Intero numero disponibile qui.
Gioacchino Mazzocco, Università degli studi di Napoli Federico II; ORCID ID: 0009-0006-2234-464X
E-mail: gioacchinomazzocco@gmail.com
doi: 10.14672/vds20231pr3
(https://doi.org/10.14672/vds20231pr3)
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Revisioni di:
Antonio Martone, Università degli Studi di Salerno
Giuseppe Pintus, Università degli Studi di Sassari, ORCID ID: 0000-0003-2628-5713
Silvia Piccini, CNR, ORCID ID: 0000-0002-2584-0191
Abstract
Il modo in cui un gruppo sociale pensa e vive la dimensione temporale dell’esistenza incide in maniera decisiva sulle dinamiche educative. Un’analisi della cultura postmoderna consente di cogliere le ragioni della odierna centralità del presente, rispetto alla enfatizzazione del passato (tipica delle società tradizionali) e del futuro (tipica dell’epoca moderna). Il presente articolo tenta di sottolineare il valore e le dimensioni fondamentali di un’educazione della memoria, qui intesa come fattore che non trascina verso il passato ma permette di vivere più consapevolmente il proprio tempo e di generare nuova storia.
Keywords: memoria, educazione, senso della Storia, valore, redenzione
How a social group thinks about and experiences the temporal dimension of existence decisively affects educational dynamics. An analysis of postmodern culture allows us to grasp the reasons for today’s centrality of the present, as opposed to the emphasis on the past (typical of traditional societies) and the future (typical of the modern era). This article attempts to emphasize the value and fundamental dimensions of education of memory, understood here as a factor that does not drag one back to the past but allows one to live one’s time more consciously and generate a new history.
Keywords: memory, education, sense of History, value, redemption
Il senso smarrito
Riflettere sulle modalità e le dinamiche attraverso le quali è primariamente concettualizzata e vissuta la dimensione temporale dell’esperienza umana nell’orizzonte della cosiddetta cultura postmoderna appare un passaggio obbligato, poiché ci invita a ripensare le condizioni di un’educazione possibile per il nostro tempo, per ciò che quasi acriticamente chiamiamo ‘presente’. In questa prospettiva, il nostro percorso tenta di giustificare e delineare l’idea di una “promozione della memoria” quale aspetto fondamentale del difficile lavoro di ricomprensione-rigenerazione dell’impresa educativa che ci impegna nel presente. A un primo sguardo pare che la coscienza contemporanea – qui intesa come quella facoltà intellettiva di avvertire, comprendere, valutare i fatti che si verificano nella sfera dell’esperienza individuale o si presentano in un futuro prossimo – si posizioni nell’antinomia d’essere pregna di senso storico e al tempo stesso d’essere sempre più impotente a formulare il pensiero della storia, ovvero di produrre un pensiero informato dal senso storico della sua tradizione, ma divenuto incapace di produrre il pensiero pensato della storia. Com’è noto, nel XIX secolo prende avvio quel processo che porta alla concezione di una completa storicizzazione dell’esistenza, all’idea dell’uomo come ente storico che storicizza un mondo in evoluzione e lo sottrae ad ogni forma di fissismo aprioristico. Non è possibile dar conto di tutte le produzioni intellettuali orientate in questo senso, ci basti solamente citare i titoli delle opere che a nostro parere hanno lasciato un segno tangibile in quel periodo storico: Phänomenologie des Geistes di Hegel, la cui prima pubblicazione risale al 1807; Das Wesen des Christentums del 1841 scritta da L. Feuerbach; The origin of species di Charles Darwin risalente al 1859; il primo volume di Das Kapital di Karl Marx pubblicato nel 1867 (gli altri tre, com’è noto, vengono pubblicati postumi); merita una menzione d’onore l’Introduzione alle scienze dello spirito di Dilthey del 1883. Qui, l’autore sostiene la famosissima tesi della differenza dell’oggetto d’indagine tra le scienze dello spirito e le scienze della natura. Il XX secolo è segnato, al contrario, dalla drammatica sfiducia nella pensabilità del progresso storico: vive dell’eredità trionfale delle grandi filosofie della storia; tuttavia, cammina inarrestabilmente verso il suo esaurimento, come quello di un patrimonio cui si attinge senza poterlo più alimentare, fino alla dissoluzione del contenuto concettuale di storia. È celebre la riflessione gramsciana sul tema: “La crisi consiste appunto nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere: in questo interregno si verificano i fenomeni morbosi più svariati”.[1] La tesi, variamente riproposta in epoca contemporanea, della fine della storia trova una formulazione nel saggio di K. Löwith Significato e fine della storia. I fondamenti teologici della fine della storia sono una illuminante interpretazione (Löwith, 1965), che ne mostra la paradossale filiazione dalle potenti filosofie della storia che la modernità (da Agostino d’Ippona a Comte, passando per Comte, Hegel e Marx) ci ha consegnato nel proporre le loro visioni unitarie del processo storico, velano un fondamentale riferimento al principio, proprio della teologia cristiana, di un fine escatologico quale condizione di possibilità della sensatezza della storia. Tentando di emanciparsi da un’origine dalla quale, nonostante tutto, si continua a dipendere e verso la quale si prova crescente ostilità consiste per Löwith nella paradossale condizione della moderna coscienza della storia, “tanto cristiana nella sua origine quanto anticristiana nelle sue conseguenze” (Löwith, 1965, 225), che giungono secondo lui – allievo di Martin Heidegger nonché acuto interprete del pensiero di Nietzsche – a un esito imprevisto e insieme ineluttabile consistente nel riproporre visioni della temporalità proprie dell’universo concettuale greco, ispirate a una visione ciclica che si impone in modo inesorabile alle vicende dell’uomo, negando a quest’ultimo valore alla sua libertà e alla sua iniziativa. L’ambizione prometeica di conoscere e dirigere in modo puramente razionale il corso storico si ribalta, anche a causa delle tragiche smentite che la concreta vicenda storica novecentesca, ed in particolare gli orrori dei totalitarismi, si incaricano di produrre, in un pessimismo o quantomeno uno scetticismo nei confronti della storia, che ripresenta i tratti dell’antistoricismo extra-giudaico e precristiano (Natoli, 1995); l’idea moderna della fine della storia, nel senso hegeliano dell’espressione come compimento della vicenda umana e cosmica attraverso la compiuta realizzazione dell’Assoluto nella storia, si risolve nell’idea postmoderna della fine della storia, come decadimento del senso storico dell’esperienza umana, la quale, priva di un significato unificante, è abbandonata ad un procedere nichilistico, frammentato e privo di senso. Siamo alle soglie di quella crisi profonda dell’intera esperienza umana che Nietzsche nel suo Der Wille zur Macht chiama nichilismo passivo. «Che cosa significa il nichilismo?» domanda il filosofo di Röcken. «Significa che i valori supremi si svalutano. Manca lo scopo. Manca la risposta al perché?»[2]. Tentare di rispondere seriamente a questa domanda equivale a ricucire quella frattura causata dalla modernità tra l’esperienza storica e la razionalità. Non senza uno sconvolgimento profondo, che coincide con l’apertura dell’epoca del nichilismo e con il suo tentativo di rimuovere gli interrogativi sul nesso tra storia e desiderio di felicità e sul problema del male nella storia. La fine dell’epoca moderna è così anche perdita dei lineamenti di un umanesimo storico.
La dimensione storica
La riflessione nicciana consente di collegare il discorso fin qui condotto a proposito della dimensione storico-temporale alla più generale riflessione sulla temperie culturale propria della “condizione postmoderna”[3] (permettendo di cogliere più chiaramente la posta in gioco per la riflessione sull’educazione), e di evitare il suo confinamento nei cieli rarefatti dell’indagine speculativa (aprendo il varco ad un confronto con la fenomenologia dei vissuti esistenziali, soprattutto giovanili, e con i concreti problemi educativi che si offrono oggidì all’analisi descrittiva della sociologia dell’educazione). Un’ampia letteratura si è già incaricata di indicare la natura della relazione che nella cultura postmoderna collega la crisi dell’idea di storia alla crisi dell’idea di razionalità e dell’idea di soggetto, nonché la necessità di ri-problematizzare in maniera radicale la riflessione sull’educazione alla luce di questa triplice criticità.[4] L’educazione in senso umanistico (secondo un’accezione ampia dell’aggettivo, non riferita solo ad alcune discipline con esclusione di altre), concepita come processo che favorisce la complessiva crescita personale introducendo alla scoperta della realtà ed alla relazione con gli altri tramite la comunicazione di ipotesi culturali operata dalla generazione adulta (verificabili, modificabili e superabili), è fortemente messa in questione dal dubbio sulla stessa esistenza di una obiettiva esigenza di senso da parte dell’io, del quale sono fatte valere esclusivamente esigenze di tipo biologico e sociale, condannandolo ad essere parte di una “folla solitaria”, cioè ad una sostanziale omologazione: “l’affermazione […] di un plesso di esigenze costitutive dell’io, qualificanti la sua natura propria (verità, giustizia, felicità, amore, bellezza ecc.) le quali muovono la ragione alla ricerca del significato complessivo dell’essere appare […] come sintomo di altro, ideologia, espressione sublimata di un’alienazione. […] In questo passaggio l’io, come essere sociale, perde la sua egoità, la sua irripetibile individualità […] che fa di ognuno una personalità singola, un volto nella folla, un luogo insostituibile dell’essere. La decostruzione del significato e del soggetto comporta la decostruzione della temporalità, poiché senza significato e senza io umano non c’è propriamente storia, e dunque è impensabile la continuità di una memoria, la consegna di un patrimonio, come, del resto, l’autentica proiezione progettuale e la speranza: non resta che la prigione dell’istante e la “dittatura” del presente. Altrettanto lucidamente lo avevano compreso i giovani inglesi che, ispirandosi ai canoni estetici della “No future generation”, si vestivano completamente di nero e, interrogati nel corso di un’intervista sulle ragioni di quell’abbigliamento, rispondevano che, non aveva alcun senso discutere di passato o di futuro, per loro esisteva solo il presente. Esempio di come il senso attribuito da un uomo o da un gruppo sociale all’esperienza del tempo dica, più o meno esplicitamente, di una posizione complessiva di fronte all’esistenza. Non sempre, naturalmente, il nichilismo contemporaneo offre questo volto rigoroso e tragico, alle volte si presenta sotto vesti sgargianti, gaie e inconsapevolmente spensierate. Nondimeno, ci pare che solo alla luce del complessivo sfondo culturale che abbiamo cercato di tratteggiare si comprendono le radici culturali e antropologiche di una vasta fenomenologia (soprattutto giovanile), definita dai sociologi “presentismo postmoderno”, documentabile sia a livello di educazione informale (vissuti esistenziali) che di educazione formale (tendenze culturali), rispetto alla quale il mondo dell’educazione si scopre sovente incerto e dubitoso, e che in vario modo documenta una soppressione dello spessore temporale dell’esperienza umana. Negli ultimi anni, alcune ricerche sociologiche hanno ampiamente indagato, gli atteggiamenti giovanili; a riguardo del rapporto con il tempo, emerge “un anomalo prolungamento della fase giovanile, una fatica ad assumere le responsabilità richieste dalla vita adulta, una preferenza per la situazione di vita protetta assicurata dalla famiglia, senza i costi di una soggezione alla sua autorità. […] In questo appare una incertezza rispetto al proprio futuro, una esitazione a varcare soglie importanti nel percorso verso la vita adulta, poco attraente, preferendo restare in una sorta di «moratoria». […] Tra i giovani fa capolino un nuovo senso del tempo, declinato tutto al presente. Essi sono testimoni ed attori del declino della centralità del passato, tipica delle società tradizionali, che guardavano a ciò che è stato come modello di ciò che è e deve essere, così come della crisi del futuro, ideale della modernità, trainata dall’aspettativa dello sviluppo continuo, di un miglioramento inarrestabile, che si presentasse sotto le vesti del progresso tecnologico e del benessere o dell’avvenire rivoluzionario. Rispetto a queste emergenze empiriche, la considerazione pedagogica e la gestione educativa oscillano tra opposti atteggiamenti, che appaiono entrambi non soddisfacenti: vi è la riprovazione di stampo moraleggiante della società post-industriale (caratterizzata dal narcisismo di un “io minimo” votato alla sopravvivenza e dal restringimento dell’orizzonte di senso tipico della “società dei consumi”) e della galassia giovanile (“generazione della vita quotidiana”, esentata da quell’impatto con la durezza del vivere al quale non erano sfuggite le generazioni precedenti e caratterizzata perciò dalla “cultura della post-durezza” e dal mito del “fare esperienze senza direzione”); vi è, d’altro canto, la proposta di un’educazione attenta a rispecchiare questo “spirito del tempo”, che rischia però fortemente di ridursi al semplice affinamento della capacità dei soggetti di “abitare contesti parziali”, di rincorrere l’evoluzione tecnologica e culturale della fast moving society, di nuotare per non annegare nella piscina postmoderna nella quale ci si trova heideggerianamente “gettati”: alla proposta, in definitiva, di strategie adattive e “istruzioni per l’uso” con le quali si cerca di puntellare identità sempre più incerte e fragili. Si ha l’impressione di camminare su una corda tesa su di un baratro di cui a stento vi si scorge qualche lampo: due di essi rispondono ai nomi di Nietzsche e Heidegger.
E il passato?
Arrivati a questo punto, verrebbe da chiedersi che cosa ne è del passato. L’uomo moderno si è, per lo più, rappresentato come collocato in una sorta di ente atemporale, di punto zero della storia, tutto proiettato verso un futuro utopico da costruire in virtù delle proprie capacità autopoietiche. La fine della modernità e della sua spinta propulsiva verso il futuro lascia sopravvivere in modo dogmatico il discredito verso il passato e il veto a considerarlo fattore vivo di edificazione della realtà umana. La postmodernità si ritrova, così, consegnata ad una concezione puntiforme della temporalità, ridotta all’affermazione della sola dimensione presente, senza profondità e senza prospettiva. Ma è possibile fare (autentica) esperienza, è possibile vivere (profondamente) il presente, saper dare un giudizio che colga la pienezza dell’attimo quotidiano in cui il soggetto è collocato, senza memoria? È veramente possibile saggezza senza confronto con il passato? La risposta, se si considera il significato profondo della memoria come funzione psicologica fondamentale per la vita del soggetto, come fattore di esperienza e di identità personale e sociale, come elemento costitutivo del processo educativo, non può che essere negativa: “la memoria è sempre un processo di selezione e reinterpretazione del passato, all’interno di quadri socialmente definiti e sulla base di bisogni presenti. La memoria individuale si pone quindi all’intersezione di più flussi di memoria collettiva, costituita da un insieme dinamico di rappresentazioni e da insiemi di pratiche, in cui si sedimentano i significati che una generazione attribuisce ai fatti di cui è protagonista e li tramanda alle generazioni successive. Per questa caratteristica di condivisione con altri dei quadri sociali con cui singoli e gruppi danno senso al ricordo e di continua ricostruzione del passato in un «presente che dura», la memoria è strettamente legata all’identità” (Plebani, 2003, 171-172). La memoria è ciò che permette quella consegna intergenerazionale sulla quale si fondano l’educazione e la possibilità per l’uomo di vivere un’esperienza autenticamente “storica”. Con profondità di pensiero lo coglie H. Arendt, commentando una enigmatica frase dello scrittore francese René Char «Notre héritage n’est précedé d’aucun testament» che, però, ben descrive una cifra della condizione contemporanea: «Elencando quel che sarà legittima proprietà dell’erede, il testamento lega beni passati ad un momento futuro. Senza testamento, o fuor di metafora, senza la tradizione (che opera una scelta e assegna un nome, tramanda e conserva, indica dove siano i tesori e quale ne sia il valore), il tempo manca di una continuità tramandata con un esplicito atto di volontà; e quindi, in termini umani, non c’è più né passato né futuro, ma soltanto la sempiterna evoluzione del mondo e il ciclo biologico delle creature viventi» (Arendt 1970, 9). La consegna intergenerazionale introduce, dunque, una discontinuità rispetto alla natura e al continuum come fluire ininterrotto, inaugura la dimensione del “tempo umano” e della storia, la trasmissione-ricomprensione del passato che consente di illuminare il presente e di prospettare il futuro: “in tal modo il passato non è ciò che tira all’indietro ma ciò che spinge in avanti. […] Esso è il lascito che rende possibile la storia, il luogo in cui il presente è provocato verso il suo futuro, il suo compimento” (Borghesi, 2002, 11). Si comprende, allora, il valore profondo del passato quale principio metodologico indispensabile per il darsi dell’educazione (in un senso, dunque, previo rispetto alla specificazione del suo contenuto). Esso è la grande ipotesi di lavoro indispensabile all’uomo per lanciarsi nel paragone con la realtà, patrimonio ereditato nel quale confluisce in maniera eminente l’esperienza di chi ci ha preceduto, che permette agli ultimi arrivati d’essere “nani sulle spalle di giganti”, ossia di vedere più lontano di essi.[5] La tradizione fornisce il materiale attraverso il quale può essere alimentato lo sviluppo e l’arricchimento della persona dal punto di vista concettuale ed immaginativo, in mancanza del quale essa si presenta, viceversa, impedita nell’espressione e nella consapevolezza di sé: l’incontro con i momenti apicali della tradizione letteraria, filosofica, artistica, scientifica, con i “classici” – concetto estremamente problematico per l’educazione post-moderna – rappresenta quell’incontro con l’anteriorità che permette di risvegliare l’eterno nell’uomo. La tradizione come fattore di educazione si differenzia in maniera radicale da un tradizionalismo ripetitivo, paralizzante e sclerotizzato, ispirato esclusivamente a preoccupazioni di riproduzione sociale o di condizionamento ideologico. In altri termini tradizione non equivale a reazione. Si apre qui il discorso sulle dimensioni, le dinamiche e le attenzioni di un’educazione della memoria per il nostro tempo, che ci occuperà nell’ultima parte di questo scritto: perché la memoria diventi fattore di educazione non è, infatti, sufficiente proporre il passato, ma occorre ritrovare con esso un contatto vivo che ne permetta una verifica personale.
Occorre, cioè, che tale comunicazione risulti adeguata, ossia pedagogicamente avveduta e opportunamente contestualizzata.
Memoria e futuro
Ci pare si possa, anzitutto, partire sottolineando il valore dell’esperienza presente. Non certamente un presente senza radicamento nel passato e privo di respiro futuro, né un’esperienza intesa come cieco provare e come successione di sensazioni: il presente, invece, viene inteso come momento dell’incontro con il concreto esistente, e l’esperienza come giudizio consapevole su ciò che si vive, alla ricerca di una adesione alla ricchezza della realtà ed alla positività dell’essere contro ogni tendenza idealistico-virtualizzante e pessimistico-derealizzante. L’accentuazione della dimensione del presente può, in questo senso, essere vista come una ricchezza portata in dote dall’epoca contemporanea, soprattutto a livello giovanile: le società tradizionali e quelle moderne non hanno evitato il pericolo di svalorizzare il presente, le une considerandolo semplice ripetizione del passato, le seconde continuando a sfuggirlo nell’attesa frenetica di un futuro irraggiungibile. La reazione “presentista” richiama l’attenzione sulle possibilità positive che si aprono in ogni attimo presente, senza il quale non si dà realizzazione del passato e preparazione dell’avvenire. Si affaccia la consapevolezza che il presente è l’unico tempo che si presta adeguatamente alla nostra azione, in cui si può giocare la libertà, conseguenza di scelte precedenti e radice da cui può nascere il futuro. Di fronte a istituzioni sociali eccessivamente preoccupate di trasmettere e conservare le tracce del passato oppure di progettare e tracciare linee di futuro, il «presentismo giovanile» può essere colto come un invito a vivere profondamente l’attimo presente”. (Plebani, 2003, 170-171). Favorire l’impatto attento con la realtà presente e la tensione a farne esperienza, sostenendo in chi si sta educando la fiducia nella possibilità di stabilire con l’essere un rapporto conoscitivo ed affettivo, comporta una sollecitazione della domanda di significato dell’io ed una presa di coscienza del suo carattere costitutivo e razionale, contro ogni tendenza irrazionalistico-vitalistica: il rifiuto postmoderno delle grandi narrazioni utopiche e delle identità collettive, che in esse giocavano il ruolo del protagonista, appare una salutare contestazione della soppressione del valore del singolo uomo che, se non abbandonata alle derive dell’individualismo narcisista, appare di decisiva importanza, soprattutto per le generazioni a venire. I giovani, in particolare, vanno aiutati a scoprire l’ampiezza delle loro esigenze conoscitive e morali, alla luce delle quali inizia ad assumere interesse il tempo come trama di eventi significativi: l’educazione della memoria coincide con un’educazione dell’io e del suo “pregio”, una provocazione a uscire dal nascondiglio angusto dell’hic et nunc per cercare nei sentieri della storia risposte all’altezza della statura delle proprie domande e dei propri desideri. Il tema dell’educazione della memoria presenta, nel nostro tempo, un’ulteriore valenza, che può essere letta come necessità di liberazione dalla smemoratezza e dalla chiusura della memoria. Sullo sfondo della cosiddetta globalizzazione, che costituisce lo scenario planetario degli ultimi decenni, emergono infatti dinamiche identitarie che propongono due movimenti opposti ma coesistenti: “da un lato siamo coinvolti in processi che potremmo definire «tensioni verso l’uniformizzazione degli stili di vita e delle aspirazioni identitarie»; […] e così, da un paio di decenni le avanguardie culturali predicano la fine delle appartenenze stabili e l’affermarsi di modelli esistenziali basati sul passing sul tentativo di mutare razza e status. […] Dall’altro lato, tuttavia, un numero sempre crescente di individui, gruppi, nazioni rivendica l’irriducibilità della propria identità ed il proprio diritto a viverla pienamente, ovvero separatamente” (Callari Galli, 2000, 12). La cultura dell’educazione (ed in particolare la pedagogia interculturale[6], per la sua specifica attenzione alle problematiche della convivenza nella società multietnica e globalizzata) è chiamata a farsi carico di questa complessità, giacché per l’inevitabile processo di incontro e relazione interculturale che interesserà l’umanità nei prossimi decenni non appare attrezzato né chi si presenta all’appuntamento privo di memoria e di radici, senza volto e senza storia, né chi vi arriva esibendo un particolarismo identitario aggressivo, ponendo un’enfasi sulle “radici” e sulla “tradizione” di tipo fondamentalistico, che nasconde a volte l’invenzione di una “memoria artificiale”. Occorre lavorare in ambito educativo per costruire identità mature, capaci di trovare nella propria memoria le ragioni dell’incontro con l’alterità: l’autentica memoria non è un deposito, che risucchia il presente nel passato, ma una potenza, che apre dinamicamente il presente al futuro. L’educazione interculturale deve mirare a tenere insieme le istanze egualitarie da un lato e le legittime aspirazioni individuali dall’altro favorendo una triplice memoria, disposta secondo cerchi concentrici che si co-appartengono e non si escludono[7]: individuale (come sentimento profondo della somiglianza-appartenenza a sé stessi); culturale (come senso della somiglianza-appartenenza alla propria comunità di riferimento); universale (come consapevolezza della somiglianza-appartenenza all’umanità). Prima di avviarci a concludere, occorre riflettere su di un’ultima dimensione, forse la più complessa per l’educazione, ovvero l’apertura della memoria alla speranza. Essa emerge in tutta la sua valenza, per opposizione, quando ci si confronta con il difficile problema di conservare la memoria del dolore della storia. Tra i tanti riferimenti ai quali si potrebbe attingere, ne scegliamo uno che si collega ad una tragedia dimenticata eppure indicibile, il genocidio del popolo armeno. L’intellettuale francese di origine armena G. Chaliand tenta di ricostruire in Memoria della mia memoria questa pagina oscura e non divulgata della storia del XX secolo: “La memoria della mia memoria non è ciò che ho vissuto ma quanto ho ereditato. L’eco di un passato. È la parte sommersa della mia storia. Il tratto notturno a monte della mia saga. Il grumo di sangue che avevo in pugno il giorno della mia nascita e di cui, da bambino, mi è stata tramandata la tragedia. E che ho voluto dimenticare” (Chaliand, 2003, 7). Per lungo tempo l’oblio ha costituito per Chaliand l’unica cura del grande male, ma ad un certo punto ad esso è subentrato il bisogno di ritrovare le parole taciute, nella consapevolezza che “ciò che non è stato registrato non esiste”. Il dovere della memoria, inteso come tentativo di sottrarre il male all’oblio, non elimina il problema di qualcosa che possa sanare la ferita, impedire la logica della vendetta e del risentimento e permettere quella dimensione che Ricoeur definisce “il perdono difficile” (Ricoeur 2003). Perciò, come afferma P. Jedlowski, la memoria non è tanto la “consacrazione di una continuità”, ma rimanda al “compito dell’elaborazione di ciò che il passato ha lasciato aperto, di ciò che attende di essere rimarginato. Il passato lascia ferite che chiedono di essere curate. Ma non solo: nella memoria non stanno soltanto le tracce di ferite, ma anche le promesse di felicità non adempiute. In questo senso, la memoria ha una potente carica utopica. E piegarsi all’ascolto del passato non è così solo piegarsi sulle volute del proprio destino, ma anche trarne gli auspici per ciò che va adempiuto nel futuro” (Jedlowski, 1991, 135). La memoria allora viene a configurarsi come una lotta contro la morte: giacché, se la morte è l’ultima parola, allora il passato viene abbandonato a sé stesso e diventa destino. Si potrebbe dire che la grande letteratura e l’arte sorgono proprio come protesta contro la morte e nostalgia di redenzione. Giacomo Leopardi nel riflettere sul pensiero della finitudine, a margine delle Operette morali scrive: “di una cosa terminata, cioè al di cui non v’è più nulla; di una cosa terminata per sempre e che non tornerà mai più”[8].
[1]Gramsci, Antonio. “Passato e presente”, §34, 311. In Quaderni del carcere. Torino: Einaudi, 2014.
[2]Nietzsche, Friedrich. La volontà di potenza, 1. Milano: Bompiani, 1992.
[3]Lyotard, Jean-François. La condizione postmoderna, 5-8. Milano: Feltrinelli, 2004.
[4]Dalle Fratte, Gino. Postmodernità e problematiche pedagogiche. Vol. 1: Modernità e postmodernità tra discontinuità, crisi e ipotesi di superamento, 443-467. Roma: Armando Editore, 2003.; Tempesta, Marcello. Motivare alla conoscenza. Teacher education. Brescia: La Scuola Editrice, 2018.
[5]La metafora divenuta celebre nella tradizione letteraria è impiegata per la prima volta da Giovanni di Salisbury, il quale nel suo Metalogicon ne attribuisce l’espressione a Bernardo di Chartres. Si veda il Dizionario di filosofia Treccani alla voce “nani sulle spalle dei giganti”.
[6]Santerini, Milena 2017; Portera, Agostino 2013.
[7]Anche se leggermente differente, mi pare di scorgere una certa affinità tra questo concetto e quello dellecerchie socialiteorizzato per la prima volta dal sociologo Georg Simmel. Quest’ultimo sostiene che ogni individuo fa parte di più cerchiesociali, le quali si sovrappongono tra di loro e sono addirittura queste a fondare le società; Per approfondire si veda Simmel, Georg. Filosofia del denaro. Torino: UTET, 1984.
[8]Leopardi, Giacomo. “Zibaldone”. In Leopardi, Giacomo, Binni Walter, cur. e Ghidetti Enrico, cur. Tutte le opere, vol. II. Firenze: Sansoni, 1969.
Bibliografia
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secondaria]
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Jedlowski, Paolo e Franco Crespi, cur. “Sull’etica, la critica e la memoria”. In Etica e scienze sociali. Torino: Rosemberg & Seller, 1991.
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