello smeraldino film del 1981 evoca cortecce australiane e penne di volatile che danzano nel fuoco.

Toccando il tema del misconoscimento e del dovuto riconoscimento dell’opera di Snyder, l’autore riesce a fare filosofia pratica, si toccano vette alte di filosofia parlando di filmografia in gran parte tratta dall’universo fumettistico.

Si tratta di tornare al significato originario della filosofia, alla passione e all’amore che l’hanno animata sin dai suoi albori.

Questa passione è stata consacrata in un’intervista congiunta fra autore e regista, come degno compendio e approfondimento ulteriore: https://www.youtube.com/watch?v=KYB2ZB27RQ4

Il libro-enciclopedia si può leggere a pezzi, modello consultazione.

Tuttavia, è con la lettura completa che se ne vede il percorso umano, intellettuale, passionale e filosofico che va al misconoscimento della società in un percorso che porta verso il giusto riconoscimento dell’autore.

Una sorta di mini-enciclopedia ragionata che serve non solo come consultazione, ma per pensare.

Recensione (Stefania Lombardi) a “La comunità dei viventi”, di Idolo Hoxhvogli
L’immagine, di proprietà dell’editore, è qui utilizzata solo ai fini previsti di trattazione del testo e d’incentivare la conoscenza e la diffusione dell’opera.

Recensione di Stefania Lombardi, Università europea di Roma

E-mail: stefania.lombardi@cnr.it

doi: 10.14672/VDS20242RE4

(https://doi.org/10.14672/VDS20242RE4)

Titolo: La comunità dei viventi

Autore: Idolo Hoxhvogli

Formato: 11.9 x 1.5 x 20 cm, p. 58

Editore: Editrice Clinamen, Firenze 2023

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Nota introduttiva: quella che segue non è propriamente una recensione con parti di dialogo ragionato sull’opera. Si tratta, più che altro, di consigli di lettura riguardo pubblicazioni molto particolari che, tra i vari spunti che possono offrire, si configurano anche come esempi dei temi dell’attuale bando della rivista che s’interroga fra riconoscimento e misconoscimento.
La morfologia, in quanto discorso sulle forme, è il principio di una filosofia dello spazio urbano. I profili architettonici, l’intreccio delle vie, le configurazioni fenomeniche degli edifici soni figure della possibilità. La costruzione è preceduta dal desiderio, strutturato in discorsi che parlano il parlante prima che il parlante parli. La città, nella sua concretezza, abita un ordine simbolico precedente allo sviluppo fenotipico. Per la filosofia dell’urbanistica sono imprescindibili l’archeologia delle convinzioni, la narratologia, l’ingegneria delle identità migranti (citazione dal libro).

Breve e intenso è “La comunità dei viventi” di Idolo Hoxhovogli che riprende, inconsapevolmente (e per questo ancora più notevole e prezioso), alcuni temi già tracciati dal filosofo Mario Guarna in “Il vivente. Ciò che Gesù non rivela, Tommaso non lo nasconde” con una splendida prefazione di Riccardo Roni.

Se in quella prefazione Roni parla del libro come una Spoon River dell’immanenza e che mira alla trascendenza, qui, come in uno specchio ribaltato, si potrebbe parlare di una Spoon River della trascendenza che cerca la salvezza nell’immanenza ma senza trovarla e senza smettere, tuttavia, di cercare, come è l’essenza stessa del filosofare più autentico.

Come in Antichrist di Lars von Trier abbiamo, qui, delle figure simboliche e archetipe. Sappiamo che in Antichrist il corvo è la morte, il cervo il dolore, e la volpe la disperazione.

In questo saggio di Hoxhovogli ci sono, invece, le figure simbolo e archetipo della libertà rappresentate dall’anarca, l’incognita, il mistero, l’animale.

Attraverso massime e aforismi, come se ci trovassimo dinanzi allo Zarathustra di Nietzsche, l’autore svela, poco alla volta, il suo pensiero, centellinato come in un percorso di formazione e di consapevolezza dove si giunge per gradi, perché “ciò che è profondo ama la maschera”, come direbbe Reale lettore di Platone.

Qui le voci sono plurali e non singolari perché l’essenza è consegnata a una pluralità.

Visionario e innovativo, questo saggio ci mette dinanzi a scelte, non scelte, possibilità, regno dei morti e critica (heideggeriana?) alla tecnocrazia, dove, nascosta e quasi impercettibile, resta sempre quella speranza che caratterizza la comunità dei viventi e il suo futuro.

Più che un saggio, ci troviamo dinanzi a un manuale per meditare e cercare degli indizi quando ci troviamo in situazioni apparentemente senza via d’uscita.

Perché una scelta c’è sempre e tutto inizia con una scelta, sbagliata, e può concludersi con un altro tipo di scelta. E, come sostiene l’autore, con la scrittura si può convertire l’essenza.

Recensione (Domenico Bilotti) a “Distruggere Assange. Per farla finita con la libertà d’informazione”, di Sara Chessa
L’immagine, di proprietà dell’editore, è qui utilizzata solo ai fini previsti di trattazione del testo e d’incentivare la conoscenza e la diffusione dell’opera.

Recensione di Domenico Bilotti, Università Magna Graecia – Catanzaro.

E-mail: domenico_bilotti@yahoo.it

doi: 10.14672/VDS20242RE3

(https://doi.org/10.14672/VDS20242RE3)

Titolo: Distruggere Assange. Per farla finita con la libertà d’informazione

Autrice: Sara Chessa

Formato: ‎14.9 x 2.4 x 21 cm, p. 256

Editore: Castelvecchi, Roma 2023 

Ciò che rende un volume di scienza ancor più urgente ed epistemologicamente, oltre che deontologicamente, necessario dei suoi stessi contenuti testuali probabilmente risiede nella necessità di colmare un baco informativo, altrimenti alto come una cortina nebbiosa. 

Del giornalista e mediattivista australiano Julian Assange sentiamo parlare sempre di meno, già poco sapendone, e per di più il “filtro” delle notizie rilevanti spesso mette sotto il cono di luce elementi a propria volta confusionari e inadeguati. In tale ottica, il lavoro monografico di Sara Chessa si rivela doppiamente utile: per fare ordine su una vicenda così malamente obliata, persino nei suoi profili più truci, e per rilanciare una vera discussione collettiva sul tema dei diritti nel rapporto tra istituzioni e cittadinanza. Proprio in questo secondo senso, anzi, l’analisi della Chessa si inserisce in un quadro generale nel quale l’istituzione non è più l’istituzione di prossimità del potere statale (la burocrazia amministrativa, il parlamento, il singolo giudice di una corte giurisdizionale), ma quel fascio di poteri diffusi di cui parlava Foucault. Si tratta d’un campo d’azione nel quale le attribuzioni del singolo sono cancellate e annullate in radice, proprio per l’incommensurabile disparità di forze tra libertà individuali e poteri trans-governativi. 

La notorietà di Assange s’era sviluppata in un primo tempo secondo tutt’altra direttrice. Attraverso l’organizzazione divulgativa WikiLeaks, già nel 2010, aveva avviato una campagna di diffusione di documenti statunitensi secretati, implicanti e involventi la commissione di crimini di guerra. Non era casuale il nome della realtà associativa per il tramite della quale pubblicava Assange. “Wiki” è diventato il prefisso di un nuovo enciclopedismo dal basso (potenzialmente radicale, innovativo, egalitario; nei fatti da sottoporre al giusto setaccio imposto da una ancora alluvionale dispersività). “Leaks” indica proprio la fuoriuscita involontaria di contenuti riservati. Per la prima parola, ovviamente, l’enciclopedia telematica Wikipedia ne ha sancito la fortuna, al punto che tutti i progetti digitali, anche settoriali, che vogliano porgere informazione il più possibile esaustiva, utilizzano “Wiki” pressoché come componente fissa del proprio brand. Per la seconda, “Leaks”, e il concetto di “to leak” (far emergere, far venire fuori, rilasciare in superficie), fu decisiva la precedente rivoluzione digitale di programmi come Napster, che consentivano l’ascolto gratuito di album musicali ancora inediti. L’ultimo disco della star di turno, nei dispacci delle agenzie di stampa internazionali, “leaks online”. E si presta, così, dal chiuso del diritto d’autore della grande discografia mondiale alla circolazione capillare del fanbase. 

Fatto sta che Assange riceve per quasi due anni attestazioni e benemerenze, di cui in qualche misura la Chessa dà conto, nel quadro di una rappresentazione naturale del reporter free lance che fotografa la nudità del re – altro topos della narrativa fiabesca di contenuto politico. Più fatto raccontato, rilasciato al suo inveramento concreto a lungo nascosto, che morale impastoiata. Senonché, proprio nel momento in cui l’affaire WikiLeaks sarebbe potuto essere vettore di una nuova domanda di trasparenza nell’esercizio dei pubblici poteri su scala trans-nazionale, comincia il personalissimo (e in realtà universale) calvario giudiziario internazionale di Assange. Non realizza qui alcuna utilità scandagliare il personaggio e il suo recepimento mainstream: all’epoca, non privo di spettacolarizzazioni, ombre e forse mai del tutto chiarificati scoop. Assange, preso d’entusiasmo, forse ci mette del suo e i suoi podcast via web, all’inizio degli anni Dieci, appaiono ai detrattori soltanto i salotti buoni di un pensiero di alternativa, in realtà non privo di inconfessate cointeressenze, con le interviste di Chomsky e Tariq Ali, le ospitate per Hezbollah e l’incondizionata simpatia verso ogni forma di potere aggregativo contrario all’asse anglo-americano. 

A Chessa va dato indiscutibile merito di non aver in nulla ceduta a questi opposti, e straordinariamente simili, chiacchiericci. Già nel novembre 2010, vieppiù, il giornalista è accusato di stupro, molestie e coercizione illegale. La legislazione svedese consente queste incriminazioni anche per i reati avverso i consenzienti, se non protetti e non preceduti dall’ottemperanza alla richiesta di controllo medico, sulle malattie sessualmente trasmissibili. Decisamente più impegnativa l’accusa che gli giunge dalla giurisdizione statunitense, ove si nomina espressamente l’attività di spionaggio – che, in base a quali circostanze aggravanti configurata, può persino giungere alla condanna capitale. Dal 2012 al 2019, Assange diventa perciò il sequestrato di lusso presso l’Ambasciata ecuadoregna a Londra. L’Ecuador sin dalla prima ora si era offerto di fornire protezione internazionale all’attivista, anche in ragione di previe ostilità col governo americano, e la concessione dello status di rifugiato politico appare inevitabilmente la prima e più percorribile veste giuridica per quella cooperazione. 

Qui chiude il prequel processuale, qui apre l’originale analisi di Sara Chessa, che parla di Assange in nome della libertà d’informazione, ma con tecnica di osservazione quasi diaristica: descrive in sostanza il diario di una discesa agli inferi, che dura almeno sette anni. Il prigioniero di lusso non esiste più: spiamo invece un uomo che soffre di panico, che è incalzato negli istmi di una libertà sempre più limitata, fino a temere accuse ignominiose mano a mano più morbose e addirittura rischi per la propria personale incolumità di vita. 

Perplessità di natura normativa e processualistica erano tangibili persino nell’attribuzione dello status di rifugiato, perché tali meccanismi, pur dietro una cornice internazionale di garanzia, finiscono per concretare una esagerata interrelazione tra le maggioranze politico-governative entro cui vengono determinati e la loro maggiore caducità e fragilità, nel momento in cui quegli stessi assetti di maggioranza si modificano. È proprio ciò che è successo ad Assange a partire dal 2019, quando, in modo del tutto irrituale, il governo ecuadoregno ha ristabilito la propria decisione in direzione opposta alla precedente, facendo così perdere al giornalista australiano anche quella sempre più tenue copertura legale e tuzioristica. 

La catabasi di Julian Assange raggiunge sin qui l’ultima stazione del suo calvario nella prigione Belmarsh del Regno Unito: accostata a Guantanamo, per quanto il paragone sia forzoso, è comunque tra le più note e sorvegliate carceri britanniche. Ciò non bastasse, le agenzie internazionali dei diritti umani (di natura non governativa) e le più autorevoli istituzioni inter-statali (come il Gruppo di lavoro costituito presso l’ONU in materia di detenzione arbitraria) avevano variamente censurato il trattamento procedurale e penitenziario subito dall’uomo. Volta per volta, venivano allegati i trattenimenti irregolari, la prolungata detenzione, il computo inesatto dei termini prescrizionali, le condizioni di prigionia peculiarmente restrittive, superiori a ogni indice di pericolosità anche solo potenziale dell’imputato. Ciascuno di questi aspetti meriterebbe autonoma trattazione giuridica, perché va a contraddire una copiosa giurisprudenza di garanzia che ha sempre stigmatizzato, e al peggior grado, ogni forma detentiva e preventiva di tale natura. Non solo per Assange queste cautele di natura giudiziaria non sono state attivate, ma – ciò sembra trasmetterci l’accorata riflessione di Sara Chessa – il dato intuitivo della vicenda è che Julian Assange è da tredici anni ininterrottamente sotto il bersaglio di una pena in assenza di condanna giusta, che proietta l’idea di una afflizione deliberata, intenzionale, disturbante. 

In tale ottica, non è qui tanto il solo Assange a interrogarci, ma la più diffusa condizione oggettiva dei detenuti “anonimi”, di ristretti e internati di ogni risma e per ogni ragione, per cui la situazione della punitività arriva molto prima di qualsivoglia condanna, trascinandosi per anni e profondendo un complessivo quanto inumano senso di inquietudine persistente. 

È altra probabilmente la peculiarità della vicenda Assange: non l’uomo solo contro le potenze del mondo (tra Stati Uniti, Gran Bretagna, Svezia ed Ecuador forse soltanto le prime due integrerebbero quella a-tecnica definizione), quanto e più il reietto ufficiale nei sistemi dell’informazione di massa. L’universalizzazione delle comunicazioni, nella prospettazione teorico-giuridica di Chessa, non è stata in nulla il viatico di una nuova democrazia digitale o, almeno, ha messo in mostra gli stessi limiti della democrazia rappresentativa, nello Stato costituzionale di diritto: manipolabilità e interesse del potere a veicolare i contenuti che vengono diffusi. Secondo quale criterio di attendibilità? 

Lo sforzo teoretico-costituzionale dei nostri tempi meriterebbe forse la pratica disvelativa e il cimento che Michael Walzer dedicò ai rapporti tra radicalismo politico e riforma religiosa e alle relazioni tra diritto di guerra e principio di legalità. Assange è, parafrasando le parole del filosofo statunitense della critical left, un “radical saint” che combatte “guerre giuste”? Anche in questo caso, il metodo paradigmatico dell’archeologia dei saperi potrebbe rimettere a fuoco la storia ininterrotta dei rapporti sovversivi tra la limitazione dell’arbitrio governativo e la diffusione e la conoscenza dell’informazione giuridicamente rilevante. Dall’obbligo di dire la verità della teologia cataro-valdese fino all’obbligo di dissimulazione a difesa della comunità nella cultura sciita, passando per le pratiche di autoesclusione della morale quacchera, i rapporti tra singolo e autorità hanno, tra i loro tanti presupposti, proprio quello dell’asimmetria informativa. Fino a che punto il residuo fisso di segretezza, insito nelle trattative e nei negoziati volti alla messa in opera della pratica di governo, può giustificare la mancanza di conoscenza e, in caso di violazione di quella segretezza, una penetrante opera di marginalizzazione e persecuzione?   

Di sicuro, la libertà d’informazione non è un servizio incidentale al corretto svolgimento della liberal-democrazia sorta dall’elaborazione borghese e rivoluzionaria illuministica. Essa, anzi, ci si presenta contemporaneamente come necessità storica e come presupposto morale, in una molteplicità di declinazioni politologicamente percorribili. Da questo punto di vista, una omologa intuizione, stando alla teoria politica italiana, sorregge tanto la massima einaudiana del “conoscere per deliberare” quanto la rivendicazione socialista di Antonio Gramsci, per cui la verità è sempre atto rivoluzionario. Nel primo senso, la conoscenza è il presupposto per la selezione argomentativa che conduce alla decisione collettiva; nel secondo, in una dottrina filosofica che mette al centro il ribaltamento dello stato di cose presente, fare circolare il funzionamento sostanziale dei poteri reali significa metterne a nudo la capacità, l’ipocrisia, la marxiana falsa coscienza. 

A questi presupposti teoretici, il pensato e non breve lavoro di Sara Chessa aggiunge una convincente carica umana, che non è orpello affettivo, ma tessuto connettivo profondo, nella battaglia per le libertà fondamentali: l’immedesimazione nell’ingiustizia patita, il racconto in diretta delle sofferenze che per mezzo di essa vengono inflitte. Come e molto più di Antigone, nella Tebe violenta, particolaristica e ghettizzante della governance globale. Tra le fumanti macerie di ogni conflitto esiziale, si alza, appena un soffio, ma potentissima nel generale frastuono, la voce del padre afflitto, del genitore sconfitto. Così l’intervista inedita a John Shipton, padre dell’attivista australiano, si eleva a ulteriore testimonianza di un caso che, dall’intimissima forma del dolore individuale, suggerisce la piena e vera universalità della posta in gioco.  

Recensione (Domenico Bilotti) a “Cronaca, critica e satira: istruzione per l’uso. Linee guida per giornalisti, creator digitali e utenti della rete”, di Fabrizio Criscuolo, Vincenzo Cardone e Francesco Verri
L’immagine, di proprietà dell’editore, è qui utilizzata solo ai fini previsti di trattazione del testo e d’incentivare la conoscenza e la diffusione dell’opera.

Recensione di Domenico Bilotti, Università Magna Graecia – Catanzaro.

E-mail: domenico_bilotti@yahoo.it

doi: 10.14672/VDS20242RE2

(https://doi.org/10.14672/VDS20242RE2)

Titolo: Cronaca, critica e satira: istruzione per l’uso. Linee guida per giornalisti, creator digitali e utenti della rete

Autori: Fabrizio Criscuolo, Vincenzo Cardone e Francesco Verri

Formato: 24 x 17 x 1.5 cm, p. 218

Editore: La Tribuna, Piacenza 2023

Il più interessante risultato ermeneutico di questo volume di Criscuolo, Cardone e Verri è quello di potersi a tutti gli effetti classificare come uno zibaldone delle possibili intersezioni tra la libertà di manifestazione del pensiero e i nuovi ritrovati tecnico-digitali. Se Walter Benjamin già nel 1936 aveva capito che una delle realizzazioni espressive tipiche dell’umano intelletto (l’opera d’arte) sarebbe stata completamente ridisegnata dall’avanzamento massificato della produzione, in “L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica”, al giurista e all’operatore digitale dei giorni nostri serve incrociare le opportunità ricchissime della divulgazione col kit delle libertà fondamentali che il costituzionalismo ha messo sotto la sua ala di protezione. Uno scudo, per vero, che se già difettoso di fabbrica oggi svela rughe e ruggini, ma che necessita di quel savio lavoro di manutenzione e potenziamento che solo una nuova fucina di Efeso può portare alla luce.

La pubblicazione ha poi il merito di assecondare un tipo di trattazione nella quale certo lo specialista rinviene la giurisprudenza rilevante in modo dovizioso, ma in cui il non addetto ai lavori non si trova mai spiazzato, semmai potendo percorrere il testo alla ricerca delle suggestioni che più gli sembrino pertinenti. Soprattutto nelle titolazioni, il saggio combo autoriale ha preferito che i precedenti più significativi della stretta attualità (trasmissioni televisive o campagne pubblicitarie o network della rete) fossero ricordati sulla base del nome proprio del contendere (marchio, persona, sito), e non con l’indicazione numerica della singola pronuncia. È un’accortezza pregiata: si comprende subito di cosa si stia parlando.

La struttura redazionale del volume rende ulteriormente più semplice questo processo, perché nella prima sezione domina una larghissima panoramica di sistema sulla libertà di stampa – alle radici del sistema informale di pesi e contrappesi nella realtà sociale angloamericana. Nei due capitoli conclusivi, invece, gli aspetti tecnico-procedurali, che invero sembra dovrebbero sempre comunicare con la critica della politica legislativa, ma che è comprensibile interessino più alla categoria forense che se ne occupa e meno al lettore in cerca di approfondimenti circostanziati sulle tematiche sostanziali. Nel mezzo c’è la “carne” del libro: la ragione specifica della sua strettissima attualità. Il senso di una continuità logica, viepiù, che manca spesso alle pubblicazioni collettanee.

Non v’è dubbio che la libertà d’opinione, pur così rilevante nel prisma del socialismo liberale e del costituzionalismo liberaldemocratico, non possa pensarsi del tutto sciolta da vincoli, che sono qualitativamente diversi in ogni caso dal limite della censura nello Stato totalitario e in quello paternalista. Lì, nella prima ipotesi, controllo preventivo di conformità alle strutture obbliganti e obbligate della circolazione delle idee, e, nella seconda, scelta condizionante di contenuti che orientino pedagogicamente l’obbedienza. Qui, invece, massimizzazione del diritto di libertà nella sola guaina contenitiva della dignità umana e della reputazione personale: non il piccato amor proprio dell’offensività, chiosano opportunamente gli Autori, ma il senso proprio di non aggredibilità della sfera intima della persona. L’unica eccezione da norma residuale diviene perciò non paradossalmente ulteriore conferma della scelta sistematica tipica di ogni legislatio libertatis: la non punibilità della diffamazione commessa in stato d’ira dopo aver subito un torto – ontologicamente, c’è una certa somiglianza di famiglia, direbbe Wittgenstein, col senso dell’attenuante dell’aver agito per suggestione di folla in tumulto. Individuo e comunità … comunicano.

Questo delicato bilanciamento ha proiezioni anche nella parte dedicata al diritto di cronaca, dove ci sembra siano due le ipotesi rappresentative dei poli opposti del discorso: da un lato, la crescente valorizzazione semantica del contesto espressivo (sommatoria di immagini, articoli, canali di diffusione e platea potenziale di destinatari) rispetto alla nudità semiologica della semplice interpretazione letterale; dall’altro, la recente scoperta di un “diritto all’oblio”, come situazione soggettiva nella quale si chiede la rimozione gnoseologica del fatto sconveniente a detrimento della persona.

Con efficace sintesi, il terzo capitolo appare l’architrave del volume, essendo tutto incentrato sui rapporti tra il diritto di critica e la satira. Proprio trattando di questo argomento, ovviamente, si nota la persistente attualità di risalenti filoni individuati dalla critica del diritto di matrice giusprivatistica e dalla teoria politica di orientamento progressivo. Sicché, se si volesse brutalmente sintetizzare, a essere esclusa da ogni forma di tutela sarebbe la tendenziosità insultante, mentre sempre destinataria di una cintura di protezione legale dovrebbe essere la buona fede (del lettore, del destinatario della comunicazione, del professionista che la esercita). Senonché queste ovvie coordinate assiologiche di fondo risentono sempre di più dello stress test non tanto dei nuovi mezzi di comunicazione, ma delle nuove forme di diffusione che in essi sono state plasmate. Facendosi sapidamente apprezzare anche dal lettore occasionale, allora, l’analisi tratta della revenge song di Shakira contro il compagno fedifrago – che implicitamente contiene il deprezzamento dell’amante complice. È cosa strutturalmente diversa dal dissing della cultura rap, nella quale attraverso strofe in rima i vocalist si fronteggiano intorno alla rispettiva coerenza, ché quello, al limite, può richiamare – dovessimo cercargli un padre “nobile” – le satire latine o certe sciarade al vetriolo nella tradizione della composizione sirventese.

D’altra parte, cresce il rilievo dei siti che offrono recensioni agli utenti e il controllo reputazionale dell’avviamento nella gastronomia ne esce spesso sfalsato, ingenerando dinamiche in cui l’influencer può essere variamente accattivato da benefit e situazioni di sgradevole bersagliamento prive di riscontro qualitativo avvengono con pari frequenza. Bella la chiusura sulla satira televisiva. Ci si concederà che ci siamo abituati a un tempo esageratamente pruriginoso, nel quale la tentazione preventiva è quella di sterilizzare il perimetro fendente di ogni dissacrazione contropotere. Quella sterilizzazione è, vieppiù, ben altro che neutralistica, dal momento che o informa una pericolosa tentazione totalmente antipolitica (tutti uguali, prevalga il più violento!) o un conformismo melassa nella quale l’unica stella polare non è più genuinità e libertà d’informazione ma non suscettibilità del potere politico o del gruppo sociale. 

Avendone i tre Autori la statura, piacerebbe che un secondo tempo di questa preziosa ricerca potesse diventare uno sguardo panoramico e comparatistico a ciò che succede negli altri sistemi. L’Italia ha il triste primato, censito da associazioni internazionali e largamente sperimentato da tutti nella quotidianità, della maggior circolazione di notizie false e tendenziose, che non hanno nulla di satirico o antifrastico, ma che sono consapevolmente portate avanti da una mole eterodiretta di condivisioni e ri-condivisioni. Affacciarsi sul trattamento giuridico delle fake news in ordinamenti altri (dove il dissenso è costretto a inerpicarsi sul web o dove la barra della coscienza collettiva riesce a trovare più alti spalti di resistenza che da noi) avrebbe l’indiscutibile valenza di condurre il tema della libertà di manifestazione del pensiero a quel livello di interpretazione interculturale necessitato dai nostri tempi di periferie globali. 

Recensione (Luigi Somma) a “L’avventura del Metodo. Come la vita ha nutrito l’opera”, di Edgar Morin
L’immagine, di proprietà dell’editore, è qui utilizzata solo ai fini previsti di trattazione del testo e d’incentivare la conoscenza e la diffusione dell’opera.

Recensione di Luigi Somma, Università degli Studi di Salerno.

ORCID ID: 0009-0006-1236-3484

E-mail: lsomma@unisa.it

doi: 10.14672/VDS20242RE1

(https://doi.org/10.14672/VDS20242RE1)

Titolo: L’avventura del Metodo. Come la vita ha nutrito l’opera

Autore: Edgar Morin

Formato: 22.6 x 2.2 x 14 cm, p. 160

Editore: Raffaello Cortina Editore, Milano 2023

È nell’incontro tra vita e opera, nell’intreccio complesso, e le sue “ramificazioni ricorsive”, tra vita e pensiero che Edgar Morin pone le basi per il suo Metodo, frutto di una lenta e faticosa gestazione durata circa trent’anni; all’interno della quale si può collocare il suo tentativo di liberare la Complessità dalle secche del paradigma riduzionista e semplificatore, quale risultato di un sistema educativo che, fedelmente alla concezione cartesiana, ci insegna a riconoscere nella chiarezza e nella distinzione gli elementi di discrimine e di validazione di qualsivoglia percezione o descrizione del reale. Ancor prima dell’elaborazione del Metodo, Morin aveva già dato pieno accoglimento alla sfida della Complessità[1], giungendo alle radici di quel sentire comune che usava attribuire a ciò che era Complesso i significati arduo, spinoso, confuso e inestricabile:

la parola complessità, nel suo uso banale, significa tutt’al più non è semplice, non è chiaro, non è né bianco né nero[2].

Comprendere come il pensiero possa germinare l’opera significa non soltanto cogliere nelle note autobiografiche di una vita le tappe fondamentali dei rivolgimenti e travalicamenti del suo pensiero, ma anche cogliere niccianamente quel legame inscindibile che fa del pensiero una “struttura mobile” della vita, del suo incessante e caotico divenire (physis):

Da allora la mia vita e la mia opera divennero inseparabili, giacché la mia vita nutriva la mia opera e di rimando la mia opera nutriva la mia vita[3].

Ricostruire le traiettorie dell’opera composita ed eterogenea di Edgar Morin è un compito assai arduo, e tale saggio intende, a mio avviso, tutt’al più contrassegnarne lo spirito in esse operante.

Il “cammino” verso l’elaborazione del metodo è l’esito ultimo di un’interrogazione radicale sul metodo stesso, sui principi e le “metodologie” attraverso le quali regoliamo le nostre conoscenze.

«Abbiamo bisogno di un metodo di conoscenza che traduca la complessità del reale»[4], ossia riconoscere come il modo di pensare dominante fosse regolato da paradigmi mediante i quali organizziamo la nostra conoscenza: i principi d’ordine, di separazione, di riduzione e il carattere assoluto della logica deduttivo-identitaria (i quattro pilastri di certezza).

Se il principio di riduzione «tende a ricondurre il conoscibile a ciò che è misurabile», a ciò che è determinabile mediante quantità misurabili e quindi formalizzabile e riproducibile; dall’altra, il principio di separazione astrae un elemento dal suo contesto, obliterando le (retro)interazioni e le interconnessioni con il suo ambiente, separando ciò che non è separato, eludendo le contraddizioni apparentemente inconciliabili interne ai fenomeni, infine obliterando ciecamente quanto non sia riconducibile a leggi generali, a principi d’ordine e ad un carattere rigidamente deterministico.

La difficoltà insita nel cammino del metodo risiede “nella ricerca stessa di un cammino”, nel rendere conto del processo auto-illusorio (self-deception) con cui erigiamo le basi di un falso sapere, della menzogna insita nell’atto di conoscenza della (propria) realtà. In tal modo, Morin introduce l’idea dell’auto-osservazione e dell’auto-conoscenza, enunciando che “ogni osservatore dovrebbe integrarsi nella sua osservazione e ogni attore osservarsi nella sua azione”[5]. È nella lotta contro “la maschera della pseudo-oggettività” che si traduce morinianamente l’introduzione di uno sguardo soggettivo sulla realtà dei fenomeni; diviene importante nel Metodo riconoscere il ruolo attivo del soggetto/osservatore nell’atto di costruzione della realtà; tuttavia, ciò richiede non soltanto una conoscenza della complessità della realtà, bensì un’operazione individuale di autoverifica delle proprie convinzioni (illusioni), una lotta costante contro la self-deception, contro le proprie menzogne, alle fondamenta delle proprie possibilità di conoscenza. Ed è soltanto tramite questo lavoro di scavo interiore che è possibile giungere ad una Conoscenza Complessa, cioè ad una conoscenza (una conoscenza della conoscenza/una epistemologia della epistemologia) che torni a riflettere sui propri principi di conoscenza, per poter cogliere la trama complessa della realtà, conoscendone non soltanto i singoli fili dell’arazzo nella loro separatezza, e nemmeno il disegno complessivo che essi compongono, ma la profonda interconnessione esistente tra la trama totale e le sue singole parti, così come la (inter-retro)relazione esistente tra le parti stesse. Giacché tale  inter(retro)relazione tra le sue parti può produrre proprietà emergenti, definendo il ciclo di feedback mediante il quale esse tornano a retroagire sulla stessa. È la metafora del baniano, i cui «ramoscelli cadendo a terra, si trasformano in nuove radici che trasformano i rami in nuovi tronchi»[6]. Quale simbolo del ciclo ricorsivo inerente ai processi complessi, i cui “prodotti divengono produttori di ciò che li produce”[7]. Osserviamo emergere la nozione di sistema complesso, banalmente tradotto dalla teoria sociale come l’organizzazione di parti differenti in un tutto, a cui Morin aggiunge il concetto di auto(eco)organizzazione: ciascun sistema determina la propria autonomia soltanto in co-dipendenza con il proprio ambiente, poiché è da esso che trae l’energia (ossia informazioni, energie fisiche e biologiche) necessaria a garantirne il funzionamento. Soltanto i sistemi complessi viventi sono in grado incessantemente di auto-organizzarsi spontaneamente, di stabilire un tale rapporto di co-dipendenza con il proprio ambiente. Bisogna anche precisare come Francis Varela e Humberto Maturana abbiano elaborato una propria concezione di sistema, che presenta alcune caratteristiche parzialmente analoghe. Essi in “Autopoiesi e cognizione La realizzazione del vivente”[8] indicano nella nozione di autopoiesi un sistema autoreferenziale che produce e riproduce gli stessi elementi di cui è costituito. Sono sistemi capaci, pertanto, di auto-organizzarsi, che si caratterizzano quali entità sistemiche dotate della proprietà dell’autonomia. In tal senso, la nicchia è frutto di una selezione operata dall’osservatore nell’ambiente, nel quale è definita la classe di interazione nel quale esso può entrare:

L’osservatore guarda simultaneamente l’organismo e l’ambiente e considera come nicchia quella parte dell’ambiente che egli osserva trovarsi nel suo dominio di interazioni[9].

Quindi, in definitiva, se per l’osservatore la nicchia costituisce comunque parte dell’ambiente, per il sistema osservato essa è l’intera realtà cognitiva. Ciò sta a significare che la nicchia non può essere definita indipendentemente dal sistema che la specifica. È evidente che soltanto un’unità complessa, o anche composita, possiede una struttura e un’organizzazione:

mentre due unità semplici interagiscono  mediante le semplici influenze reciproche delle loro proprietà, due unità composite interagiscono in maniera determinata dalla loro organizzazione e struttura mediante le influenze reciproche delle proprietà dei suoi componenti[10].

In maniera similare, ma con un sentimento di maggiore apertura all’esterno, all’altro, alla rielanza[11], Morin scrive che

ogni auto-eco-organizzazione vivente comporta un computo: una computazione di sé per sé dei processi interni all’organismo, da una parte, dei dati e degli avvenimenti esterni dall’altra. Ogni essere vivente, dagli organismi monocellulari alla sequoia e all’essere umano, si autoafferma ponendosi al centro del mondo […] lo condurrebbe però all’egoismo stretto se non esistesse in ogni soggetto vivente anche un bisogno di rielanza, al suo simile, di integrazione in una comunità, in un noi[12].

Egli inscrive, inoltre, tale processo nella triade disordine/ordine/organizzazione, enfatizzando come da stati caotici ed entropici possano sorgere nuove forme d’ordine, e, quindi di “organizzazione complessa”, quale processo ininterrottamente ricorsivo e genesico:

Ho capito radicalmente che tutto ciò che non reca il segno del disordine elimina l’esistenza, l’essere, la creazione, la vita, la libertà, e ho capito che ogni eliminazione dell’essere, dell’esistenza, del sé, della creazione è demenza razionalizzatrice. Ho capito che l’ordine da solo è soltanto un bulldozer, che l’organizzazione senza disordine è l’asservimento assoluto. Ho capito che occorre temere non il disordine ma il timore del disordine[13].

D’altra parte, il riconoscimento della complessità del reale, dei suoi processi e fenomeni è strettamente connesso ad una rieducazione al pensiero complesso, ossia posto in termini moriniani, ad una “riforma del pensiero”.

A tal proposito, Morin prospetta il ritorno ad un “Umanesimo rigenerato”:

non abbiamo bisogno di un nuovo umanesimo rigenerato, abbiamo bisogno di un umanesimo tornato alle origini e rigenerato[14].

È, dunque, necessario porci oltre le separazioni dicotomiche sulle quali, da Descartes a seguire, si è fondata la cultura occidentale; pensare, ad esempio, oltre la separazione tra natura e cultura, laddove v’è un certo umanesimo che si rivolge all’uomo come un essere divinizzato, destinato al dominio della natura (homo sapiens/faber/oeconomicus). Se da una parte, le scienze umanistiche concepiscono esclusivamente “l’uomo culturale” e dall’altra quelle scientifiche quello “biologico”, è soltanto attingendo ad una “conoscenza globale dell’umano” che si potrà afferrarlo nella sua intrinseca complessità. Ne Il paradigma perduto e ne L’identità umana, si muove il tentativo di Morin di restituire una definizione dell’umano, procedendo oltre le sue separazioni, nella sua “santa trinità”: esso è nel contempo individuo singolare, appartenente alla specie umana e membro della società. È nella co-dipendenza e inter-correlazione tra di esse, e nella comunità di destino che le riassume tutte che si rivolge un nuovo ipotetico umanesimo. Come possiamo disconoscere, così come è posta da Morin, la molteplice natura dell’essere umano, dell’Homo complexus? Dal momento che esso è, nel contempo, homo sapiens e homo demens; ragione e follia; Homo oeconomicus e Homo ludens, ed è soltanto nella comprensione della polarità tra gli opposti, della contraddizione intrinseca che lo attraversa, che possiamo attivare un processo dialettico che ponga in comunicazione reciproca le due polarità della ragione calcolante e del pensiero delirante; poiché è soltanto nella “ragione emotiva”, nel riconoscimento di una ragione capace di riattivare il centro delle emozioni, nel cerchio aperto che li dialettizza, che possiamo ritrovare la realtà profonda dell’umano. «L’umanesimo rigenerato è essenzialmente un umanesimo planetario[15]», in grado di concepire l’essere umano, al di fuori degli abiti dell’homo faber, l’uomo della tecnica, allo scopo di non assoggettare il destino dell’umanità ad una concezione tecno-deterministica del progresso, e, pertanto, di riconoscere nell’umano l’importanza antropologica dell’immaginario e del mito; infine, di riconoscere l’essere umano quale parte di un unico destino planetario, di un unico ecosistema complesso, nel quale esso opera ed operato.

Fare ricorso ad una tale “ragione sensibile, aperta e complessa” significa, per Morin, “rivitalizzare la solidarietà e la responsabilità per prolungare l’ominizzazione in umanizzazione”, infrangere la barriera degli individualismi, far sorgere l’io in senso alla comunità e a un Noi universalistico.

In conclusione, si può iscrivere al cuore della ricerca moriniana di un metodo (di conoscenza) la “crisi della ragione”; abbiamo assistito, difatti, al consolidarsi di “razionalizzazioni” chiuse, così anche l’urbanizzazione, la burocratizzazione e la tecnologizzazione si sono realizzate mediante il ricorso alle regole e i principi della razionalizzazione. Quando la razionalità si costituisce quale razionalismo sancisce il suo assolutismo; essa, cioè, pretende di piegare la realtà ai suoi principi, alle sue regole, fondando un ordine per nulla fondato sulla realtà: “la ragione diventa il grande mito unificatore del sapere, dell’etica e della politica”. Si comprende come ciò abbia posto le condizioni per l’obliterazione di una grande porzione della realtà, e, proprio a quelle dimensioni complesse della stessa, che ineriscono al soggettivo, al caso, al disordine, alla contraddizione, ora relegate al piano del non razionalizzabile. A essa, Edgar Morin, suggellando la sua contraddizione interiore tra scetticismo e volontà di verità, poi tradotta nel Metodo, contrappone una razionalità (complessa) aperta; ossia una ragione che, abbandonando un “modello di ordine” in favore di un “modello di organizzazione (che leghi insieme ordine e disordine), sappia riconoscere i propri limiti e combattere i mostri interiori delle illusioni, che, infine non si lasci “possedere” dalle proprie idee, divenendo invece una “ragione dialettica vivente”, in grado di ristabilire una dialettica “aperta” tra razionale e reale, che non determini, in definitiva, un dominio assoluto della ragione su di esso.


[1]Morin, Edgar. La sfida della Complessità, Firenze: Le Lettere, 2017.

[2]Morin, 27.

[3]Morin, Edgar e Francesco Bellusci, cur. L’avventura del Metodo. Come la vita ha nutrito l’opera. Milano: Raffaello Cortina Editore, 2023, 67.

[4]Morin, 43.

[5]Morin, 48.

[6]Morin, 47.

[7]Morin, 47.

[8]Vedere nota successiva.

[9]Maturana, Humberto R. e Francisco J. Varela. Autopoiesi e cognizione: La Realizzazione del Vivente. Milano: Raffaello Cortina editore, 2001,  56.

[10]Maturana, Humberto R. e Francisco J. Varela, 34.

[11]Morin ha coniato il termine rielanza come unione di due parole francesi: relier (unione) e alliance (alleanza).

[12]Morin, Edgar e Francesco Bellusci, cur. L’avventura del Metodo. Come la vita ha nutrito l’opera. Milano: Raffaello Cortina 2023, 79.

[13]Morin, Edgar. Il Metodo. 1. La natura della natura, 450.

[14]Morin, Edgar. L’avventura del Metodo. Come la vita ha nutrito l’opera (edizione italiana a cura di Francesco Bellusci), Milano: Raffaello Cortina, 2023, 89.

[15]Morin, 114.

A Cartographic Approach to pragmatics in the mood of the “respectful silence”

Barbara Henry[1], Sant’Anna School of Advanced Studies (SSSUP)

E-mail: barbara.henry@santannapisa.it

doi: 10.14672/VDS20242PR9

(https://doi.org/10.14672/VDS20242PR9)

Abstract

This essay presupposes, due to unavoidable theoretical necessities, some definitions of a stipulative nature. These are fundamental, on the one hand, to identify the interdisciplinary framework in which we are working. On the other hand, they are essential in order to define the terms of a form of embedded analysis. By this we mean a contextual analysis from a hermeneutic viewpoint within the same framework of cognitive reference and scientific investigation. This context can only be the ‘Occident’, a term indicating a categorial, symbolical and historical constellation to be declined very much in the plural (the same also applying, clearly, to the ‘Orient’). Firstly, we shall establish, through the lens of some appropriate disciplines, a minimal clarification of the main concepts at issue – pragmatics, alterity, identity, asymmetry, cartography – and, by means of these, render the context more explicit (Chapter I). Then we shall move on to present the outline of a philosophical method, of a reflective-interpretative kind. With this there will be an attempt to put the five terms into practice. This is specifically with the aim of strictly defining the social and political challenges as regards a non-violent co-existence within the ‘European’ Occident (particularly in Chapters II and III), with the help of a renewed hermeneutical kit of tools (IV).

Keywords: Pragmatics, asymmetries, Occident/s, Otherness, embedded analysis, cartography, Auditory turn.

Interweaving of critical perspectives and identifying bridging principles

For the sake of good sense and usefulness as regards the requirements of an associated non-self-destructive life, should we wish to identify and bring about some ‘successful’ pragmatics with respect to the coexistence between alterities (to be dealt with soon), there is the need to take a sideways, and preliminary, step involving epistemological and methodological clarification and definition. It is necessary to pass through the transdisciplinary area, in continual metamorphosis, in which there is the meeting between political philosophy on the one hand, and social and cultural sciences on the other. This, by considering the Occident (or ‘West’), firstly, as a philosophical construct, secondly, in the plural[2].  USA, Canada, Europe, Israel, Australia…are some of the diverse examples of this plurality – as a specific symbolic/material construct, with internal variants and a long, multi-layered history, especially if we put it under a philosophical-political lens[3]. Modern sciences have been for centuries fundamental components of this geopolitical set.

The disciplines quoted above are an integral part of the Western scientific paradigms, of which we are certainly a part, although from an eccentric position because we are strongly critical of some of its mainstream aspects. Political philosophy alias social philosophy, gender studies, sociology of religions, intercultural communication, philosophical and cultural anthropology, and cross-cultural psychology are the main areas of knowledge involved in this investigation. Within these areas, in the past twenty decades or more, there has been a growth in doubts, to a great extent justifiably, as to the credibility of the definition of the concept of ‘multiculturalism’ and of its relative terminology. These bodies of knowledge have increasingly become relevant for the practices and forms of concrete life, in that their adepts critically focus on pragmatic scenarios, prompting with urgency a need for the grammar of translation. This must take place by means of uninterrupted processes occurring among interactively constructed gendered subjects, and depositaries of practices of sense which are effectively or potentially intertwining. Both the interchanges in transformation, and the consolidation of these merging of experiences (including both conflicts and arduous negotiations) in individual and group experiences have already been defined by many authors as ‘pragmatics of the coexistence between dissimilars’[4] – migrants, refugees, aliens of any kind and with various impact on political imaginary [5]. ‘Pragmatics of alterity’ is not the same but nevertheless a very close concept; it is to be understood as a combination of communicative and interactive practices ‘in movement and in situation’[6]. The reason for having a predilection for such an approach is that it constitutes in itself a meeting point not only between different disciplinary perspectives, but also between, on the one hand, qualitative empirical research, and concrete praxis, on the other.

How can we justify this predilection? It can be done with an explicit position of epistemological standing, having consequent effects at a methodological and methodical level.

Despite dealing with a stance that is still in a minority, or perhaps precisely because it is so, it is desirable that we assume a semantic and disciplinary reading of the issue with differing inspiration and origin. This must be carried out with due caution as regards the translations of meaning from one discipline to another (referable to a hoped for, but as yet non-existent, metaphorology), and in such a way as to acknowledge the limits and conditions of our Western, or better Westernised, mental curve. Why? We are, in the opinion of many[7], in an era in which the orientation of classification and definition in the sciences has changed but in which awareness of this change is slow to arrive. In fact, for a while there has been an inversion in tendency among scholars and experts. There is no doubt that among the upper echelons of the scientific establishment the prevailing model of intellectual elite up until the middle of the last century, made up of white Western male experts and scientists, has been replaced by that which incorporates greater currents and energies that are gender-sensitive, decolonised, and decentralised.

However, as already mentioned, between the legitimisation of this model and the taking root of disciplinary and academic policies the path is still long[8]. More so, this ideal change is taking time to permeate the common consciousness, that is the various levels of awareness widespread within Western societies and above all among the scientific communities which possess rather rigid codes regarding disciplines. This is despite the signs of the times and the influence of the semantic revolutions that have created upheavals in scientific paradigms in the last two centuries[9]. Whether or not we are dealing with a latitudinal revolution, able to permeate each interpretation of ‘semantic-disciplinary code’, is still to be verified. We still must learn the rudiments of the daily practices of interdisciplinary translation, let alone those of the as yet embryonic search for bridging principles for translations. This is also with the aim of undermining the expectations of cognitive superiority or wisdom implicit in all those scientific positions unconsciously self-centered and apodictic, given that they are self-referential. The sciences, through their adepts and the citizens who supply the critical contribution of the public sphere, must become ever more aware of the contextual, cultural, social, and political conditionings[10], of the presuppositions of scientific doctrines and all those having claims on truth and objectivity. This does not mean relinquishing objectivity, but putting it in inverted commas, as already said two centuries ago by Max Weber, and in such a way as to make it a methodically and reflectively controlled cognitive intersubjectivity. As the historians and more informed adepts of the ‘hard’ sciences teach us, the object changes or even vanishes depending on the instrument used to observe it. What is a fundamental, and not ancillary or circumstantial, assumption is the accurate consideration of both the context of observation and the position of the conscious subject, together with the dynamically and historically interpreted relation between subject and object. The stories, the ‘pasts’ of the two sides of the relation count and are diriment.Science can, in fact, be studied, sustains Isabelle Stengers, in the same way as any other social activity, neither freer from the cares of the world, nor more universal or rational than any other [11]. The strictly correlated key terms of this phenomenon are, therefore, the impossibility of an unconditioned objectivity, the position/situation of the subject and the stories which influence the events. When science is no longer seen as bestower of absolute truths beyond contingency, there emerges its capacity of ideological construction and, above all, its strict relation with the political and cultural power within which it operates[12]. The social and economic forces dominant in society determines for the most part what science does and how it does it. Science is, like every human activity, a product of a historical knowledge (and feeling). Stefan Amsterdamski defines it as “a social phenomenon” and maintains that the methodology of research and the very same notion of rationality that guides it, is conditioned by the historical circumstances in which it operates, that is by extra-methodological factors often considered to be external, not essential, or accidental[13]. The techniques, instruments, and the relations within scientific communities and with society characterise research and enable us to see the actions and conduct of science from a point of view that is ethical, social and political, and epistemological[14]. The various nomenclatures, the old and new trends of such an approach cannot be deepened here[15].

The proven vocabulary and the grammatical structure of a disciplinary language, metaphorically speaking, is the first condition for building the instruments of observation, the only tools that are able to make the objects being observed visible. From here stems the need for a critical realisation of the contextual and perspective character of each scientific assumption. This is without this very same awareness diminishing in any way its validity. Creating the conditions of systematic control is a procedure analogous to that of identifying the bridging principles for a correct transfer/translation. It is like transferring a meaning from one semantic field to another, and into disciplinary semantic fields with a fixed repertoire and which are recognised apodictically as undisputed mainstream and therefore, as we have attempted to say already, ‘normalised’ always in an unjust form.

If therefore the philosophical-political ‘grammar’ (morphology and syntax) of human phenomena expresses and indicates these phenomena[16], ‘pragmatics’ does not limit itself to this, but acts with and starting from phenomenal occurrences, in all their variations, translating and decodifying them into diagnostic forms and into interactive intervention. The latter is not necessarily to be seen as if it were irenical, but rather as if it were (one would hope) equipped to identify and face conflicts. Coherently, the term ‘alterity’ fits into the lexical and semantic climate defined by the abovementioned disciplines principally as descriptive specification of the notion of diversity. In fact, there is more than one notion of ‘alterity’, but it is possible to limit oneself to a semantic arrangement that regards at least five interpretations. It would be opportune to clarify in each context of application (common, political, or disciplinary language) which meaning is being used for each occurrence of the term. In the first interpretation, the simplest ‘alterity’ indicates the empirical others, the plurality of concrete and gendered individuals while the second identifies the significant others dealt with in philosophical pragmatism, both resulting as being associated with the vocabulary of pluralism. In the third interpretation, ‘alterity’ is equivalent to the Andersein/Andersheit (Otherness) of the metaphysical and/or transcendent climate, the dimension of the Other with a capital ‘O’, and this is not taken into great consideration herein, ratione materiae,differently from the first two. Rather, in the terminology of social sciences and political philosophy, alterity, in the fourth interpretation, is otherness (with a small ‘o’) in that it is a phenomenal kaleidoscope of the possible differences/diversities/dissimilarities. This meaning, along with the first two, is considered here and in the following pages. On the other hand, a separate disciplinary role, and one which is particularly structural for anthropology, is deserved by the notion of Other and the process of Othering. This is as a dynamic of construction of the other by oneself to find oneself, and through the distancing and opening of a symbolic space/gap to be interpreted as ‘external/exterior’[17]. This is the process which has constituted the Occident/s primarily through the shifting of the Other into the exotic sphere of the Orient/s.

The Occident therefore presents itself as a framework which cannot be ignored by these new pragmatically oriented and interacting disciplinary terms, and it is to be conceived here as an institutional and symbolic construct. It is fundamentally characterised by group identities immersed in the worlds of life, which are neither permanently peaceful nor harmoniously cohesive, unless they have already experienced processes of arduous renegotiation of the relative positions among individuals. ‘Group identity’, in a certain way is a polysemic concept which here indicates the ‘what we are, what we want to become’ of aggregations of gendered and interactively constructed individuals who actively and laboriously identify with one another within a set di common qualities. As group identity is an explicitly anti-holistic category, and therefore programmatically antithetical to that of collective identity, it emphasises undoubtedly the fact that symbolic narrations and stories and codes of identification are necessary for the dynamics of structuring and consolidation of the group. These are also essential for the conditions in which there is the triggering between groups of bridging principles of translation, of symbolic passage between different or asymmetric codes, albeit commensurable, at least presumptively. Symbols are one of the insulators of identity and of the encouragement to communicate, as a rule neither equal nor balanced and due to their asymmetric nature, they are subject to dynamic adjustments. 

‘Asymmetry’: this term is one of the fundamental bridging principles, indicative of a gap, of a dyscrasia, understood as a ‘relative’ lack of proportion of correspondence to two or more components of a set, of a relative and circumstantial non-parity rebus sic stantibus, which needs to be kept under observation. It can assume very different axiological meanings; it can indicate an opening towards some form of transcendence (religious, moral, mystic, theurgical, erotic) or a physiological and functional condition of dependence, such as the caring relations till now codified between parents and children, which are destined to are destined to be overturned with time, although they remain within a social and artificial construction of gender roles.

Having said that, the identities characterising the western European societies in particular possess in themselves not only the dimension of relative and temporary asymmetry, but even more structurally they bear in themselves and bring to bear the dimension of alterity, in the polymorphic modes of the fourth interpretation, with respect to what has been said above. The European context of one of the Occident is further configured as polity sui generis, inserted into the Atlantic dimension of geo-politics, but with a socio-cultural physiognomy, and a constitutional and institutional framework which is distinct with respect to that of the States. It is within this Western European institutional frame that the group identities referred to here are positioned.

However, as always occurs for the dialectic and acquisitive ways with which the “who we are” takes shape with respect to the “who they are”; the Occident, the European one, in particular, constructs its alterities in the processes of construction of the components of identity of itself. It is worth mentioning in this regard, and based on attraction between opposites, the Italian author who is most deep-rootedly opposed to the category of identity and its corollaries. This is particularly appropriate if one sustains, as is the case here, that each process of construction of the self takes place only thanks to the combination/dependence with respect to the alterity that is most relevant in the determining context. We are speaking of the anthropologist and philosopher Francesco Remotti, who has ridden for twenty years or more, with notable iconic and media success, the long-term and somewhat belated repercussions, of Adornian origin, of the now updated postmodern attack on the very same category. “One thing is to sustain that we scientists (if that is how those of us who deal with the human and social sciences wish to be called) must take on identity as a tool of analysis, that is an explanans. Quite another thing is to consider identity not as an explanans, but as an explanandum, not as an instrument with which one seeks to explain, but as an object that must be explained. Identity is not a tool with which one actively explains something, but is something which must be explained, analysed, dismantled. Analysis means after all precisely this: attempting to open, disarticulate, dismantle, and deconstruct (using the current term)”[18].

What we wish to highlight here is that, in the Occident, to be seen as context, background and frame, but not as explanandum in which to locate the identities to be deconstructed and problematized, the ways of building oneself by means of alterity takes place not in authentically pluralistic forms (according to the first and second meaning of alterity). This is because these modes are still contaminated by the legacies and removal mechanisms of responsibility (those that are more cognitive, epistemic, and symbolic rather than political and economic) stemming from the colonial past, and subtly reverberating, because they are latent and unconfessed, in some aporias of the models of integration and inclusion policies. On the one hand, the western scientific paradigm is still very much a system of thought, of language, of conceptual instruments, but above all has been for centuries the vision on the world, ‘the’ model of construction of social realities, valid everywhere and for everyone. On the other hand, if there exists an erosive and deconstructive potential from the inside, it can surely be found in these very same politological discipline in social and cultural sciences. The weakening of conceptual apparatuses and policies, together with those social practices considered harmful or negative for oneself or for others, may have a greater likelihood of success if whoever has this aim works within and with the concepts that one intends to annul. In fact, a researcher in this field is permeated by the very same concepts, and therefore must work in parallel on one’s own stereotypes and prejudices to oust or weaken the collective equivalents. This is all with the aim of creating a more widespread social diffusion of criteria of thought that are not standardised, but critical. It is not by chance that decodification, the critical-diagnostic treatment reserved for the controversial nexus between identity and alterity, in terms of the pragmatics of co-existence is justifiably the experimentum crucis inside and outside of the Occident/s. The deconstructive view should be expressly directed towards those identities that are fringed, multifaceted and pervaded with endogenous alterity, often resistant to the recognition of this internal contamination, in order not to accept the circumstance shared, with the other worlds, of being contaminated, in a sort of self-immune short circuit[19]. The well accredited philosophical term ‘Occident’ should now be drawn as a polymorphic and metamorphic social and institutional dimension, criss-crossed by deep fractures, by dyscrasies, divisions, together with asymmetries, as defined above. All these configurations, both that of the notion of asymmetry, and that of the notion of alterity, are not always acknowledged reflectively, but are rather removed and forgotten because they are painful or ‘embarrassing’ for the good conscience of the citizens of our societies.

Non-standardising emancipation of alterities and detecting ‘positive’ asymmetries

From what has already been said, one can only sketch out the descriptions of the methodological tools used, and the approach steps to the objectives set. The main aim is to trace, by means of exclusion, the cartography of a territory that is invisible to many but still wide pervasive with respect to the Western societies. We are within the context in which there appear to be the theoretical and methodical conditions for a non-standardised emancipation of alterities. By this we mean the specific features of manifestation of both the diversities be guaranteed, and also the discriminating unacknowledged characteristics to be contrasted. Any heterogeneity with respect to any pre-established standard is to be considered iuxta propria principia. In other words, what are being referred to here are the alterities that are materially embodied in individuals and groups that are temporally and contextually identifiable, and according to ways of acknowledgement that enhance the specificity and autonomy of the single cases. What we are dealing with and aim to produce is a volumetric cartography, in which, again with the careful and monitored) use of hydrographic and orographic metaphors there are no sections that are impenetrable but rather interacting, and prepared to accept, within a dynamic and open perspective, even unpredictable or unprecedented realignments. This should be neither ideological nor militant, but realistic, ductile, and pragmatic. It should also be neither apocalyptic nor terrorizing with respect to the unknown quantum of social conflictuality, either latent or open[20], which the ‘indomitable’, perhaps unyielding, components of the territory express.

On the contrary, it is expected programmatically that the cartography, materially and symbolically embodied, is receptive and that it ‘listens’ to the territory – only presumptively known – in which the explorers have arrived, following the pathway indicated by Rosi Braidotti and by the philosophical constellation of post-structuralist feminism[21]. Along with this pathway, gender studies are an irreplaceable theoretical paradigm and of universal validity also for an even more fundamental reason.

Gender studies, revitalizing in some respects the lesson of pragmatism, have in fact, within the perspective of what is a dense and multi-dimensional theory, brought about an innovative discussion regarding both identity and alterity and also individual and culture. They have replaced “a monological theory of the definition of identity with an intersubjective point of view. Some scholars tend to interpret the relationship between the Self and the Other as a continual exchange, emphasizing not a linear movement from union to separation, but an equilibrium still to be defined between the two moments of construction of identity and perception of alterity. According to Jessica Benjamin, for example, who has recently obtained due recognition from European social scientists, the hypothesis of a linear development of the ego through separation appears convincing on the basis of the assumption that dependence on the Other threatens one’s own autonomy and jeopardizes the Self[22]. However, the contrary seems to be true. The central assumption is that recognition on the part of the Other does not arrive unexpectedly from outside and ex post with respect to the construction of the Self, but that it is unavoidable for the very same dimension of the Self, “according to a process that keeps the pragmatics of identity and the pragmatics of alterity strictly connected”[23].

At this point, there is a need to venture into the contexts of political philosophy applied to qualitative social methodologies.

The indication as to how to proceed, the ‘discours de la méthode’ up to this point modestly carried out is the only contribution to this essay. It appears to be one and the same with the putting into practice or putting to the test of the single research contexts, and always by adopting a view oriented towards the institutional repercussions of scientific practices. Along these lines we have the most mature contribution regarding those anthropological theories with a reflective and critical layout.

The positioning regarding the articulation constituted by the identity/alterity syntagm is an inescapable step. It is one and the same with declaring that there are diverging and incompatible meanings or ways of constructing the identity of collective aggregations. The first model is referred to as normative-ascriptive, and its advocates use it in the following way: it is used to indicate, prescribe, or even impose from outside on the true or presumed members of the supraindividual identity, common characteristics and qualities, historical continuity, stability and coherence of behaviours having a practical-moral value, and in such as way as to link them all, and once and for all, in a single destiny. It is worth noting that the detractors of the model are those same social scientists that coined the term, electing it, erroneously, as the one and only way of conceiving the supraindividual dentity: Nierhammer and Remotti among others.

The second model, referred to as reflective-interpretative, is used to describe the practices and self-representations, and the visions of the world, defined and communicated by the concrete subjects who attribute a certain identity to themselves, in both a synchronous and diachronic sense. The observer is positioned to consider individuals as actors and interlocutors in their reciprocal relations, and with respect to painful challenges and crises effectively occurring in time. Ian Assman is one of the most renowned propagators of this model, within the context of the Kulturwissenschaften[24].

This still ‘eccentric’ position, even if theoretically well-worked and convincing, was chosen to avoid the philosophical, political and social debate on recognition and on models of justice becoming unproductive in a sort of self-referential scholasticism. What’s more it works along two parallel tracks, which are incapable of interweaving and tangencies in the specialist languages of both the paradigms. The debate on the concept of recognition has widened in various directions and has arrived at the contemplation of various new expressions. One could cautiously venture the hypothesis according to which the current level of elaboration at which discussion on the issue has arrived, reveals the profile of a dyscrasia at the level of overall elaboration. It is as if we were facing a plus at the theoretical level, a clear advance in the refinement of the concept, like of the ideal group of authors who can bring innovative contributions to its wider and overall conceptual construction. On the contrary, there is a minus at the level of concrete procedural implementation, that is with respect to the translation/transposition into concrete policies that substantiate and incorporate the relevance of the renewed theoretical background that the current debate within political and social philosophy has made available.

Having said that, we intend to follow the most recent, and still incomplete, contribution of the contemporary reflections on the unmaintained promises of both paradigms of the theory of recognition. We resume from a diagnosis of the social pathologies[25] in the plural because they require individualised attention), of an epoch such as ours. As we can read in a very recent, powerful as well as significant, Italian volume of international importance, on the one hand we need to give a contribution to the intuitions of political philosophy on the legitimacy of democratic institutions, reflecting on the fundamental role of the concept itself. On the other hand, we need to establish if it is possible and desirable, to translate and move, with sensitive attention to life contexts, the language of rights into the lexicon of the institutional productive models of good rules and good practices. Both can be considered thus if put to the test, that is if they can bring about therapeutical indications as regards the social pathologies triggered by the various forms of un-acknowledgement which do not do justice to the multi-faceted kaleidoscope of alterities. The precepts and signs of recovery are to be understood not only in the legislative sense, but above all in a diagnostic sense, since the aporias identified, if not healed, can compromise the healthy conditions of reproduction, neither deviated nor degenerated in the institutional outcomes of the Western democracies.

A close understanding of the contemporary social conflicts already taking place and of the latency of new conflicts prompts us “to find in this way a deeper understanding of social justice and democracy than that expressed so far by both communitarism and procedural liberalism[26]”, to be seen as an inescapable historical-ideal legacy, but not also as a source of theoretical-political innovation, with respect to the pragmatics of co-existence.

The refinement of the vision according to the selective criterion aimed at identifying the gaps, of the non-linear conditions of interchange, aims at the elimination of“those optical effects, induced or self-produced, which cause invisibility and therefore the un-ascertability of minority, marginal or simply ‘unprecedented’ forms of political subjectivity. Furthermore, this would enable behaviours and practices of asymmetric respect between reciprocally “others” subjectivities. This contribution as regards cognitive and recognitive faculties prompts the development of criteria directed at detecting and inhibiting the adoption of wrongfully’ asymmetric policies, that is not reflecting the specificities, but rather distorting the appropriate representations of the self, referable to a certain group positioned within the public sphere of a juridically organised whole.

Reflective-interpretative model and its political potentials. Some minimalist cues

In this context, the reflective-interpretative model comes strongly into play as a methodological instrument in actu, capable of exerting a corrective function with respect to the mainstream (empirical-quantitative) social disciplines and the unduly standardized policies. Sometimes the conditions of homeostatic equilibrium, the ‘us, the identity, of groups are reached following lengthy negotiations, lacerations in biographical pathways and conflicts between subjects in structurally (but not necessarily stably) asymmetric positions, as gender studies, recalled here various times, teach us[27]. It follows that there are a great many gradations and steps with respect to the propensity to exclude the different from oneself[28], something that explains the different typologies of identity, some more self-centred and obsessed with internal homogeneity, others more open to comparison with the outside. This occurs because the semantics of the concept of ‘identity’ certainly does not end into the identical/non-identical duality. Using the two previous metaphors, it is not reduced to the brutal alternative of wall/mirror. There ‘are’ walls with windows, gaps, slits, scaffolding, just as there are mirrors that are distorting and misleading with respect to the images of some of the components inside the identity group. Almost always, and for structural reasons of perpetuation of dominance, we are dealing with women and children. The mirror is not always an image of constantly positive meaning, because through the looking glass we can appear to ourselves also in forms that are monstrous, harbingers of sufferance. In the social construction of gender, as anthropological studies show, the representation that makes the female image in itself ugly – females are not ‘beautiful’, and they must therefore adorn themselves, make themselves acceptable, males are by definition ‘beautiful’ – is the rule imposed on women with irresistible mimetic automatisms. The previous case, of induction to a distorted and damaging self-representation to the detriment of certain subjects is the rule, not the exception. However, there are always stratified networks of alliances, affiliations, of resistance strategies, also on the part of figures that are subaltern, in the widest sense of the word. Broadening the field, sometimes we are dealing with inhibiting self-regulation, accepted at times within an allocative perspective, in terms of possible future remuneration. One learns to use strategic thought within any kind of group identity. At the same time, the meaning of reflectivity, if corrected with that of asymmetry, appertains to the vocabulary associated with the justification of forms of repartitioning of material and immaterial costs and benefits, typical of the sphere of social interactions. The main aim of a discussion on the lexicon of asymmetries, understood predominantly in the light of the pragmatics of alterity, consists definitively in tracing, proceeding by exclusion, the cartography of a territory that is invisible to most, but whose presence is nonetheless still in some way seen as immanent in Western societies, Europe in particular. We are dealing with the context in which there are the theoretical and methodological conditions for a non-standardising emancipation of alterities, meaning for the latter the specific characteristics of manifestation of both asymmetries/differences/alterities to be guaranteed, and of the un-acknowledgements and discriminations to be contrasted. The emancipation of the multiverse of alterities means, firstly, making both sides of the argument explicit and, consequently, finding the languages, the reasons and the motivations for exploiting the diversities, together with the excessive or transcendent distances and instead eliminating the discriminations, at least inside the democratic contexts, in order not to betray the principles on which they are founded and which very often are hypocritically trumpeted come banners of superiority with respect to the outside.

We are dealing with a volumetric cartography with no fixed points since also these cannot be subtracted from a process of redefinition and repositioning. This representation of the cultural, political and juridical territory of the Occident must not be, nor appear to be, ideological or militant, and it must be neither apocalyptic nor terrorizing, but rather realistic, ductile and pragmatic. Above all, the representation on offer must be ready to face the unknowns of (explicit or latent) social conflicts which numerous components of that territory create in an endogenous manner or “simply” host, having “received or imported” them from outside. This must be done not only by means of the neutralizing device of in vitro distancing operated by disciplinary conceptualisation, but rather in the forms and styles of life of the ‘variously dissimilar’ groups that affirm themselves laying claim to their rights to be publicly recognised by the current institutions. The best start for politological and social studies would be that the recognitive cartography, materially and symbolically embodied, is receptive and that it can “listen” to the metamorphic territory – and thus only presumptively known – in which the explorers have entered. It must listen to its logic and its (apparent or real) diametrically opposed forms of logic, which however, beyond any completed thematization or “reduction” to the merely linguistic-expressive medium, possess the same value and efficacy that music lovers appreciate in the so-called “continuous bass”. Or in other words the value the same music lovers practise as being part of a respectful audience in a concert. I will briefly give a methodic example of what I have in mind.

The respectful silence in action. The auditory/acroamatic turn

The acroamatic dimension means the interpretative attitude of hearing and listening to somebody narrating in a given time, is what I am referring to, as a specific methodology. This implies the following: to try to perceive, to allow oneself to be aroused from within, not only through the mind, but also through modes of self-situating and acting, without obviously excluding the possibility of saying no to certain fundamental questions and rejecting imitation as such. An extremely rich, and not only evocative, dimension of hermeneutics, that of listening in the position of the pupil with respect to the master in a living context of shared communication, should be recovered and applied under controlled conditions and within a limited time span. We should act primarily (not exhaustively) like those who are listening without interfering with the source of the message, just like the public in a music concert, for as long as the concert proceeds:

ακροαστής/ακουσμαστικός.

This fits the intellectual honesty and rigour that prompts us to assume that phenomena are very probably different from how we consider them at first. The solution will be reached, it is to be hoped, in the end. Starting from this arrangement one can therefore try to understand, as said above, with an openness that is not only moral, but also cognitive. It is mental openness, and the willingness to let oneself be involved and influenced, not mechanically, or mimetically. It is rather to take part in a nobly pragmatic manner which is not predetermined according to the mere dualistic type of reasoning of acceptance-rejection. Moreover, the refusal of the dualistic type of reasoning in favour of a prismatic/polyphonic one is a primary step, not at all definitive. On the contrary, it signals a serious deficiency in the methodological lexicon of the social sciences, to be filled in the future. As a final point, the declaration of a weakness to be eliminated is a research outcome in itself.

It could make sense, because it is desirable, effective, and not merely fascinating, to make recourse again to the ‘noble’ set of hermeneutic kit of tools. In doing this we conceive ourselves as being positioned – temporarily – in the asymmetric location of a pupil who is convinced she/he is giving attention, maintaining silence, to someone else, who exhibits and possesses – rebus sic stantibus– the authoritative and cognitive role of a privileged testimony regarding something totally or almost unknown. It is like the audience in a concert, which is politely requested and committed, for the sake of the game played, to respectfully guarantee silence and attention, in order to enable the performer to give his/her own best in setting and embedding something (each interpretation is totally unprecedented) that has never been fulfilled in this particular way before, so long as the needs of the performance are accomplished, and no more. This kind of temporarily asymmetric condition is not imposed by anyone. It sets some self-evident contextual constraints existing on behalf of the cognitive goal at stake. To summarise, we should learn to abandon for a while, as ‘scientific master narrators’, the kind of surreptitiously over-ordered view of the world that we are used to dispensing as self-evident, together with its correlated vocabulary and nomenclature. It would be better to accept for a while, even better if for a long while, that the role of a listener is what is recommended as the most eligible method for today’s social scientists, who are mostly engaged in discovering the hidden interrelations between chains of cultural and social phenomena that are only prima facie well-known and feasible.

In the social sciences paradigm, if so redrafted, research is specifically oriented towards action. Towards pragmatics, in the broad sense adopted in these pages. We, as researchers, possess the master-narrative (‘we’ are the master of symbols and names), but we must avoid giving credit ex antea to our domestic vision of a particular reality. Thus, reflexively controlled social praxis is configured with respect to the theory of the social sciences[29].

This does not mean having pre-constituted concepts, but admitting having them, and being prepared for them to be demolished or at least rectified. Therefore, it is appropriate to use the metaphor of the journey towards the ideal point that is not known. Such a metaphorical journey presupposes the humility of those who abstain from asserting and imposing their own vision of things. It is the humility of those who, going to a distant, and culturally alien country, do not speak for a year, but limit themselves to listening, just as Matteo Ricci did for a whole year, the first he spent in China at the imperial Court[30].

Such a way of approaching events is highly recommended as a feasible pattern of what I called above the non-standardising emancipation of alterities encourages us to tying new pathways as regards the ‘classic’ theme of differences.

Some concluding remarks

In this sense the conceptual instruments of the philosophical and social disciplines used to investigate the suppositions of dialogue and intercultural communication deserves constant and sympathetic attention. However, often the very same practice of investigating and experiencing all the available pathways and even the most hidden route of symbolic interchange runs up against obstacles which appear at first sight to be insurmountable, even though they may be in a historically and contextually connoted form. Often, we must likewise acknowledge as momentarily insurmountable the asymmetric situations in which we find ourselves “thrown”, and proceed with dignity, renouncing neither open criticism nor untiring civil condemnation. However, we are quite simply not given the possibility of resolving the issues with interaction free from dominance, at least rebus sic stantibus. Let us think for example of inhibiting and damaging asymmetries, both social and economic, including those that are extremely relevant, which our societies never cease to produce or leave in existence, within or without. With respect to the latter, it is certainly not sufficient to have a “heroic” act which attests a noble but fanciful decision to claim responsibility. This is particularly true if whoever observes these diversities is the same individual who experiences in first person these relations – and from their “wrong side”. This is clearly from the side of the disadvantaged, and, if taken singularly, the least appropriate side to overturn those pathological situations which inflict individual and social pain and suffering on the individuals and their dear ones. For those experiencing penalising and harmful asymmetries, any possible glimmers of solution or giving way must come from the institutional or macro-social level. Once again, however, in the very same fact of recognising the limits to dialogue, political and social theory should never opt out of tackling the issues, no matter how obvious, impervious or taken for granted they might seem.


[1]Barbara Henry is full Professor of Political Philosophy at the Sant’Anna School of Advanced Studies (SSSUP), Pisa/Italy. She did research work at the University of Bochum, Saarland, Erlangen-Nürnberg, Lucern, Humboldt University of Berlin and Peking University; she lectured at the University of Frankfurt am Main, of Munich, of Chongqing, of Peking. The main issues of her inquiries are: German classical philosophy, hermeneutics, political and cultural identity, jewish studies on the artificial anthopoids, philosophy of technology and political myths, robotic imaginaries. She published books and articles even on E. Cassirer, H. Arendt, M. Heidegger, E. Jünger. She translated the Eduard Gans’ Zusaetze to Hegels’Philosophy of Right. She coordinated till May 2023 the Ph.D in Human Rights, Global Politics, and Sustainability. Among her books: Dal Golem ai cyborgs. Trasmigrazioni nell’immaginario, Belforte, Livorno, 20162. Among her recent international publications: Was bleibt von der Menschlichkeit ? in Homo Technologicus, Metzler Verlag, 2023, M. Tamborini and K. Liggieri (eds). She edited volumes and review issues in Italian, English and German.

[2]Jürgen Habermas, Der gespaltete Westen, in Kleine Politiche Schriften, (Frankfurt a. Main: Suhrkamp 2004).

[3]Occident, which comes from Latin occidere, means originally “to fall”. Once it was referred to the part of the sky in which the sun goes down, to the direction of the sun’s trajectory from dawn to dusk. Geoffrey Chaucer still used the word in that now-obsolete sense around 1390 in The Man of Law’s Tale. In an earlier work, The Monk’s Tale, which was written circa 1375, he used the word in the “western regions and countries”, sense that we still use to-day and the ancients have used even before. Many centuries before Chauser, Occident referred to the Western Roman Empire or to the western part of the land above sea. In modern times, it usually refers to some portion of Europe and North America, including Australia, New Zealand, even Israel, because of their sharing the same political and juridical culture, as distinct from Asia. The opposite of Occident is Orient, which comes from Latin oriri (“to rise”).

[4]An attempt to operationalise tolerance through coexistence: Evi Velthuis, Maykel Verkuyten· and Anouk Smeekes, The Different Faces of Social Tolerance: Conceptualizing and Measuring Respect and Coexistence Tolerance, “Social Indicators Research” (2021) 158:1105–1125. Published online: 16 June 2021.

[5]Heidrun Friese, Profughi: Vittime – Nemici – Eroi. Sull’immaginario politico dello straniero, (goWare: October 2023)

[6] See: Paola de Cuzzani and Kari Hoffun Johnsen, Pragmatic Universalism – A Basis of Coexistence of Multiple Diversities, in Nordicum-Mediterraneum. Icelandic E-Journal of Nordic and Mediterranean Studies, 18: 3 (2023).

[7]See: Edward Said, Orientalism. Western Conception of the Orient (New York: Vintage Books 1979); Edward Said, ‘Globalizing literary study’, Publications of the Modern Language Association of America, 116:1 (January 2001), 64-68.

[8]Said, ‘Globalizing literary study’, 65.

[9]See: Barbara Henry, ‘Asymmetrien im Spiegelbild. Repräsentationen des Selbst und des/der Anderen, in Der Asymmetrische Westen. Zur Pragmatik der Koexistenz pluralistischer Gesellschaften, ed. Barbara Henry and Alberto Pirni (Bielefeld: Transcript, 2012), 115-140.

[10]See: Chiara Certomà and Barbara Henry, ‘Social Sciences as Sciences and “Hermeneutics”. “Matteo Ricci’s Legacy”’, Questioning Universalism. Western and New Confucian Conceptions, ed. Anna Loretoni, Jérôme Pauchard, and Alberto Pirni (Pisa: Edizioni ETS, 2013), 147-163.

[11]Isabelle Stengers, Power and Invention: Situating Science (Minneapolis: University of Minnesota Press, 1997), 3.

[12]Richard Lewontin, Not In Our Genes: Biology, Ideology and Human Nature (London: Random House, 1984).

[13]Stefan Amsterdamski, Between History and Method: Disputes about the Rationality of Science (New York: Springer, 1992).

[14]Chiara Certomà, Laura Conti. Alle radici dell’ecologia [Laura Conti: At the root of ecology] (Milano: Edizioni e Ambiente, 2012).

[15]«The acronyms ELSI (in the United States) and ELSA (in Europe) refer to research activities that anticipate and address ethical, legal and social implications (ELSI) or aspects (ELSA) of emerging sciences, notably genomics and nanotechnology». Si veda: R. Chadwick e H. Zwart, Editorial: From ELSA to responsible research and Promisomics, «Life Sciences, Society and Policy», 9:3, 2013; H. Zwart e A. Nelis, What is ELSA genomics? Science and Society Series on convergence research, «EMBO Reports», 10 (6), 2009, p. 1-5.; H. Zwart, L. Landeweerd e A. Van Rooij, Adapt or perish? Assessing the recent shift in the European research funding arena from “ELSA” to “RRI”, «Life Sciences, Society and Policy», 10:11, 2014. At the present moment, in 2024, the hegemonic trend of the social-ethical approach to research funding and research monitoring is still called Responsible Research and Innovation (RRI).

[16]In this case, the phenomena are alterities/differences, be they inequalities to be overcome, or diversities to be exploited, or asymmetries-dyscrasias to monitor so that they do not become stable inequalities.

[17]See: Johannes Fabian, Time and the Other – How Anthropology Makes its Object (New York: Columbia University Press, 1983); Heindun Friese, ‘Europe’s Otherness. Cosmopolitism and the Construction of Cultural Unities’, in Europe and Asia beyond East and West: Towards a New Cosmopolitanism, ed. Gerard Delanty (London: Routledge, 2006), 241-256; Heindun Friese, ‘“Vom Aussen Denken”, François Jullien und die Repräsentation des Anderen’, in Der Asymmetrische Westen, ed. Barbara Henry and Alberto Pirni (Bielefeld: Transcript, 2012), 161-185.

[18]Francesco Remotti, ‘L’ossessione identitaria’ [The identitarian obessession], Rivista italiana di Gruppoanalisi XXV: 1 (2011), 9-10.

[19]See: Roberto Esposito, Immunitas (Torino: Einaudi, Torino, 2002). Immunitas: The Protection and Negation of Life, trans. Zakiya Hanafi(Cambridge: Polity Press, 2011); Elena Pulcini, La cura del mondo [The care of the world] (Torino: Bollati-Boringhieri, 2009).

[20]“In ancient cartography the unexplored zones, unknown and frightening, were often marked with an indefinite expression, which simply warned hic sunt leones, here there are lions, indicating all the dignity of that land untrampled by human foot. The borders of knowledge (…) blur for this reason into a primordial and wild world, where untamed nature dominates over whatever law”, Andrea Marmori, opening words of the text in the catalogue of the exhibition Hic sunt leones, Studio Gennai (26 February – 31 March 2011, Pisa). The display, with catalogue in Italian and English with texts by Andrea Marmori, Director of the MAL Museo Civico Amedeo Lia of La Spezia and by Eleonora Acerbi, CAMeC Centro Arte Moderna e Contemporanea della Spezia, included the participation of twenty artists, among whom Mirella Bentivoglio, Achille Bonito Oliva, Christo, Emilio Isgrò, Ugo La Pietra, Mauro Manfredi, Mario Nanni, Vladimir Novak and Wolf Vostel.

[21]Cartography is the image in transformation of a territory which is in turn undergoing transformation. The reference is to the philosophical constellation of feminist post-structuralism, Braidotti, in primis. See Rosi Braidotti, Towards a Materialistic Theory of Becoming (Cambridge: Polity Press, 2002).

[22]Anna Loretoni, ‘Das Gender-Prisma zwischen Identität und Alteritä’, in Der Asymmetrische Westen, ed. Barbara Henry and Alberto Pirni (Bielefeld: Transcript, 2012), 141-160.

[23]The concept of ‘Othering’ referred to by Fabian and Friese to qualify the methodical construction of alterity in the terminology of anthropology does not refer precisely to this meaning of inescapable and vital co-belonging between the two sides. It refers rather to the circumstance that the other is never simply given, is never found or encountered, but is manufactured. On this, see: Fabian, Time and the Other; Friese, ‘“Vom Aussen Denken”’.

[24]See: Jürgen Straub, ‘Personal and Collective Identity. A conceptual Analysis’, in Identities. Time, Differences and Boundaries, ed. Heindun Friese (London-Oxford: Berghahn Book, 2002), 69; Jürgen Straub, ‘Personale Identität als Politikum. Notizen zur theoretischen und politischen Bedeutung eines psychologischen Grundbegriffs, in Der Asymmetrische Westen, ed. Barbara Henry and Alberto Pirni (Bielefeld: Transcript, 2012), 41-78.

[25]Axel Honneth, Pathologies of Reason: On the Legacy of Critical Theory (New York: Columbia University Press, 2009).

[26]See: Antonio Carnevale and Irene Strazzeri, Lotte, riconoscimento, diritti [Struggles, recognition, rights] (Perugia: Morlacchi, 2011); Alessandro Ferrara, ‘La pepita e le scorie. Ripensare la reificazione alla luce del riconoscimento’ [The nugget and the scorias: Rethinking reification in the light of recognition], Quaderni di Teoria Sociale 8 (2008), 45-67.

[27]Among others: Sarah Song, Justice, Gender and the Politics of Multiculturalism (Cambridge: Cambridge University Press, 2007).

[28]With respect to personal identity, there is an illuminating clarification by Jürgen Straub as regards the age-old debate on the typology proposed by E.H. Erikson. This typification is the most recent result of a numerous series of in-depth and accredited works on this theme. This concept is to be inserted, according to a triadic logic, at the centre of a continuum, at whose extremes we find, respectively, the concept of ‘totality’, and that of ‘fragmentation’ (dissociation, diffusion). If seen in the correct light, the conception of Erikson enables elimination of the undue and tendentious simplifications from the contemporary debate on the role performed by the notion of identity in the social diffusion of a model of individual personality that is homogenous, compact, and integrated in an all-absorbing sense. See: Straub, ‘Personale Identität als Politikum’.

[29]Elena Gagliasso, Verso un’ epistemologia del mondo vivente [Towards an epistemology of the living world], (Milano: Guerini, 2001); Michel Foucault, ‘Society must be defended’. Lectures at the Collège de France, 1975-76 (New York: Picador, 2003).

[30]Doris Weidemann, ‘Matteo Ricci in the Perspective of Intercultural Communication Research’, in Questioning Universalism Western and New Confucian Conceptions, ed. Anna Loretoni, Jérôme Pauchard and Alberto Pirni (Pisa: Edizioni ETS, 2013), 165 – 184.

Riscoprire ed emulare la vivace razionalità cristiana del possente Tommaso Campanella

Salvatore Gullì, Università La Sapienza di Roma

avvsalvatoregulli1961@gmail.com

doi: 10.14672/VDS20242PR8

(https://doi.org/10.14672/VDS20242PR8)

Abstract

La principale tesi del saggio è che, già nel Seicento, Tommaso Campanella aveva previsto il declino della religiosità e della spiritualità europee. Dotato di un temperamento vulcanico, il filosofo non si era astenuto dal possente tentativo intellettuale di arrestarlo. Campanella, oltre a teorizzare una filosofia naturale della percezione del reale, ed oltre a conferire preminenza, in filosofia, all’elemento soggettivo, ha insegnato che l’essere del Cristianesimo vada riscoperto di continuo e che, parimenti, l’essere della stessa filosofia vada di continuo rigenerato. Già all’epoca del Campanella le radici culturali cristiane dell’Europa erano state gradualmente  avvelenate. Da allora si profilava nel mondo un destino di ateismo, di tecnica governata da uomini avidi, di morte dei valori e di messa in soffitta di un inestimabile patrimonio di sapienza cristiana. Per onorare finalmente il padre Tommaso Campanella, studiandone attentamente l’opera ed emulandone lo spirito indomito, il cammino di salvezza – nei tempi attuali caratterizzati da desolante buio filosofico e da assenza di verità – potrebbe avviarsi concependo una metafisica antidogmatica, di continuo suscettibile di essere ravvivata, una metafisica intesa a far emergere nel mondo reale autentiche fonti di luce, di religiosa ragione e di vita armoniosa, fonti capaci di orientare una umanità sempre più dolente ed infelice.

Keywords: Campanella, salvezza, verità, metafisica, ateismo.

The essay’s central thesis is that, as early as the seventeenth century, Thomas Campanella foresaw the decline of European religiosity and spirituality. Gifted with a volcanic temperament, the philosopher had not refrained from a mighty intellectual attempt to arrest it. In addition to theorizing a natural philosophy of the perception of reality and in addition to giving pre-eminence in philosophy to the subjective element, Campanella taught that the being of Christianity should be continually rediscovered and that, likewise, the being of philosophy itself should be continuously regenerated and by the time of Campanella, the Christian cultural roots of Europe had been gradually poisoned. Since then, there loomed in the world a fate of atheism, of technology ruled by greedy men, of the death of values, and the stifling of a priceless heritage of Christian wisdom. To honour Father Thomas Campanella at last, by carefully studying his work and emulating his indomitable spirit, the path to salvation – in the present times characterized by desolating philosophical darkness and absence of truth – could be set in motion by conceiving an antidogmatic metaphysics continually susceptible to be revived, a metaphysics intended to bring out authentic sources of light in reality, adding religious reason and harmonious life, sources capable of orienting an increasingly sorrowful and unhappy humanity.

Keywords: Campanella, salvation, truth, metaphysics, atheism

Introduzione

Richiede paziente rigore indagare gli aspetti di sintesi di una figura complessa e filosoficamente imponente come quella di Tommaso Campanella[1]. Nel 1638, anno precedente la sua morte, quando il francese Mersenne aveva suggerito al filosofo e matematico Cartesio di leggere la Metafisica del famoso frate domenicano di Calabria -da qualche tempo esiliato in Francia- Cartesio gli aveva risposto di aver letto di Campanella, anni prima, il libro Del senso delle cose e della magia[2], ed aveva soggiunto all’amico che fosse superfluo rinnovare la lettura di un autore di cui non aveva condiviso il Pan sensismo ed il vitalismo finalistico diffusi nel reale. Peccò di superbia Cartesio e forse, inconsciamente, intuì che il destino tragico del filosofo calabrese non si sarebbe potuto invertire. Vivendo in tempi di declino della religiosità cattolica, Campanella appariva a Cartesio un italiano di genio comunque non predestinato a lasciare un’orma significativa nella storia del pensiero europeo. La filosofia cristiana sulle cui basi si era fondata la civiltà occidentale sarebbe vistosamente regredita -era l’esito paventato dallo stesso frate domenicano- e le altre filosofie, dopo aver adottato e consolidato una metodologia sperimentale ed empirica, si accingevano a prendere un’altra direzione, anche geografica, fino a consumare la propria forza speculativa nell’epoca del nichilismo contemporaneo. In precedenza, fra le figure più importanti di quell’epoca, anche Galileo Galilei, per prudenza, aveva dovuto tenere un atteggiamento distaccato verso l’amico Campanella -che gli scrisse significative lettere- in quanto filosofo inviso al regime spagnolo ed all’inquisizione ecclesiastica, e ciò, sebbene il pensatore di Stilo, spirito sottile e generoso, ormai in carcere da anni, gli avesse dedicato una “Apologia pro Galileo”, cioè una difesa memorabile per rigore dialettico e per acume logico, nella quale difesa egli aveva sostenuto che fosse sbagliato opporre alle dottrine scientifiche le dottrine teologiche, qualora  le tesi scientifiche fossero state efficacemente dimostrate, ed aveva altresì asserito che fosse parimenti sbagliato confutare una dottrina scientifica in nome della teologia. Brillava, insomma, l’intelligenza di Campanella ed anche quello scritto ne aveva rivelato piena testimonianza. Galileo aveva conosciuto Campanella a Padova, nel 1597, quando, per circa un anno, un ristretto gruppo di ricercatori fisici e filosofi naturali avevano coinvolto anche il sagace calabrese di Stilo -ivi introdotto dal Granduca di Toscana-  in esperimenti scientifici che rappresentavano la messa in opera di un metodo di approccio al reale che avrebbe rivoluzionato il pensiero scientifico e quello filosofico a venire. Campanella aveva già subìto due processi, ma era stato condannato a pene miti. A Padova, il filosofo calabrese aveva, fra l’altro, partecipato alla dissezione di un occhio umano e, in virtù di conoscenze di fisiologia e di medicina, aveva avuto modo di essere parte di un ambiente scientifico innovativo. Ma svanì presto, come da qui a poco si dirà, l’orizzonte di ricerca scientifica che si stava aprendo per lui. Campanella, intelligenza precoce, in età giovanile, aveva già scritto un’opera dal titolo “La filosofia che i sensi ci additano”, nella quale egli si era ispirato al pensiero di Bernardino Telesio, fautore di una nuova filosofia sensista della natura che contestava l’imperante aristotelismo diffusosi anche nei conventi domenicani. Il filosofo di Stilo, già in quel primo libro, aveva rivelato una conoscenza incredibilmente vasta, manifestando a chiare lettere l’intenzione di sprigionare potenzialità speculative straordinarie, considerati i suoi studi approfonditi e considerata la precoce assimilazione del pensiero di Agostino, dei platonici rinascimentali Ficino e Pico della Mirandola, di Plotino e dei più significativi padri della Chiesa. Durante il viaggio verso Roma e verso la Toscana Campanella aveva portato con sé manoscritti di sue opere che gli sarebbero state vilmente sottratte a Bologna, su mandato di inquirenti sospettosi. Egli aveva avuto la cattiva sorte di vivere in un’epoca di controriforma, caratterizzata cioè da lotte religiose e da politiche di contrasto delle eresie, in un’Italia contesa dalla Spagna e dalla Francia e governata secondo una machiavellica ragion di Stato. Essendo uno spirito possente per personalità, per volitività, per ingegno, per capacità di studio, per facoltà mnemoniche, le difficoltà della vita non potevano comunque frenarne la veracità, la possanza e la volontà di illuminare le menti. Peraltro, le sue origini umili -era figlio di un ciabattino che si era istruito presso i domenicani- avevano accentuato il desiderio di affermazione e lo avevano reso consapevole della triste realtà sociale del Sud Italia. Costretto a tornare nella sua Stilo, nel 1599, imbevuto di ideali e di profezie millenariste, avendo riscontrato in Calabria una condizione sociale di oppressione dei ceti poveri, incapace di mantenere un atteggiamento passivo, Campanella aveva finito per essere coinvolto in un progetto sedizioso contro il vicereame spagnolo di Napoli. La vicenda avrebbe segnato per sempre la sua esistenza. Scoperta la congiura, Campanella aveva subito una incarcerazione, per sedizione ed anche per eresia, nelle carceri di Napoli, Castel Nuovo, Castel Sant’Elmo e Castel dell’Uovo, durata addirittura dal 1599 al 23 maggio 1626 e, poco dopo, proseguita presso il Santo Ufficio romano fino al luglio  1628. Nel 1600 il filosofo aveva compreso che avrebbe potuto salvarsi da morte certa invocando la giurisdizione ecclesiastica, simulando la pazzia per quattordici mesi e sottoponendosi al supplizio della veglia, tortura bene descritta dallo studioso campanelliano Luigi Firpo[3], tortura così crudele da porre il filosofo, per i sei mesi successivi, fra la vita e la morte. Almeno otto anni di carcere, trascorsi anche nella famigerata fossa del coccodrillo, furono vissuti da Campanella in condizioni inumane, in segrete umide buie sporche e fredde. E tuttavia la sua tempra fisica sopportò tutto ciò.  Ed anzi, in carcere, il frate domenicano riuscì a scrivere numerose opere, poesie filosofiche, “Metafisica”, trenta libri Theologicorum, Ateismo Trionfato, Della necessità di una filosofia cristiana, Epilogo Magno, Monarchia di Spagna, Città del sole, Astrolgicorum libri, Del senso delle cose e della magia, Quaestionesphysiologicae, Ethica, Quaestiones morales, Quaestiones politicae, Oeconomica, Dialogo politico contro Luterani, Antiveneti, Quod reminiscentur, Medicinalium libri, Discorsi ai Principi d’Italia, e molto altro. Il lascito dei suoi scritti costituisce l’aspetto eroico e commovente del calabrese. E infatti sia la vicenda carceraria sia l’impressionante forza di volontà ne hanno reso immortale la  memoria.

L’Italia

Eppure, la cultura italiana continua ad avere un debito non ancora adempiuto verso di lui. Il suo pensiero avrebbe dovuto fecondare una scuola critica a lui ispirata ed invece la filosofia di Campanella, nonostante l’indubbia sua profondità, continua a non essere conosciuta né sufficientemente esplorata. Solo nel 1967 è stata tradotta dal latino, parzialmente, la citata Metafisica da un eminente suo studioso, Giovanni Di Napoli[4]. Quest’opera è centrale, unitamente alla vasta Teologia -curata da un eccellente Romano Amerio[5]– per cimentarsi in un cammino di comprensione della genialità del calabrese di Stilo. Per Campanella la metafisica è la dottrina che verte sui principi primi, sui fini e sui fondamenti delle scienze, dottrina che “supera” le teorie sulla natura e che si eleva alle prime cause ed alla causa suprema. Già nel proemio dell’opera, significativamente, egli aveva chiarito che fosse necessaria una scienza che trascendesse la fisica, dovendosi considerare “donde provengano la razionalità e la sapienza, e che cosa sia, e quale causa incorporea la generi…e per qual fine”.

È noto che le radici filosofiche di Campanella, agostiniane tomistiche e platoniche, hanno fatto sì che egli abbia concepito e fatto fluire, in tutte le opere della maturità, una dottrina primalitaria secondo cui potenza sapienza e amore costituiscono fondamentali ed onnipresenti principi costitutivi e dinamici di ogni ente.  Ogni ente, secondo Campanella, può, in quanto esso è costituito da potenza di essere, sa, in quanto è costituito dal senso di essere, ed ama, in quanto orientato verso la conservazione di sé. Va detto che ogni principio primalitario dell’ente ha, dentro il medesimo ente, una peculiare connessione, un interno movimento, cosicché è dato rilevare che ogni ente che può tenda ad affermare la propria esistenza, ed inoltre che ogni ente che sa sia posto in condizione di tendere alla verità ed ancora che ogni ente che vuole, o che ama, sia posto in condizione di tendere al bene. Campanella ha inoltre mirabilmente precorso il problema dell’autocoscienza, anticipando così il pensiero moderno. Anche l’io è infatti strutturato dalla potenza, dalla sapienza e dall’amore. All’io è dato di sapere circa sé stesso ed esso è in grado di esercitare un potere su di sé, oltre ad essere in grado di amarsi. Il filosofo evidenzia poi che ogni ente, in sé stesso, sia dotato della peculiare facoltà  di poter rapportarsi, di poter sapere e di poter amare l’essere di cui egli è partecipazione, cioè Dio. La metafisica campanelliana ha efficacemente delineato una processione ideale e reale da Dio al mondo delle cose. Fra le altre, le pagine della parte terza, libro XIV, della Metafisica, nelle quali egli ha dimostrato l’immortalità dell’anima, sono filosoficamente sublimi e bene avrebbe fatto Cartesio a leggerle.

Visione

Finalismo, visione organica del reale e del mondo, congiunzione fra religione e metafisica, costituiscono aspetti immortali del suo pensiero da interpretare a fondo nei tempi attuali. Si tratterebbe di compiere una disamina simile a quella che pregevolmente, nel 1929, in Processo e realtà, il matematico e metafisico Alfred Whitehead pose in essere degli scritti di Locke, di Cartesio e di Leibniz per elaborare, appunto,per la contemporaneità, una metafisica organicista relazionale e scientificamente ponderata. Alla stessa stregua, la metafisica di Campanella attende ancora di essere debitamente valorizzata e scoperta.

Nel pensatore calabrese, fra l’altro, anche la stessa concezione del diritto presuppone la citata struttura primalitaria della realtà. A riguardo egli aveva scritto: est enim ius idem quod iustum, il diritto è dunque, secondo Campanella, eminentemente giustizia e non supremazia dei potentati, cosicché una legislazione razionale dovrebbe presupporre una elevata sapienza metafisica.

Anche nella stessa immaginaria Città del Sole i Solari, operando peraltro una razionalizzazione assoluta del vivere sociale, professano la metafisica primalitaria asserendo che Dio “è somma Possanza, da cui procede somma Sapienza, e d’essi entrambi sommo Amore”.

Occorre ancora rilevare che in una fase in cui le eresie stavano destabilizzando il Cristianesimo, il filosofo aveva avvertito l’esigenza di rafforzare il cattolicesimo, riscoprendone l’universalità e l’autentico significato spirituale, tanto da concepire l’idea di Cristo-Dio quale Prima Ragione. Ebbene, ripercorrendo le sue maggiori opere, può riscontrarsi che la sua idea del Cristianesimo debba concepirsi ed attuarsi in termini di consacrazione e di potenziamento della razionalità.

Egli fu perseguitato perché i contemporanei non erano in grado di comprenderne ed assecondarne la preziosa vocazione, quella di porre rimedio alla sempre più ampia crisi di spiritualità che aveva spinto Campanella a prefiggersi di lottare contro ottusità e contro rigidità religiose politiche e filosofiche. La Chiesa e la filosofia italiana persero con lui un’occasione decisiva. Le eresie individualistiche e dissacranti finirono per apparire più rispondenti alla volontà dei governanti di liberarsi di dogmi scolastici e di tradizioni isterilite. Campanella, martirizzato, invano si era reso perfettamente conto di tutto ciò ed altrettanto invano si era ostinato nel tentativo di  rinnovare il Cristianesimo e di restaurarne i principi originari. Ci fu purtroppo, come accennato, una cinica chiusura nei suoi confronti. Egli era troppo avanti con la mente ed oltretutto le sue condizioni esistenziali avevano finito per penalizzarlo fortemente.

Il pensiero

Il pensiero ateo intanto muoveva, sebbene celato, passi decisivi. Non a caso, Aristotele e Machiavelli erano bene accetti. Il primo aveva negato la creazione divina ed aveva inoltre un’idea meccanicistica di Dio inteso come motore immobile non interessato quindi a partecipare alcun valore divino. Il secondo, a parere del frate domenicano, aveva elaborato una visione prevaricante della politica che inevitabilmente tendeva ad estinguere nelle comunità nazionali la giustizia sociale ed i valori di buon governo. Si imponeva perciò per Campanella l’impellenza di distinguere diritto da dominio. Emergeva peraltro la tendenza delle scienze fisiche e matematiche ad espungere la necessità della filosofia e della religione.

In un contesto storico così problematico, Campanella, gigante osteggiato da nemici infidi cinici e insensibili, si prefiggeva di opporsi a tutto ciò. Egli aveva dunque previsto il declino della religiosità e della spiritualità europee e, dotato di un temperamento vulcanico, non si era astenuto dal possente tentativo intellettuale di arrestarlo.

Conclusioni

E tuttavia sarebbe riduttivo considerare il filosofo di Stilo soltanto un mero simbolo di invitta resistenza. Egli è stato molto di più. Ha insegnato che l’essere del Cristianesimo va riscoperto di continuo e che parimenti l’essere della filosofia va di continuo rigenerato. Ma avvelenate gradualmente le radici culturali cristiane dell’Europa, il tracollo della religiosità e della filosofia fu inevitabile. Da allora la situazione si è incancrenita ancora di più.

Preme non sottacere che un uomo prometeico come Campanella avrebbe forse potuto frenare detto tracollo, se fosse stato ascoltato nelle sedi autorevoli e se le avversità non lo avessero sommerso. Già dai suoi tempi si profilava nel mondo un destino di ateismo, di tecnica governata da uomini avidi, di morte dei valori e di messa in soffitta di un inestimabile patrimonio di sapienza cristiana.

Nei tempi attuali, caratterizzati da desolante buio filosofico e da assenza di verità, il cammino di salvezza potrebbe avviarsi concependo una metafisica antidogmatica e perciò di continuo suscettibile di essere ravvivata, una metafisica intesa a far emergere autentiche fonti di luce nel mondo reale, di religiosa ragione e di vita armoniosa, fonti capaci di orientare una umanità sempre più dolente e infelice. Se ciò si facesse, si onorerebbe finalmente il padre Tommaso Campanella, tanto da sentire, naturalmente, la pressante esigenza di studiarne attentamente l’opera e di emularne lo spirito indomito.

Bibliografia

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Campanella C., L’ateismo trionfato, ovvero riconoscimento filosofico della religione universale contra l’antichristianesimo macchiavellesco, a cura di G. Ernst, Edizioni della Normale, Pisa 2004.

Campanella C., Theologia, L. I-XXX, Libro Primo, Edizione a cura di Romano Amerio, Vita e Pensiero, Milano, 1936.


[1]Ad avviso di chi scrive, interpreti efficaci del pensiero metafisico di Campanella sono stati Giovanni Di Napoli e Romano Amerio.  Di Giovanni Di Napoli si legga il fondamentale Tommaso Campanella Filosofo della restaurazione cattolica, volume denso e profondo, pubblicato da Cedam nel 1947. Di Romano Amerio si legga il saggio  Campanella e soprattutto gli studi pubblicati sulla Rivista di filosofia neoscolastica: Ritrattazione dell’ortodossia campanelliana, 20 (1929), Le dottrine religiose di T. Campanella, 22 (1931), La diagnostica della religione positiva di T. Campanella, 23 (1932), Il problema esegetico fondamentale nel pensiero campanelliano, 30 (1939). Su Campanella è interessante anche il libro di Antonio Corsano, dal titolo Tommaso Campanella, pubblicato dalla casa editrice Principato, nel 1944.Nel primo volume della Storia della filosofia moderna del 1952, Cassirer ha svolto un sintetico esame della filosofia della natura; ivi, da pag. 273 e ss.,  è interpretato il pensiero di Campanella ed è richiamato, a pagina 307, l’interessante saggio di Sante Felici dal titolo Le dottrine filosofico-religiose di Tommaso Campanella, libro edito da Carabba nel 1895. Anche Hegel ebbe modo di attingere notizie su Tommaso Campanella dalla Historia critica philosophiae, volume IV, di Jacob Brucker, tanto da menzionarlo nelle sue Lezioni sulla storia della filosofia (si veda pagina 435 dell’edizione Laterza del 2009).Più di recente, soprattutto Germana Ernst, si è a fondo occupata del frate domenicano, fra l’altro, pubblicando da Laterza, nel 2002, il libro Tommaso Campanella e curando, parimenti da Laterza, Del senso delle cose e della magia. La stessa Germana Ernst, nel 2004, ha ottimamente curato la pubblicazione dell’opera L’ateismo trionfato, edito dalla Scuola Normale Superiore. Per quanto concerne il libro di Campanella Philosophia sensibus demonstrata, pubblicato dall’autore in lingua latina nel 1591, Luigi De Franco ha egregiamente tradotto in italiano il cospicuo volume, edito da Libreria Scientifica Editrice nel 1974.Fra  gli studiosi di Tommaso Campanella un posto di rilievo assoluto spetta a Luigi Firpo, fra l’altro, curatore della Apologia di Galileo, di cui è pregevole l’edizione UTET del 1968. Le poesie filosofiche del Campanella sono state pubblicate da UTET nel 1977 a cura di Lina Bolzoni. Nello stesso volume sono contenute Poetica italiana e la parte quarta della filosofia razionale, cioè il libro della Poetica secondo i propri principi. Per penetrare la complessa personalità di Tommaso Campanella resta fondamentale il libro Lettere, edito da Laterza nel 1927, curato da Vincenzo Spampanato.Preme infine segnalare che l’Accademia Nazionale dei Lincei ha promosso, nel 1968, un convegno internazionale sul tema Campanella e Vico, ottimamente pubblicato nel 1969. Pregevoli gli interventi di Eugenio Garin, Luigi Firpo, Rodolfo De Mattei, Giovanni Di Napoli, Romano Amerio, Giulio Bruni Roccia, Giovanni Calò e Natalino Sapegno.Nel presente saggio è contenuto un richiamo all’opera filosofica capitale di Alfred North Whitehead dal titolo Processo e realtà, edita in Italia da Bompiani nel 2019, curata da Maria Regina Brioschi e brillantemente introdotta da Luca Vanzago.

[2]Campanella, Tommaso, e Germana Ernst (cur.). Del Senso delle Cose e Della Magia. Roma-Bari:Laterza, 2007.

[3]Luigi Firpo, del filosofo calabrese, ha altresì curato, da Mondadori, il volume Tutte le opere, nel 1954. Di Firpo si legga, fra l’altro, Il supplizio di Tommaso Campanella, edito da Salerno editrice nel 1985.

[4]Giovanni Di Napoli ha, inoltre, il merito imperituro di aver tradotto parzialmente in italiano, dall’originale latino del 1638, il libro di Tommaso Campanella Metafisica, pubblicato in tre volumi da Zanichelli nel 1967. Nel primo volume, Di Napoli ha curato una rigorosa nota bibliografica relativa agli scritti del filosofo stilese. 

[5]Romano Amerio ha invece profuso il suo impegno scientifico nella cura della graduale pubblicazione di Campanella dei Theologicorum libri 30  e del Quod reminiscenturin quattro libri. Nel 1956 Augusto Guzzo e Romano Amerio hanno curato, per Riccardo Ricciardi editore, un’interessante antologia di opere di Giordano Bruno e di Tommaso Campanella .

La questione dell’identità nel multiculturalismo

Davide Orlandi, Universidad de Granada – ORCID ID: 0009-0007-2102-625X

E-mail: orlandi.dav@tiscali.it

doi: 10.14672/VDS20242PR7

(https://doi.org/10.14672/VDS20242PR7)

Abstract

Molteplici ambiti del sapere umano mettono in primo piano la questione dell’identità.

In relazione agli sviluppi tecnologici raggiunti e prospettati, ci chiediamo quale sia l’identità dell’uomo e come si possa rispondere a tale interrogativo, su un piano filosofico, nella contemporaneità. Dunque, ci chiediamo: cos’è che fa dell’uomo un uomo? La domanda si ripropone con un’urgenza che scaturisce dalla necessità di rispondere in una modalità innovativa, tanto quanto le innovazioni che l’hanno riproposta. Innovazione interrogativa alla quale è immanente una declinazione plurale della risposta e che implica un superamento imprescindibile della risoluzione unilaterale e monotematica. Ritorna, sul piano filosofico, l’inaggirabile questione della natura umana. Essa non risiede in maniera univoca ed essenziale in un’unica nota caratterizzante.

A qualificare come obsoleto il tentativo di definire l’identità umana in maniera monolitica ed a moltiplicare la complessità della questione è la situazione politico-culturale contemporanea, caratterizzata dalla cospicua compresenza di diversi gruppi etnici. Tale presenza connota culturalmente le società come pluralistiche. Ciò che, maggiormente, impegna il pensiero filosofico è proprio la questione dell’identità umana contestualizzata nello scenario multiculturale contemporaneo.

In tale prospettiva nasce l’esigenza di un ripensamento dell’identità dell’io in parametri nuovi per favorire la nascita di un linguaggio interculturale.

Va promossa una concezione di essa come spazio che consenta la condivisione delle differenze, nell’ottica di un arricchimento conseguente.

Keywords: identità, relazione, multiculturalismo, cultura, pluralismo.

Many areas of human knowledge foreground the question of identity.

In relation to the technological developments achieved and envisaged, we ask ourselves what the identity of man is and how this question can be answered, on a philosophical level, in contemporary times. So, we ask ourselves: what is it that makes a man a man? The question comes up again with an urgency that stems from the need to answer it in a way that is as innovative as the innovations that put it forward. Questioning innovation to which a plural declination of the answer is immanent, and which implies an unavoidable overcoming of the unilateral and monothematic resolution. The inescapable question of human nature returns on a philosophical level. It does not reside unambiguously and essentially in a single characterising note. Qualifying the attempt to define human identity in a monolithic manner as obsolete and multiplying the complexity of the issue is the contemporary political and cultural situation, characterised by the conspicuous coexistence of different ethnic groups. This presence culturally connotes societies as pluralistic. What most engages philosophical thought is precisely the question of human identity contextualised in the contemporary multicultural scenario.

In this perspective, the need arises for a rethinking of the identity of the self in new parameters to foster the emergence of an intercultural language.

A conception of it as a space that allows differences to be shared, with a view to consequent enrichment, must be promoted.

Keywords: identity, relationship, multiculturalism, culture, pluralism.

Introduzione

Molteplici ambiti del sapere umano mettono in primo piano la questione dell’identità. Lo sviluppo tecnologico ha condotto l’uomo alla possibilità di vedersi clonato in robot che ripetono, simulano i nostri gesti sostituendoci in maniera efficace in molte azioni. Le scienze mediche, con la cosiddetta “rivoluzione pro-creativa”, sembrano aver messo in crisi la modalità di comprendere il tempo dell’origine, la creazione della vita. Si pensi ad esempio all’utilizzo della diagnosi del preimpianto: si applicano dei test genetici sugli embrioni al fine di decidere il loro impianto. L’applicazione di questa pratica rende precario, “non più definibile con chiarezza il confine concettuale tra il prevenire la nascita di un bambino gravemente malato e la decisione eugenetica di migliorarne il patrimonio ereditario”[1].

Sulla scia delle osservazioni dell’autore di Il futuro della natura umana non intendiamo tacerne l’importanza in ambito diagnostico, ma, allo stesso tempo, consideriamo innegabili le implicazioni che essa induce sul piano etico.

Il pensatore tedesco si chiede infatti se sia compatibile con la dignità della vita umana essere generato con riserva, “essere giudicato degno di vita e di sviluppo in base all’esito di un test genetico”[2].

Quest’interrogativo rimanda alla questione fondamentale del valore da attribuire alla vita della specie umana. Quale significato vogliamo dare alla vita umana?

Habermas teme che la genetica liberale, affidandosi alle opzioni interessate dei genitori, nel caso dell’applicazione della diagnosi del preimpianto, sfoci in un’eugenetica. Il medesimo timore appartiene anche ad Hans Jonas, altro pensatore attento e preoccupato delle sterminate possibilità dell’uomo della tecnica.

L’autore di Il Principio responsabilità, Un’etica per la civiltà tecnologica esprime, con preoccupazione, in diversi luoghi e modi, i rischi dello sviluppo della genetica.

Il rischio principale sarebbe rintracciabile “[…] nell’eventualità che l’uomo, sostituendosi a Dio, possa un giorno arrivare a manipolare la sua stessa costituzione genetica per i fini più disparati o anche prospettiva non meno inquietante, per produrre uomini migliori”[3].

Timore quanto mai realistico. Jonas presagisce una situazione che le biotecnologie hanno consentito di ipotizzare ovvero la modificazione del patrimonio genetico. Infatti, gli sviluppi nel campo della biologia hanno condotto alla possibilità d’immaginare una modificazione dell’immodificabile: il DNA, caratteristica peculiare della propria identità biologica.

In relazione agli sviluppi tecnologici raggiunti e prospettati, ci chiediamo quale sia l’identità dell’uomo e come si possa rispondere a tale interrogativo, su un piano filosofico, nella contemporaneità[4]. L’identità dell’uomo come identità biologica, se le modificazioni del DNA non si limitassero alla cura delle malattie genetiche, non potrebbe più equivalere a ciò che siamo, ma equivarrebbe “a ciò che ci siamo dati”, ciò che hanno scelto che fossimo[5]. Dunque, ci chiediamo: cos’è che fa dell’uomo un uomo?[6] La domanda si ripropone con un’urgenza che scaturisce dalla necessità di rispondere in una modalità innovativa, tanto quanto le innovazioni che l’hanno riproposta.

Innovazione interrogativa alla quale è immanente una declinazione plurale della risposta e che implica un superamento imprescindibile della risoluzione unilaterale e monotematica. Ritorna, sul piano filosofico, l’inaggirabile questione della natura umana. Essa non risiede in maniera univoca ed essenziale in un’unica nota caratterizzante.

Il linguaggio articolato, ad esempio, non può essere più considerato una cifra distintiva dell’umano perché si è scoperto che diversi animali emettono dei suoni aventi significatività sul piano della comunicazione[7]. Nemmeno l’intelligenza[8] né la capacità di pensare, il possesso della ragione[9] possono qualificare in maniera univoca l’identità dell’uomo perché queste possibilità vengono, se non ricreate, quantomeno simulate dai robots. Solo l’empatia, come ha messo in luce Eugenio Mazzarella, non sarebbe riproducibile nemmeno in via di simulazione e risulterebbe, per tale motivo, l’elemento distintivo dell’uomo rispetto al suo “clone elettronico”[10].

A qualificare come obsoleto il tentativo di definire l’identità umana in maniera monolitica ed a moltiplicare la complessità della questione è la situazione politico-culturale contemporanea, caratterizzata dalla cospicua compresenza di diversi gruppi etnici. Tale presenza connota culturalmente le società come pluralistiche.

Ciò che, maggiormente, impegna il pensiero filosofico è proprio la questione dell’identità umana contestualizzata nello scenario multiculturale contemporaneo.

In tale prospettiva nasce l’esigenza di un ripensamento dell’identità dell’io in parametri nuovi per favorire la nascita di un linguaggio interculturale.

″Un linguaggio″ che non si limiti alla giustapposizione delle diverse realtà culturali, che non dia vita, parafrasando Maria Laura Lanzillo, ad una società multiculturale a mosaico, nella quale ogni comunità culturale è una realtà a sé stante, che non interagisce con l’esterno, limitandosi a vivere come una sorta di monade.

La causa principale della configurazione della società multiculturale a mosaico, seguendo le considerazioni dell’autrice di Multiculturalismo, è l’incapacità di affrontare in maniera adeguata la questione della cultura[11].

Inadeguatezza intesa come limite del pensiero, mancanza di un linguaggio, che consenta di non limitarsi al multiculturalismo come constatazione delle differenti culture[12], ma che possa realizzare l’effettiva interrelazione.

La nuova modalità di intendere ed esprimere l’identità dell’io nel contesto multiculturale, che qui si intende delineare, vorremmo fosse un monito a promuovere nuovi modi di pensare, che siano conformi alla contemporanea socialità, che siano quindi ″interculturali″.

In tale prospettiva d’intenti, si vuole mostrare l’inadeguatezza delle definizioni ‘ingabbianti dell’identità’ e la mancanza di pertinenza, nella prospettiva attuale, di una certa modalità di argomentare e definire, una maniera statica di pensare più che obsoleta. Ci riferiamo principalmente alla concezione dell’identità dell’io, espressa in termini esclusivi di un elemento portatore di specificità-singolarità, che funge da possibile punto di riferimento per la superiorità, il dominio di una cultura sull’altra.

A questa concezione definitiva, chiusa, si vorrebbe contrapporre e promuovere un’idea dell’identità, che possa costituirsi come criterio-guida per riconoscere la complessità delle identità individuali e collettive, ripensandole sul piano interculturale. Ripensare l’identità in modo fluido e dinamico intende essere il presupposto teorico per la comunicazione tra le differenti culture, che costellano la variegata società odierna. Essa si deve configurare come un medium per l’ascolto, l’accoglimento, la comprensione e la condivisione delle altre identità culturali.

Nella contemporaneità, infatti, l’identità sfugge ad ogni tentativo di definizione che sia valido in maniera universale ed assoluta. È così difficile determinarla in maniera univoca, perché essa non è più esprimibile con una definizione.

Occorre costatare che non è più una categoria di riconoscimento dell’io, ma è un elemento mutevole, fluido che è in continuo divenire nella dimensione dell’ascolto comunicativo con le altre identità[13]. Va promossa una concezione di essa come spazio che consenta la condivisione delle differenze, nell’ottica di un arricchimento conseguente.

L’intenzionalità teorica qui sottesa è quella di superare l’orizzonte concettuale definitivo dell’identità dell’io di matrice cartesiana, contestualizzando la problematica nello scenario multiculturale della contemporaneità.

Rivolgendo lo sguardo alla storia della filosofia, non tanto lontana, pensiamo agli anni Settanta del 900, ci si rende conto che, forse, tali intenzioni non sono affatto peregrine. La filosofia francese, dopo lo strutturalismo, rappresentata dal pensiero di Sartre, Foucault Derrida, Deleuze, Lévinas, Barthes, Lyotard, costituisce un ″campo di battaglia″ intorno al soggetto cartesianamente inteso.

L’idea che accomuna questi pensatori è quella di “aprire delle faglie” dalle quali far riaffiorare un soggetto, che non sia più un soggetto cartesiano, “che pensa e dunque è”, un soggetto che non sia più fondamento e principio, ma libertà[14].

Muore il soggetto, nasce la soggettività! Viene confutata la modalità di intendere l’identità umana che fa esclusivo riferimento, sulla scia di Cartesio, al possesso della ragione ed all’esercizio di questa nel pensare. L’emblema di questa contestazione del soggetto cartesianamente inteso e della delineazione della nascita di un nuovo soggetto inteso come soggettività è l’immagine letteraria del soggetto vuoto di Foucault, di un soggetto senza identità[15].

I filosofi francesi del post-strutturalismo hanno cercato di dare voce ad un pensiero libero[16] ad una modalità di ″pensare senza ringhiera″, prendendo in prestito un’espressione di Hanna Arendt.

Una modalità di pensare che fosse mobile, dinamica, così come lo era il soggetto, l’identità dell’io e la filosofia stessa, come sapere che racconta la storia di questa fluidità. In questa costruzione concettuale, di matrice francese, volta alla messa in crisi del soggetto cartesianamente inteso, che promuove un’idea di io mai definitivamente risolta, la filosofia di Paul Ricoeur assume un ruolo di grande rilievo. L’autore di Sé come un altro, crea una filosofia del sé, della persona contrapponendola alla visione logica e solipsistica del cogito cartesiano.

La filosofia di Ricoeur rappresenta uno degli itinerari analitici individuati perché consente di trarre alcune indicazioni funzionali al raggiungimento di una concezione dell’identità come prospettiva fluida e dinamica.

Irrinunciabilità e separatezza

I flussi migratori, le dimensioni globali dell’economia e dei mercati, le tecnologie moderne della comunicazione[17] delineano uno scenario contemporaneo in cui l’identità si configura come una questione complessa.

La riflessione sul processo identitario rimanda a due elementi imprescindibili: l’irrinunciabilità e la separatezza[18]. L’irrinunciabilità dell’identità e, congiuntamente, la sua complessità, scaturisce “dall’incompletezza biologica”. L’identità, nella sua forma culturale, rappresenterebbe perciò una “faccenda da non procrastinare” perché fungerebbe da risposta alle lacune che segnano la biologia dell’essere umano[19]. È importante chiarire, prima di procedere oltre, che la cultura non assume nell’intento di questo articolo il ruolo di paradigma definitorio, sostitutivo della natura.

La necessità della declinazione plurale è diffusamente e chiaramente messa in evidenza da molteplici studi di antropologia culturale. Richiamiamo alla memoria, a titolo esemplificativo, le considerazioni dello studioso Clifford Geertz:

La cultura, non completa gli esseri umani, in quanto animali incompleti, ma si tratta di forme di cultura particolari che entrano in gioco nella costruzione dell’identità. Non esiste una natura dell’uomo che lo possa definire, l’uomo diventa tale assumendo subito sembianze particolari, forgiate in qualche luogo sociale, in qualche ambiente culturale […]si tratta di una cornice all’interno della quale, ogni zona del mondo è un conglomerato di differenze profonde, particolarità e stranezze[20].

Nelle luci e nelle ombre, negli universi simbolici e nelle discontinuità di cui la cultura è portatrice risiederebbe la formazione delle identità. Nella visione dell’antropologo statunitense, la cultura va intesa, quindi, come un orizzonte di inclusione della molteplicità di valori, credenze e significati che gli individui elaborano. Le argomentazioni di Geertz dedicano infatti, ampio spazio alla riflessione sulla dimensione simbolica e mettono in luce il ruolo attivo degli individui nella creazione dei numerosi sistemi di significato che costellano una cultura:

L’idea di cultura che io prescelgo è essenzialmente di tipo semiotico. Convinto come, Max Weber, che l’uomo sia un animale sospeso entro reti di significato che egli stesso ha tessuto, credo che la cultura sia costituita da queste reti e che quindi la sua analisi non debba essere una scienza sperimentale in ricerca delle leggi, ma una scienza interpretativa in cerca di significato. Quel che cerco è una spiegazione[21].

La configurazione particolare, plurale semantica e semiotica della cultura, intorno alla quale diversi studiosi si sono soffermati, rappresenta in questo lavoro un punto di riferimento essenziale per poter mettere a tema la questione dell’identità in un mondo multiculturale.

L’irrinunciabilità[22] scaturisce anche dall’inevitabile confronto con le identità altre che attraversano il variegato scenario multiculturale contemporaneo.

Viviamo nell’epoca che ha dimezzato gli spazi ed i tempi: “i flussi globali sono sempre più rapidi e trasportano persone, idee, immagini, da un capo all’altro del mondo, connettendo in termini quasi reali comunità distanti e diverse tra loro”[23]. Nello slittamento d’attenzione “dal concetto di essere identici a sé stessi a quello di condividere un’identità con altri” (in particolare laddove quest’alterità si configura in termini di eticità, tradizioni, condivisione culturale), come ci suggerisce il filosofo ed economista angloindiano Amartya Sen, la questione diviene ancor più impervia.

Richiamiamo alla memoria un aneddoto, raccontato nel saggio Reason before Identity[24], che mostra una curiosa situazione in cui Sen si è trovato afare i conti con la complessità e irrinunciabilità dell’identità:

Qualche anno fa mentre ritornavo in Inghilterra da un breve viaggio all’estero (all’epoca ero direttore del Trinity College di Cambridge) il funzionario dell’immigrazione all’aeroporto, dopo aver accuratamente controllato il mio passaporto indiano, mi pose un quesito filosofico di una certa complessità. Osservando il mio indirizzo sul formulario per l’ufficio immigrazione, (residenza del direttore del Trinity College, Cambridge), mi chiese se il direttore, di cui ero probabilmente ospite fosse un mio amico. Dovetti fermarmi a pensare, non ero del tutto sicuro di poter affermare di essere amico di me stesso. Dopo aver riflettuto, arrivai alla conclusione che la risposta doveva essere sì. Dal momento che tutte queste elucubrazioni avevano richiesto del tempo, il funzionario dell’immigrazione volle sapere precisamente per quale motivo stessi esitando, e più nello specifico, se la mia permanenza in Gran Bretagna fosse viziata da qualche irregolarità. La questione pratica si risolse, ma la conversazione servì a ricordarmi, se mai ce ne fosse stato bisogno, che l’identità può essere una faccenda complicata[25].

L’irrinunciabilità identitaria, che si esplica come necessità di identificazione, di affiliazione ad un gruppo culturale, religioso o politico, è stata spesso associata ad un’esigenza di dominio e considerata come generatrice di conflitti. Proprio Sen in Identità e violenza ha affrontato l’implicazione della violenza nel processo identitario e ha delineato l’approccio plurale da adottare per potersi affrancare dall’implicazione del conflitto. L’itinerario concettuale, che qui Sen svolge, muove dalla presa di coscienza dei tratti che attraversano il mondo contemporaneo, qualificandolo: “la caoticità”, “la preoccupazione” e la “spaventosità”. Diversi sono gli elementi che concorrono nella costituzione di una siffatta immagine del mondo, primi fra tutti: gli avvenimenti violenti e le atrocità degli ultimi anni. Questi avrebbero, secondo il parere dell’economista una causa concettuale scatenante: la classificazione degli individui in due categorie esclusive: civiltà-cultura e religione. Questa convinzione attraversa anche un altro suo lavoro, Identità, povertà e diritti umani, in cui l’autore afferma che:

La politica del confronto globale viene spesso considerata come un corollario delle divisioni religiose o culturali. Anzi il mondo viene sempre più considerato, anche se solo implicitamente, come una federazione di religioni e civiltà, ignorando di conseguenza tutti gli altri modi in cui le persone percepiscono sé stesse. […]. Proprio in questo contesto, in cui si coltiva “un senso di inevitabilità a proposito di una presunta unica- e spesso belligerante- identità che ci caratterizzerebbe, la violenza trova spazio. Le stesse speranze di buone relazioni tra gli esseri umani vengono intese come amicizie tra civiltà, dialogo tra gruppi religiosi o comunità diverse, ignorando i tantissimi modi diversi di rapportarsi delle persone[26].

Sen affronta questo tema del disconoscimento della natura plurale delle nostre identità anche in Identità e violenza in cui sostiene che:

la stessa persona può essere, senza la minima contraddizione di cittadinanza, americana, di origine caraibica, con ascendenze africane, cristiane, progressista, donna vegetariana, maratoneta, storica, insegnante, romanziera, femminista, eterosessuale, sostenitrice dei diritti di gay e delle lesbiche, amante del teatro, militante, ambientalista appassionata di tennis, musicista jazz e profondamente convinta che esistano esseri intelligenti nello spazio con cui dobbiamo cercare di comunicarla più presto[27].

Considerare gli abitanti del pianeta come appartenenti ad una cultura o ad una religione significa oggettivare e staticizzare l’umano negando il diritto di scegliere la propria identità di volta in volta. Un approccio siffatto inficerebbe, nell’ottica di Sen i progressi per la pace, costituirebbe una decisiva fonte di conflitto nel mondo contemporaneo e sarebbe un modo “per miniaturizzare gli esseri umani e non capire nessuno al mondo”.

La debolezza concettuale di quest’irrinunciabile incasellamento in due principali comparti si evince, con chiarezza, dall’erronea considerazione della religione e della cultura. Queste non possono essere considerate come comparti omogenei, circoscritti e singolari, che fungerebbero da unici elementi determinanti le nostre identità. Soprattutto la cultura, scrive Sen, non è “un attributo omogeneo perché possono esistere diverse variazioni all’interno dello stesso panorama culturale”[28]. Essa, inoltre, non è immobile: ogni tentativo di definizione essenziale le è profondamente estraneo. La sua interazione con altri elementi determinanti l’agire sociale è forte e non può essere circoscritta. L’esito di queste riflessioni è la delineazione dell’approccio plurale che Sen suggerisce come atteggiamento proficuo nei confronti delle tematiche identitarie. Esso richiede come presupposti: il riconoscimento della pluralità delle affiliazioni, del ruolo delle scelte razionali e dell’importanza della libertà.

L’associazione di irrinunciabilità e violenza viene indagata anche dalle analisi antropologiche di un’altra voce del pensiero contemporaneo, che smantella il concetto d’identità tout court ed invita ad andare oltre la vecchia logica definitoria per poter cogliere la multidimensionalità della questione[29].

In Contro l’identità, Francesco Remotti promuove, infatti, una presa di coscienza della pericolosità del valore e della rivendicazione identitaria. Il testo prende avvio dalla fascinosa contrapposizione tra la fissità ed il divenire espressa con l’immagine degli oggetti della natura “che rimangono”, detti perciò “di struttura” e i fenomeni naturali che “fluiscono” in continuo movimento come le onde del mare. Queste metafore servono all’autore per mettere in posizione specularmente opposta: il modo,

a parer suo, inefficace e fuorviante di rappresentare l’identità e il modo proficuo e scevro da potenziali conflitti. In questo passaggio si può riscontrare la forte assonanza con la visione di Amartya Sen. “L’irrinunciabilità identitaria”, scrive Remotti, si esplica come il “bisogno fondamentale, determinante, ossessivo” e deve essere oltrepassato perché implica una pericolosa selettività e riduzione, “in quanto con essa, si coglierebbero dei fenomeni e se ne perderebbero molti altri, altrettanto interessanti e decisivi”.

Queste considerazioni esortano ad andare oltre, forse, proprio perché “l’identità” in fondo “non esiste”, ma esisterebbero solo modi diversi di organizzare il concetto che viene sempre in qualche modo, costruito, inventato[30].

L’altro elemento che emerge nell’argomentare sull’identità è la separatezza. “La faccenda in sé è da intelletto tabellesco”[31]: l’irrinunciabilità sembra esprimere la necessità di incasellare e la separatezza di tagliare, recidere per riconoscersi. Nella delineazione di sé stessi rispetto ad un’alterità, sembrerebbe, infatti, essere presente anche un’azione immanente di separazione e di esclusione. Con la separatezza, seguendo le considerazioni di Remotti, offriamo all’idea di identità una stabilità; essa è “maggiormente a suo agio, quando si separa” perché assume “più nitidezza e visibilità ed appare più facilmente garantita”. Se viene centralizzato e reso esclusivo quest’elemento di separatezza si rischia di avviare una concezione fissa, monolitica ed escludente dell’alterità.

Una modalità che implica la nascita di conflittualità, che “separa noi/ gli altri e, anziché collocare noi in mezzo agli altri, posiziona il noi a parte”[32].

È necessario riconoscere che la separatezza simboleggia una leva imprescindibile nella enucleazione di ciò che sostanzia un’individualità, ma non dovrebbe divenire l’elemento preponderante, né essere concepito come un’essenzialità sostanziale fissa. Questa precauzione concettuale dovrebbe essere adottata per tutti i molteplici fattori che determinano le individualità.

Ogni forma concettuale, categoria di pensiero, prassi politica in materia dovrebbe essere scevra di esclusività e rigidità. Ad imporre la mobilità, porosità e provvisorietà[33] è la coesistenza di gruppi etnici differenti, il contatto necessario tra genti provenienti da luoghi diversi, portatrici di diversi universi simbolici. La suddivisione delle persone secondo gli elementi esclusivi della civiltà, cittadinanza, religione o della cultura come categorie rigide, non suscettibili di mutazioni, non può essere considerata adeguata alle temperie multiculturali contemporanee.

Se la riflessione sul processo identitario non subisce questa attualizzazione concettuale essa rischia di rimanere irretita nella sterilità di un approccio obsoleto, come quello multiculturale che sembra promuovere una società ideale, non fatta di individui in carne e ossa, ma di caselle inanimate da giustapporre.

Lo scopo di questo breve mio articolo era di far emergere una modalità filosofica di elaborare, comprendere, vivere l’identità che non fosse escludente, ma integrativa, dinamica. Una modalità altra, che nasca dall’ineludibile esigenza relazionale e dialogica con gli altri.

Le riflessioni antropologiche e filosofiche prese in considerazione, sono tutte accomunate dallo stesso presupposto: l’identità dell’uomo è l’esclusivo esito delle sue costruzioni. Questa premessa sembra echeggiare la convinzione espressa dall’umanista Pico della Mirandola, nella seconda metà del ‘400: “L’uomo avrebbe in sé tutto quanto Dio ha creato e decide di volta in volta cosa essere”[34].

Conclusione

L’obiettivo di questo articolo è stato quello di rintracciare una nuova modalità di intendere ed esprimere l’identità nello scenario culturale contemporaneo.

Obiettivo raggiungibile innanzitutto attraverso il superamento di una concezione dell’io espressa nei termini esclusivi di un elemento portatore di specificità-singolarità, che ha mostrato di fungere da possibile punto di riferimento per la superiorità ed il dominio di una cultura sull’altra.

Si è mostrato la necessità di travalicare tale concezione perché essa è promotrice di una visione limitante e diminutiva delle differenze. A questa concezione definitiva, chiusa, che fissa un confine quasi invalicabile tra il Sé e l’Altro, si è contrapposta una modalità interculturale di pensiero che può costituirsi come criterio-guida per riconoscere ed esprimere la complessità delle identità individuali e collettive.

Un pensiero aperto alla decostruzione dei punti di vista valoriali e culturali di ciascuno, antidogmatico, rispettoso delle differenze e volto alla comunicazione ed alla relazione reciprocamente arricchente.

L’interculturalità come possibilità di costruire relazioni feconde tra le differenze si profila come un nuovo modo di guardare il mondo e di viverne la complessità culturale in cui versa oggi e che in fondo è la stessa complessità che caratterizza la natura umana qualificandola come plurale.

Essa, come è stato messo in luce in questo articolo, si contrappone alla visione puramente descrittiva del multiculturalismo che, al di là dei facili entusiasmi iniziali e delle intenzionalità dei suoi promotori, acuisce l’incomunicabilità, le assolutizzazioni e i fondamentalismi. In particolare, attraverso una ricognizione di alcune visioni filosofiche, antropologiche, etiche, pedagogiche e sociologiche[35] si è giunti a rintracciare nella Filosofia interculturale un orizzonte teorico-pratico per l’ascolto, l’accoglimento, la comprensione e la condivisione delle identità altre.

Essa rappresenta quel modo di esprimere ed affrontare la complessità dell’identità e di modulare la relazione io-altro che ci eravamo proposti di rintracciare.

Quest’orizzonte concettuale esprime tutte le proposte di pensiero che hanno caratterizzato gli itinerari analitici da noi scelti perché favorenti il pensare interculturale. Riteniamo opportuno fare un brevissimo excursus richiamando alla memoria tali concezioni al fine di palesare con nitidezza la pertinenza della Filosofia interculturale come quel pensare altrimenti che si è ricercato.

Attraverso la filosofia di Paul Ricoeur abbiamo messo in luce il concetto di identità che ha in sé, come sua dialettizzazione, l’altro. L’implicazione dell’alterità nel cuore stesso del soggetto ha inferto una prima scossa alla decostruzione di quella maniera monolitica di ragionare sopra citata. La concezione del Sé profondamente implicato con l’Altro ha rappresentato la possibilità di affrancarsi da quel linguaggio che si è avvalso principalmente di categorie concettuali oppositive (proprio-estraneo; bene-male, io-altro) per argomentare intorno all’intersoggettività.

Con la visione del filosofo francese abbiamo segnalato la connotazione profondamente etica della relazione con l’Altro: l’identità è intessuta di alterità e presenta perciò una naturale propensione all’ accoglimento che non va annichilita, ma lasciata essere. Quest’attenzione all’Altro nella sua specificità storicamente determinata è uno dei tratti salienti della Filosofia interculturale.

Essa, infatti, mira a combattere ogni livellamento delle differenze attribuendo valore ad ogni visione culturale. Il suo proposito di conoscenza e contaminazione reciproca muove infatti dal presupposto dell’eguale dignità e plausibilità di diverse visioni del mondo[36].

Gli studi dei pensatori Amartya Sen, Clifford Geertz e Seyla Benhabib sono stati utili per mettere in rilievo la preziosità di una declinazione plurale della cultura e dell’identità dell’uomo.

Le culture hanno come nota costitutiva la processualità perché esse sono frutto di un lavorio di costruzioni e ricostruzioni simboliche.

Nelle luci, nelle ombre e nelle discontinuità di cui sono portatrici risiede la formazione delle identità. Quest’ultima non sarebbe da scoprire, come sostiene ad esempio la linea di pensiero comunitaria, ma sarebbe il frutto di un atto deliberativo razionale. Una conseguenza delle scelte e dell’esercizio della libertà.

Scegliere razionalmente significa dare delle preferenze, attribuire delle priorità facendo un buon/libero uso della ragione e affrancarsi dal conformismo, dogmatismo e dai valori assoluti o monolitici. Sulla stessa linea d’intenti si muovono le argomentazioni relativistiche che sottolineano a più riprese la storicità e la dinamicità delle culture. Il relativismo guarda ad esse come a cantieri sempre in costruzione in cui gli individui forgiano ed acquisiscono le loro affiliazioni.

Questa metafora viene rinvenuta nel testo dello studioso Marco Aime Gli specchi di Gulliver ed è efficace per far emergere il valore aggiunto della visione relativista rispetto alle retoriche del multiculturalismo. Il relativismo può considerarsi la premessa concettuale per la delineazione di un approccio efficacemente plurale alle tematiche identitarie perché si configura come “l’intenzione di leggere le pagine che compongono l’intero libro della vita, senza avere la pretesa di far valere quelle scritte da sé”[37].

Molteplici altri spunti hanno consentito di procedere oltre il multiculturalismo: il concetto di cittadinanza del mondo elaborato dalla studiosa statunitense Martha Nussbaum, la visione bidimensionale della giustizia di Nancy Fraser e la teoria delle capacità condivisa con Amartya Sen[38].

Un’ultima prospettiva che si può ancora annoverare tra le teorie e gli strumenti pratici che favoriscono l’interculturalità è la consulenza filosofica. Una disamina del significato della filosofia interculturale renderà definitivamente chiara la tesi su esposta. A tal fine ripercorreremo le considerazioni del filosofo Raul Fornet Betancourt che in Trasformazione interculturale della filosofia traccia un interessante percorso analitico sul tema. Un’importante osservazione preliminare dà avvio alle argomentazioni del filosofo cubano: è necessario tenere presente che stiamo circumnavigando un territorio nuovo[39] che implica pertanto un certo spirito pioneristico nella trattazione. Bisogna tenere in considerazione che non ci sono ancora basi teoriche a sufficienza e che la materia in questione è soggetta a versioni metodologiche ed ermeneutiche disparate. Seguendo la visione di Betancourt molteplici sono gli elementi che gli conferiscono l’attribuzione di novum nel panorama del pensiero filosofico. Innanzitutto, il suo porsi come processo aperto alle differenze, la volontà di travalicare la tendenza ad assolutizzare le visioni, l’intenzionalità di evitare ogni possibile predominio da parte di una concezione sull’altra. Tutte note che intendono delineare un filosofare critico che si arricchisce delle e dentro le differenze. Siamo dinanzi ad un nuovo modo di intendere “il proprio e l’altrui”. La criticità auspicata viene espressa con una metafora: l’essere dell’io, che si manifesta nell’appartenenza ad una certa cultura, tradizione, preferenze, valori morali, deve essere vissuto non come un insieme di valori assoluti, ma come un ponte finalizzato al passaggio verso l’alterità.

La filosofia interculturale si pone come paradigma teorico per comprendere l’epoca presente.

Essa per essere attuale deve “compromettersi storicamente con il compito di fare in modo che il nostro tempo sia un nostro che possa essere pronunciato da tutta l’umanità come manifestazione di una coappartenenza solidale”[40].

Si delinea così una pratica umana che deve incarnarsi nella gente: “l’interculturalità vuole essere innanzitutto il modo in cui la gente pratica l’umanità e diventa pratica in umanizzazione cioè cresce in umanità”[41].

Con l’aggettivo attuale non si intende la trattazione dei temi in voga nella contemporaneità, ma il risultato di “un abitare criticamente il mondo” considerando ciò che è urgente di fronte alla sopravvivenza dell’umanità. La scelta metodologica principale, infatti, è quella di focalizzare l’attenzione su ciò che accade nel nostro tempo con gli occhi delle vittime emarginate perché non conformi al disegno di un’umanità globalizzata. Da queste considerazioni emerge con chiarezza la disposizione etica della filosofia dell’interculturalità[42] che impone il situarsi nella diversità culturale con particolare attenzione rivolta alle situazioni di emarginazione, distruzioni ed umiliazioni operate in particolare dalle imprese coloniali. L’intenzionalità è quella di rendere manifeste le molteplici voci culturali, affrancando il pensiero dall’asse interpretativo occidentale.

La razionalità occidentale, che sembra volersi cullare sull’identità monoculturale, statica e monolitica, è intenzionata ad individuare una nota comune nella diversità delle visioni provocando un appiattimento limitante delle prospettive[43].

Nella contemporaneità globalizzata ciò che è in gioco è la diversità culturale. Essa rischia di essere annichilita dalla standardizzazione dei modi di vita operata dalla cultura occidentale imperante[44]. Nella stessa linea di considerazioni muove l’analisi di Giuseppe Cacciatore che, a più riprese e in più luoghi del suo itinerario filosofico, ribadisce l’uguale dignità di trattazione filosofica alla totalità delle culture del mondo nelle loro particolarità[45]. Il filosofare del nostro tempo si configurerebbe come reazione al disegno neoliberale del mondo. Esso si porrebbe dinanzi alle sfide scaturenti dalla globalizzazione per travalicare l’immagine monolitica, unidimensionale della realtà.

Questo passaggio verso una visione plurale sarebbe reso possibile da un nuovo processo di apprendimento antropologico.

Betancourt tratteggia la contemporaneità come quella dimensione che vive un’omologazione della vita e dell’essere umano. In essa vigerebbe una visione antropologica incentrata intorno ai termini di funzionamento, possesso e dominio in cui si è smarrito ogni senso di contingenza e contestualità. La proposta interculturale è quella di essere un’alternativa di pensiero che compia un ripensamento dell’uomo e della vita e ne inverta il senso di deviazione provocato dalla visone monolitica capitalistica. La filosofia interculturale si pone, nella visione del nostro autore, come il risultato di un’evoluzione inevitabile del pensiero, che da monoculturale richiede una razionalità dialogica sinfonica. Da questa considerazione si inizia a rendere più chiaro il senso della Trasformazione[46] della filosofia che va intesa come una necessaria revisione, indotta dal nostro tempo, sull’intero impianto delle categorie concettuali che la connotano: prime fra tutte l’universale[47].

La filosofia deve rivedere la sua normatività e mettere in discussione la sua chiusura ad un solo ambito culturale.

Il concetto di universale, come ha osservato il filosofo Jullien, ha funto nella storia del pensiero da nozione centrale per modulare il rapporto tra le culture. Alla luce dei tempi contemporanei, caratterizzati dalla globalizzazione e dagli ineludibili conflitti culturali, esso va sottoposto a critica. Deve essere compiuta una ricognizione della sua genealogia che conduce alla messa in evidenza della non pertinenza della nozione e della sua inefficacia. Queste criticità sorgono dall’uso non trasparente e non neutrale che se ne è fatto. Il filosofo francese ci invita a ripensare il concetto oltre i limiti del contesto europeo, chiederci quale sia la sua pertinenza. Esso deve essere inteso come un’idea regolatrice che orienta la condivisione e la solidarietà tra le culture in virtù di un senso dell’umano che lo sostanzia[48].

Raul Fornet Betancourt elabora un concetto di universale, in forte armonia con le considerazioni di Jullien, slegato dall’unità e inteso come elemento propulsivo della solidarietà nei confronti della molteplicità di “universi” che costellano il mondo.

Il fine essenziale della filosofia interculturale è infatti la condivisione delle differenze e la solidarizzazione tra esse. Il mondo deve essere guardato a partire dalla pluralità prendendo sul serio ciascuna visione individuale e riconoscendola nel suo diritto di essere sé stessa.

In linea con queste considerazioni viene definito il concetto di cultura come insieme di valori nel quale un soggetto nasce, cultura propria, e del quale ogni giorno sceglie di appropriarsi.

Come situazione che lo caratterizza alla nascita e lo contraddistingue come processo di scelta.

Non si tratterebbe di un’originarietà immodificabile, ma mutevole, un prodotto di un processo di discernimento[49]. La categoria centrale della nuova filosofia è dunque la storicità delle culture, del mondo, della vita. La storicità che, a dirla con un’espressione centrale nella visione di Jullien, costituisce lo scartotra l’Io e l’Altro.

Il fine del filosofare interculturale è realizzabile attraverso un dialogo tra le culture: capace di creare processi interculturali. Betancourt si sofferma ampiamente sulle caratteristiche e gli scopi delle relazioni interculturali. Queste implicano una serie di difficoltà tutte legate alle questioni ermeneutiche e metodologiche nelle quali ci si imbatte. Altre difficoltà nascono dalla necessità di compiere una mutazione di pensiero radicale per avviare un’interazione feconda. Il fine del dialogo è la creazione di una convivenza relazionale tra le diversità. Esso ha, in quanto strumento della filosofia interculturale, una caratteristica profondamente etica perché è guidato dal valore dell’accoglienza, condivisione e della solidarizzazione:

Il dialogo interculturale implica perciò una speciale qualità etica che lo caratterizza come forma di vita o di atteggiamento fondamentale teorico pratico il cui esercizio, andando oltre la tolleranza ed il rispetto, fonda l’accoglienza dell’altro come soggetto che, per intervenire e partecipare non deve pagare per primo i diritti di dogana né chiedere un permesso di lavoro. Il dialogo interculturale ha a questo livello il carattere di un progetto etico guidato dal valore dell’accoglienza dell’altro in quanto realtà con cui si vuole condividere la sovranità e con il quale quindi si può condividere un futuro che non è determinato unicamente dal mio modo di comprendere e di desiderare la vita[50].

Il dialogo tra le culture, così declinato, sembra rappresentare anche per Francois Jullien l’alternativa all’uniformazione diffusa. È interessante richiamare alla memoria una digressione di quest’autore sul concetto di dialogo erroneamente inteso e sulla proposta del concetto sopra accennato di “scarto” come termine chiave di un’interazione realmente feconda tra le differenze.

Si è soliti utilizzare la nozione di dialogo per riflettere sulle modalità d’interazione tra le culture, ma secondo il filosofo francese questa nozione non rende con efficacia la pluralità che lo dovrebbe connotare. Esso vien definito soventemente per opposizione concettuale allo scontro delle civiltà[51]. Solo lo “scarto” può avviare una comunicazione feconda. È necessario porsi nello “scarto”, come dimensione critica nella quale rivedere la propria cultura e quella dell’altro.

Il termine dialogo mostra una debolezza concettuale ed un’inefficacia pratica perché “nasconde dietro la bandiera delle buone intenzioni una dispersione troppo sbrigativa dell’idea del Tutto”. Affinché il dialogo possa costituire una reale alternativa all’uniformazione deve rendere manifesta la distanza, lo scarto tra le culture. Deve condurre ad un lavoro reciproco di autoriflessione e confronto non cercando di elaborare una situazione intermedia, ma inducendo a considerare vana la contraddizione esistente. In gioco c’è la proposta di una modalità di vivere la differenza fatta di dia-logicità dialettica, che non annulla, ma lascia essere le posizioni antitetiche.

Lo scarto, dunque, è una prospettiva di pensiero aperto, non dogmatico fluido che consente l’esplorazione di nuove possibilità[52].

Riteniamo opportuno soffermarci ancora una volta sulla concezione dell’universale proposta dalla filosofia interculturale per mostrare come essa risponda in pieno a quel pensare altrimenti che ci eravamo proposti di ricercare. Il senso del linguaggio comune ci induce ad affiancare intuitivamente il termine interculturalità ad una ricerca di universalità.

Questa connessione può essere considerata valida solo se l’universalità non è il frutto esclusivo di una concettualizzazione astratta e formale. Perché, secondo Betancourt, la vera universalità è la contestualità storica della vita umana in tutta la sua pluralità. La caratterizzazione di contestualità riconosciuta alla filosofia interculturale non chiude la strada all’universalità, ma ci segnala che quest’ultima è raggiungibile attraverso processi di interscambio e di comune comprensione. L’intento è quello di favorire un’universalità delle contestualità attraverso una contestualizzazione delle universalità condivise. L’intenzionalità è teorico-pratica: attraversare la molteplicità e complessità delle identità, concependo la diversità come occasione che arricchisce ed impreziosisce la modalità del vivere e del comprendere contemporaneo.

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[1]J. Habermas, Il futuro della natura umana, I rischi di una genetica liberale, Torino, 2002, pp. 23, 24.

[2]Ivi, p. 23.

[3]H. Jonas, L’ingegneria biologica, una previsione, in Id., Dalla Fede antica all’uomo tecnologico, Saggi filosofici, traduzione italiana di I. Bettini, Bologna, 1991. p. 243. Cfr. Il principio responsabilità, Un’etica per la civiltà tecnologica, Torino, 2002. In quest’opera, Jonas affronta, in maniera diffusa, la pericolosità etica suscitata dagli sviluppi della genetica. Anche qui, il filosofo tedesco, individua come rischio più preoccupante l’eventualità di un pieno controllo dell’uomo sull’evoluzione per fini eugenetici. Questa eventualità viene dall’autore considerata come la realizzazione di un obiettivo che appartiene all’uomo: “[…] il sogno ambizioso dell’homo sapiens può essere espresso nella tesi, secondo cui l’uomo vorrebbe prendere in mano la propria evoluzione biologica, non soltanto con lo scopo di preservare la specie nella sua integrità, anche per migliorarla e trasformarla in base ad un proprio progetto. Se ne abbia il diritto, se sia qualificato ad assumere tale ruolo creativo, ecco la questione più seria che possa venire posta all’uomo che si trova improvvisamente a disporre di un simile potere fatale”. Ivi, pp. 26-28.

[4]Una contemporaneità tecnologica che sembrerebbe proporre, per alcuni versi, la piena realizzazione della strumentalizzazione degli esseri umani, individuata da Jonas. “[…] l’uomo stesso è diventato uno degli oggetti della tecnica, l’uomo faber rivolge a sé stesso la propria arte e si appresta a riprogettare con ingegnosità l’inventore e l’artefice di tutto il resto”, così Jonas esprime la riduzione dell’uomo ad oggetto della tecnica. Ivi, p. 23.

[5]Cfr., J. Habermas, J., Il futuro della natura umana, I rischi di una genetica liberale, cit. pp. 54-56, 67-70. Secondo Habermas, l’identità umana come identità biologica coincide con ciò che ci siamo dati già con il solo utilizzo della pratica del pre-impianto.

[6]E. Boncinelli, Le forme della vita. L’evoluzione e l’origine dell’uomo, Torino, 2000. Questo interrogativo accomuna scienziati e filosofi, coinvolgendo i diversi ambiti del sapere. Il genetista Boncinelli scrive: “Che cos’è che fa dell’uomo l’uomo: le sue capacità mentali? La stazione eretta? L’utilizzazione degli strumenti? Probabilmente un po’tutte queste cose anche se non è molto chiaro quale sia venuta prima e quale dopo”. Ivi, p. 148.

[7]Si segnala sull’argomento F. De Wall, Naturalmente buoni, Il bene ed il male nell’uomo e in altri animali, Milano, 1997. L’autore, un primatologo, attraverso lo studio delle scimmie antropomorfe, mostra che è possibile rinvenire nei nostri antenati non umani atti di violenza e prevaricazione, ma anche forme di solidarietà e tolleranza.

[8] Il pensatore statunitense J. R. Searle ha individuato nell’intelligenza, nella effettiva capacità di comprendere la cifra distintiva dell’uomo rispetto al computer: l’uomo comprende, il computer esegue. Secondo l’autore de La mente, il progetto dell’intelligenza artificiale forte fallisce perché non crea con il computer il corrispettivo elettronico dell’intelligenza umana; esso ha successo pieno solo nel simulare la cognizione umana. Searle ha mostrato la grande differenza che intercorre tra la computazione e la comprensione reale in un esperimento mentale. “[…] se l’intelligenza artificiale forte fosse vera – argomenta Searle in La Mente – allora chiunque dovrebbe essere in grado di acquisire una capacità cognitiva qualsiasi semplicemente implementando il programma di computer che simula tale capacità. Mettiamo l’idea alla prova con la lingua cinese. Io non capisco una parola di cinese, nemmeno distinguere la scrittura cinese da quella giapponese. Ma immaginiamo che io sia chiuso in una stanza con alcune scatole piene di simboli cinesi, che abbia un manuale di regole, programma informatico che mi consenta di rispondere a domande formulate in cinese. Ricevo simboli che a mia insaputa sono domande, guardo nel manuale cosa ci si aspetta che io faccia; prendo dei simboli dalle scatole, manipolo secondo le regole del programma e mando fuori i simboli richiesti, che sono interpretati come risposta. Possiamo supporre che io superi il test di Turing per la comprensione del cinese ma non capisco una parola di cinese e se, pur implementando il programma informatico appropriato, io non capisco il cinese, allora nessun altro computer lo capisce per il solo fatto di implementare il programma, perché nessun computer possiede qualcosa che io non abbia. Potevi rendere conto della differenza tra computazione e comprensione reale se immaginate come vivrei invece la situazione dovendo rispondere a domande in inglese. Immaginiamo che nella stessa stanza mi siano rivolte anche domande in inglese, cui io rispondo. All’esterno, le risposte alle domande in inglese ed a quelle in cinese appaiono ugualmente buone, ma vista dall’interno la differenza è enorme. Quale è esattamente? In inglese, capisco ciò che le parole significano, in cinese non capisco niente. Per il cinese sono un computer”. J.R., Searle, La mente, Milano, 2005. pp-81-82.

[9]Come Cartesio ci ha suggerito nelle Meditazioni Metafisiche, Cogito ergo sum, penso dunque sono, esisto. Il cogitare qualificherebbe in maniera esclusiva, il soggetto umano che esiste, è in virtù della capacità di pensare. L’identità dell’uomo è nel suo essere razionale. Meditazioni Metafisiche, in Opere, vol. 2, p. 205, 206.

[10]Diverse sono le correnti di pensiero che mirano alla definizione dell’identità dell’uomo a partire dalla differenziazione dal suo possibile clone elettronico. L’elemento di differenziazione risiederebbe nel possesso dell’empatia come caratteristica esclusivamente umana. Eugenio Mazzarella, in Identità umana ed artificio, idee per una libertà sostenibile, si interroga, sulla scia di alcune osservazioni di Philip K. Dick, intorno a cosa è umano, cosa è reale, cosa non lo è ed individua come caratteristica peculiare dell’uomo la capacità di sentire l’altro, il bisogno dell’altro per la vita di ciascuno, l’empatia non riproducibile nel robot. Le osservazioni di Dick, secondo Mazzarella “[…] bisogna tenerle a mente, quando la filosofia riflette sulle possibilità di ibridazione tecnologica che tecnica e biotecnologia offrono oggi alla struttura psico-biologica e in definitiva storica dell’esserci umano, alla sua identità diveniente, al modo in cui abita il suo mondo e sé stesso. Giacché ciò che è in gioco è proprio l’identità a sé stessa riconoscibile di ciò che fino ad oggi è stato umano”. Nella contemporaneità tecnicizzata, in cui viviamo, viene meno, secondo l’autore, l’empatia, la capacità di sentire l’altro, perché “viene meno l’avvertimento comunitario della nostra vita” cioè la consapevolezza che la nostra vita si difende e nasce con la vita di qualcun altro. Ciò che rende umano l’uomo, l’empatia, caratteristica non riproducibile nemmeno in via di simulazione nel robot, “crolla con il tentativo di raggiungere una durata infinita dell’individualità, pensiamo al tentativo delle biotecnologie di disattivare il programma di invecchiamento dell’organismo” V. Gessa Kuroschka, G. Cacciatore, Saperi Umani e consulenza filosofica, Roma, 2005, in particolare pp.107-117.

[11]M. L. Lanzillo, Il Multiculturalismo, Roma-Bari, 2005. pp. 20, 21.

[12]Cfr., G. Cacciatore, G. D’Anna, Interculturalità, Tra etica e politica, Roma, 2010. L’approccio multiculturale, come mettono in luce gli studiosi Cacciatore e D’Anna, porterebbe ad elaborare “concezioni oggettivanti e descrittive delle differenti culture, mentre l’interculturalità intende formulare relazioni progettuali tra le differenze”. È interessante notare che i due studiosi sottolineano e, nel contempo, superano l’usuale polarizzazione tra multiculturalismo e intercultura: “il multiculturalismo si costituisce come il campo di descrizione e di rilevazione delle differenze culturali, mentre l’atteggiamento interculturale si determina come terreno di possibilità di costruzione del dialogo tra le culture”, “essi divengono tasselli complementari all’interno di una più generale teoria critica dell’intercultura”. Il fine della critica all’interno di una possibile metodologia dell’intercultura è “rintracciare le condizioni di possibilità all’interno delle quali poter organizzare un pensiero dell’intercultura che sappia discernere, penetrare ermeneuticamente e analizzare il tema della differenza in tutta la sua portata dialettica, conflittuale e problematica”. Ivi, pp. 11-12.

[13]Cfr V. Gessa-Kurotschka, G. Cacciatore, Saperi umani e consulenza filosofica, Roma, 2007, in particolare il saggio di L. Cortella, Identità e riconoscimento, pp. 193-197. L’autore mostra tale necessaria fluidità sostenendo che: “Il modo usuale di pensare l’identità [..] che colloca l’identità dal lato della specificità, come ciò che caratterizza il momento individuale[..]” sia obsoleto e sostiene che “l’identità dell’individuo sia il prodotto sociale, il prodotto di interazioni soggettive”.

[14]Cfr. D. Tarizzo, Il pensiero libero, la filosofia francese dopo lo strutturalismo, Milano, 2003, pp. 9-23.

[15]M. Foucault, Il pensiero del fuori, Milano, 1966, p. 116.

[16]Mettendo in discussione la tesi di Cartesio, questi filosofi francesi hanno posto le basi per nuovi interrogativi, a dirla con le parole della studiosa Francesca Brezzi: “non più ti estin (cosa è), ossessione della metafisica classica, ma ti esti (chi è?), chi sono io? Chi sei tu?”. Cfr. in proposito V. Gessa-Kurotschka, G. Cacciatore, Saperi umani e consulenza filosofica, op. cit. in particolare il saggio F. Brezzi, Oltre la differenza verso il riconoscimento, p. 201.

[17]L’influenza delle moderne tecnologie della comunicazione sulla struttura della società in cui viviamo e sulla modalità d’istaurare le relazioni è al centro di diversi studi sociologici.

Si veda in proposito A. Giddens, Le conseguenze della modernità: fiducia e rischio, sicurezza e pericolo, Bologna, 1994. Bologna, 1994; Z. Bauman, Vita Liquida, Roma-Bari, 2006.

[18]Nelle riflessioni svolte in questo paragrafo sono stati elaborati alcuni suggerimenti rilevati durante il seminario Identità plurime e relazione interculturale, tenuto dal Dott. Rosario Diana, presso l’Istituto per la Storia del Pensiero Filosofico e Scientifico Moderno, Consiglio Nazionale delle Ricerche, 1,4,9,10, giugno/2010.

[19]Cfr. in proposito F. Remotti, Contro L’identità, Roma, 1996, pp. 16-19. A. Gehlen, l’uomo, la sua natura e il suo posto nel mondo, Milano, 1983. Il noto filosofo e antropologo tedesco si sofferma più volte sull’incompiutezza biologica della natura umana, giungendo a definire l’uomo come un essere carente: “Dal punto di vista morfologico – a differenza di tutti i mammiferi superiori – l’uomo è determinato in linea fondamentale da una serie di carenze, le quali di volta in volta vanno definite nel senso biologico di in adattamenti, non specializzazioni, primitivismi, cioè di carenze di sviluppo: e dunque in senso essenzialmente negativo”. L’autore propone un’immagine dell’uomo diametralmente opposta a quella proposta dall’evoluzionismo darwiniano: l’uomo non sarebbe il risultato perfetto del processo evolutivo, ma sarebbe “l’animale ancora non definito”. Quest’ultima espressione appartiene a Nietzsche. Secondo Gehlen è un’espressione esatta ed ha un duplice senso: “In primo luogo vuol dire che non sussiste ancora un accertamento di ciò che l’uomo propriamente è. E in secondo luogo l’essere umano è per qualche verso incompiuto, non costituito una volta per tutte”. L’immagine dell’uomo che emerge è quella di un uomo carente perché privo di “specializzazioni specifiche”, ma capace attraverso l’azione di costruire sé stesso. Il tratto distintivo dell’umano risiede nell’Weltoffenheit, nell’apertura al mondo attraverso la quale non si colloca solo in “un ambiente”, ma ha mondo, vivendo e adattandosi attraverso le azioni. In tale prospettiva l’identità culturale è il risultato delle costruzioni degli individui e diviene una sorta di “seconda natura”. Ivi, pp.60-63; 36.

[20]C. Geertz, Interpretazione delle culture, Bologna, 1987, p. 92.

[21]Ivi, pp. 4-5.

[22]Si veda in proposito S. Hall, La questione multi-culturale in Il soggetto e la differenza. Per un’archeologia degli studi coloniali e postcoloniali, Roma, 2000. Qui si discorre dell’irrinunciabilità dell’identità come centralità, che nella contemporaneità, avrebbe assunto la delineazione dell’io e come impossibilità dei soggetti di sfuggire al loro posizionamento. Secondo l’autore la politica che non vede questa necessità di posizionamento delle identità non è confacente ai tempi nuovi.

[23]M. Aime, Gli specchi di Gulliver, in difesa del relativismo, Torino, 2009, p. 74.

[24]Reason Before Identity è la trascrizione di una lezione pubblica tenuta da Amartya Sen nel 1998 presso l’università di Oxford ed ha come tema il ruolo della ragione nella scelta dell’identità. A. Sen, Reason before identity (1999); trad. it, La ragione prima dell’identità, in La ricchezza della ragione. Denaro, valori, identità, Bologna, 2000, pp. 3-29.

[25]Ivi, p.10; Id., Identità e violenza, Roma-Bari, 2006, p. VII.

[26]A. Sen, P. Fassino, S. Maffettone, Giustizia Globale, Milano, 2006. pp. 27, 28.

[27]A. Sen, Identità e violenza, op. cit., p. IX.

[28]A. Sen, Identità e violenza, op.cit., p.113.

[29]F. Remotti, Contro l’identità, Bari, 2008. pp. 60, 61.

[30]Ivi, pp.5,6.

[31]Ivi. pp.8,9.

[32]Ivi. pp. 32-37, 44-46.

[33]Cfr, F. Fistetti, Multiculturalismo una mappa tra filosofia e scienze sociali, Novara, 2008. Nella visione dello studioso contemporaneo, Francesco Fistetti, tale precarietà dei concetti è raggiungibile attraverso un processo di fluidificazione: “bisogna lavorare per smarcare, decentrare e fluidificare i concetti e le pratiche di cui disponiamo e che formano la trama della nostra razionalità”. P.126.

[34]G. Pico della Mirandola, Discorso sulla dignità dell’uomo, a cura di Giuseppe Tognon, Brescia, 1987, pp.3-7.

[35]La ragione del coinvolgimento delle scienze umane nella loro molteplicità ha la sua motivazione nella natura stessa della questione dell’identità. La trattazione di temi quali la formazione dell’individualità, l’intersoggettività, il riconoscimento delle differenze, il conflitto implica un approccio analitico che prevede la lente critica della filosofia, dell’antropologia, dell’etica ed anche delle visioni politiche in quanto è nello spazio pubblico che nascono e si concretano tali argomenti. Uno spazio che alla luce dei tempi contemporanei si definisce con categorie concettuali profondamente mutate basti pensare alla nuova idea di cittadinanza, di confine e di appartenenza. Sul mutamento del senso dell’idea di appartenenza si rimanda alle riflessioni di F. Cambi in Incontro e dialogo, prospettive della pedagogia interculturale, Roma, 2008, pp. 11-21. Sul coinvolgimento dell’etica come intima natura della questione identitaria sul piano interculturale si veda G. Cacciatore, G. D’Anna, Interculturalità tra etica e politica, op.cit., in particolare pp.9-17, 29-65, 101-111.

[36] G. Cacciatore, Identità e filosofia dell’interculturalità, op. cit, p. 241.

[37] M. Aime, Gli specchi di Gulliver, in difesa del relativismo, op. cit, p.72.

[38] L’assonanza di queste proposte analitiche con la Filosofia interculturale che tutte le contiene e le esprime non è una tesi peregrina. Lo studioso Giuseppe D’Anna ha colto una forte convergenza tra le indicazioni contenute nella teoria delle capacità di Martha Nussbaum e la proposta del filosofo Giuseppe Cacciatore di un’etica interculturale. Gran parte della letteratura dedicata alla Filosofia interculturale condivide la messa in discussione dell’universale etico assoluto ed esclusivo. Interculturalità tra etica e politica, op. cit., p.71.

[39] Ivi, p.51, Giuseppe Cacciatore specifica che di filosofia interculturale si è iniziato a parlare tra la fine degli anni 80 e gli inizi degli anni 90 specialmente nelle aree filosofiche tedesche e latinoamericane quando si è iniziato ad acuire il problema del multiculturalismo e le questioni annesse che oggi sono imperanti. Cfr. in proposito G. Cacciatore, P. Colonnello, S. Santasilia, Ermeneutica tra Europa e America latina, op. cit, p.50. Id., Identità e filosofia dell’interculturalità, op. cit. p. 236.

[40]R. Fornet Betancourt, Trasformazione interculturale della filosofia, op.cit. p.36.

[41]Ivi, p.43-44.

[42]Sull’etica dell’interculturalità si veda G. Cacciatore, G. D’Anna, Interculturalità tra etica e politica, op., cit. V. Gessa Kurotshka, G. Cacciatore, Saperi Umani e Consulenzafilosofica in particolare il saggio di G.M. Cazzinga, Interculturalità e consenso etico, pp.329-336.

[43]Giacomo Coccolini, nel presentare l’opera del filosofo cubano, individua nel superamento della lettura occidentale monoculturale un significativo passaggio del percorso dell’autore verso il modello di filosofia interculturale. Coccolini specifica che Betancourt non abdica alla razionalità tout court, ma aspira a far emergere le diverse visioni razionali per liberare la filosofia da un’interpretazione unilaterale. R. Fornet, Betancourt, La trasformazione interculturale della filosofia, op. cit. p. 15.

[44]Cfr. in proposito F. Jullien, L’universale ed il comune, il dialogo tra le culture, Bari, 2010. p. VII.

[45]Segnaliamo in proposito alcuni di quei luoghi: G. Cacciatore, G. D’Anna, Interculturalità tra etica e politica, op., cit; V. Gessa Kurotshka, G. Cacciatore, Saperi Umani e Consulenza filosofica ,op. cit.; G. Cacciatore, Identità pluralismo, universalismo dei diritti, in A De Simone (a cura di), Identità, spazio e vita quotidiana, Quattro venti Urbino 2005; Id., Capire il racconto degli altri, in Reset, CXVII, Roma, 2007; Id., Identità e filosofia dell’interculturalità, op. cit; G. Cacciatore, P. Colonnello, S. Santasilia, Ermeneutica tra Europa e America latina, op. cit.

[46]Sulla trasformazione che la filosofia è chiamata a compiere anche Cacciatore si esprime nella stessa direzione d’intenti. Egli congiunge al tema la trasformazione anche l’ermeneutica come lente critica che può coadiuvare la filosofia dell’interculturalità. L’ermeneutica, grazie alle interpretazioni di Gadamer, Ricoeur, Dilthey, non è più soltanto una metodologia dell’interpretazione, ma diviene il metodo attraverso cui ogni aspetto della realtà presente e passata è interpretabile a partire dalla conoscenza del suo carattere storico e culturale. G. Cacciatore, P. Colonnello, S. Santasilia, Ermeneutica tra Europa e America Latina, op.cit., p.7.

[47]Ivi. p.49. Giuseppe Cacciatore ritiene che le categorie concettuali che devono essere riviste per poter recuperare la loro valenza critica rispetto all’ideologia imperante scaturita dalla globalizzazione siano molteplici: «penso alle idee di democrazia, ai concetti di libertà, giustizia, solidarietà, dignità, identità, sviluppo, diritti umani, che sono, proprio perché storicamente determina ti legati ai contesti sociali e culturali continuamente esposti alla crisi ed alla consumazione, ma non per questo diventano ferri vecchi da lasciare nello scantinato ad arrugginire».

[48]Jullien traccia un itinerario critico nei confronti della triade concettuale universale, uniforme, comune finalizzata a mettere in luce come generalmente le nozioni citate siano considerate erroneamente equivalenti o non sottoposte al confronto adeguato. A quest’esplorazione critica il filosofo fa seguire la proposta di un dialogo tra le culture che venga articolato dal piano comune dell’intelligibilità, dall’auto riflessione dell’umano, riflessione su di sé e sull’altro, che valorizzi lo scarto ineludibile tra le culture promuovendo una fecondità della comunicazione. L’intelligenza comune va proposta e non la cultura comune. F. Jullien, L’universale e il comune, il dialogo tra le culture, op.cit., pp. 173-175.

[49]R. Fornet Betancourt, La trasformazione interculturale della filosofia, op.cit., p. 91.

[50]Ivi. p. 98.

[51]Cfr. in proposito S. P. Huntington, Lo scontro delle civiltà ed il nuovo ordine mondiale. Il futuro geopolitico del pianeta, Milano, 2000. La tesi di Samuel Huntington harappresentato dal 1993, anno della pubblicazione dell’articolo Scontro tra le civiltà? che lacontiene, il punto di riferimento principale per una discussione sulle relazioni identità alterità.Relazioni sfocianti, secondo lo studioso americano, nello scontro tra civiltà. Lafonte del conflitto fondamentale del mondo che ci apprestiamo a vivere sarebbe legato allacultura. Lo scontro tra le civiltà del mondo dominerebbe, nella visione di Huntington, lapolitica internazionale in maniera irreversibile. Si veda anche in proposito F. Viola, Democrazia culturale e democrazia delle culture, in Studi emigrazioni, migration studies, XXXVIII, p.144,200, in www.unipa.it.

[52] F. Jullien, L’universale e il comune, il dialogo tra le culture, op. cit., p. 165-171. Per un approfondimento del dialogo tra le culture si veda anche R. Pannikar, Pace e interculturalità, una riflessione filosofica, Milano, 2002; in particolare E., Said, Orientalismo, L’immagine europea dell’Occidente, Milano, 2001. Said riflette sulla modalità di considerare le differenze che possa superare ineluttabilità del conflitto. Come Jullien e Betancourt esprime la necessità di ripensare le categorie del pensiero attualizzarle per poter misurarsi con i tempi contemporanei. Nella sua ottica il primo passo per questo ripensamento è la considerazione della modalità con la quale sono sorte le differenze.

Queste ultime spesso vengono concettualizzate attraverso una proiezione erronee e sbrigativa dell’alterità. L’idea che l’Oriente, il differente per antonomasia, sarebbe stata generata dal contesto occidentale in cui è nata e non da una effettiva conoscenza.