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Domenico Bilotti, Università Magna Graecia – Catanzaro
E-mail: domenico_bilotti@unicz.it
doi: 10.14672/vds20231ip1
(https://doi.org/10.14672/vds20231ip1)
Abstract
L’importanza della memoria storica si è concretizzata in due diverse espressioni politico-giuridiche: la creazione o il rafforzamento di un sentire condiviso sui principi fondamentali e l’edificazione di un sapere collettivo di critica all’esistente. Nella legislazione pubblicistica il largo prevalere del primo significato ha determinato un suo utilizzo convenzionale: la moltiplicazione di momenti celebrativi formali incapaci di innalzare il livello di partecipazione. Ciò ha perdipiù impoverito la trasmissione della cultura sulle discriminazioni volta per volta subite da minoranze etniche, sociali, politiche e religiose. Questa memoria essenzialmente annalistica ha inoltre generato un senso di ripulsa rispetto ad essa che ha esasperato i momenti di frammentazione e ha messo in discussione persino il consenso diffuso sulla garanzia delle libertà civili.
Keywords: memoria, diritti politici, genocidio, mass media, discriminazione
The importance of historical memory has materialized in two different politico-legal expressions: the creation or strengthening of a shared feeling about fundamental principles and the improvement of a collective knowledge of critique of the existing. In public law, the wide prevalence of the first meaning has resulted in its conventional use: the multiplication of formal celebratory moments incapable of raising the level of participation. Moreover, this has impoverished the transmission of culture about the discrimination suffered from time to time by ethnic, social, political, and religious minorities. This essentially annalistic memory has also generated a sense of revulsion that has exacerbated moments of fragmentation and challenged even the widespread consensus on guaranteeing civil liberties.
Keywords: memory, political rights, genocide, mass media, discrimination
L’ambivalenza della memoria: prospettive prescrittive e potenzialità descrittive
La nozione di memoria introiettata nel diritto sembra rimandare esclusivamente alla memoria intesa in quanto fatto culturale: conseguenza di decisioni apicali e di usi collettivi. In realtà, la memoria rimanda biologicamente a un’ancora più marcata funzione di sopravvivenza: implica l’adattamento agli ostacoli subiti, consente un’elaborazione critica dei fattori esterni, mantiene la capacità reattiva rispetto agli eventi traumatici. I due significati, quello normativo-culturale e quello scientifico-biologico, non possono più pensarsi, se mai fosse stato concretamente possibile, quali distinti sempre e sempre distinguibili: sono piuttosto destinati a comunicare, al punto che la loro interazione dovrebbe essere ritenuta l’abbrivio per l’effettività di entrambi. La cultura giuridica si fonda sulla pretesa di trasmettere un senso di giustizia preferibile a una condizione di ingiustizia[1], per quanto tale operazione logica abbia spesso assunto carattere fittizio o strumentale. E, del resto, l’evoluzione di una specie implica che quella specie sappia attivare al proprio interno dei meccanismi di cooperazione, resistenti alle dinamiche offensive che si verificano nei confini del gruppo o al suo esterno.
Come si vedrà nel seguito della trattazione, il linguaggio giuridico è uno dei territori preferenziali per potere saggiare il necessario processo di inter-afferenza tra i differenti significati assunti dal lemma “memoria”. In una prospettiva organicistica dell’ordinamento, quale quella, ad esempio, esposta nel Leviatano di Thomas Hobbes[2], il teorico britannico che impose il moderno discorso sulla sovranità, l’attività cognitiva della memoria è indiscutibilmente legata a una logica di sopravvivenza (e di effettività delle norme). Che i consociati si obblighino a rispettare il ricordo dei medesimi miti fondativi ha un’efficacia tipicamente conservativa, idonea a rinnovare ogni volta il vincolo associativo. Proprio per tale via, però, il diritto costantemente coimplica anche il senso culturale della memoria: una significazione continuativa che fornisce le condizioni di esistenza del discorso comunitario. In altre parole, una memoria condivisa assicura l’andamento istituzionale e al tempo stesso certifica gli usi e i pensieri di una data esperienza politica.
Non è un caso che le critiche alle facoltà mnemoniche, nella storia normativa dell’Occidente, siano limitate e risolte in pochissimi autori che, come presto si capirà, della memoria adottano, per poterla criticare compiutamente, nozioni oltremodo particolaristiche. Per quanto il tema possa apparire infinitamente più riduttivo, le polemiche a base della storia europea del pensiero non riguardano la memoria in quanto tale – sulla cui assiologia nessuno ha ragione di dubitare – ma le modalità concrete della sua pratica e della sua realizzazione. Quando Socrate si misura sul tema della scrittura[3], il rifiuto, che pure emerge nel resoconto platonico e, in modo diverso, aristotelico, non sta rigettando in toto la compresenza di un sapere scritto, che corrobori l’affidamento collettivo in un verbo. Si sta semmai contrastando l’ipotesi che affidarsi alla sola scrittura renda la memoria meno allenata e più distante dai processi cognitivi – i processi cognitivi del cittadino sono immediatamente processi politici. Perché dovrei interiorizzare così profondamente, da renderlo fruibile all’oralità, un comandamento, un assioma, un principio, se c’è la possibilità di averlo sempre scritto e a portata di mano? La critica della scrittura, nell’ottica socratica, è in fondo una critica all’opportunismo della lettura: il nozionismo eventuale del riconoscere lo scritto contro la feconda opportunità di avere sempre alla mente il senso di ciò che altrimenti sarebbe riletto solo nella contingenza. Esula dai nostri scopi investigare il rapporto tra la memoria, da un lato, e la scrittura e la lettura, dagli altri. Giova solo qui dire che questo profilo ha avuto un peso innegabile negli ordinamenti confessionali – la Chiesa che dal IX secolo praticava predicazioni in volgare ha impiegato battaglie e battaglie per autorizzare la riproduzione scritta e di massa della Bibbia[4]. E, in fondo, ciò si è preservato nei moderni diritti secolari. Basti pensare al diritto processuale civile e penale: prestare un giuramento senza conoscere la lingua in cui è scritto, ma solo leggendone i fonemi convenzionalmente riprodotti, impegna allo stesso modo che essere padroni, partecipi e consapevoli dei contenuti prescrittivi di quel ragionamento[5]?
Per strano possa apparire, tuttavia, la contesa sulla memoria nella gnoseologia occidentale ha uno stipite comune a tutti questi argomenti: la memoria istituzionalizzata, percorsa secondo un canone minimo universalmente fruibile, può essere considerata la ripetizione esponenziale della conoscenza? I critici che analizzeremo rispondono negativamente a tale quesito ed è l’indissolubile ragione della loro specificità. Per altro verso, le fonti avversative che brevemente tratteremo sono fondamentali per cogliere parallelamente il lato normativo della memoria, nella giuridicità contemporanea: la loro critica demolitoria può efficacemente fotografare l’abuso politico della memoria. Le volte in cui, cioè a dire, la memoria non è il risultato cognitivo della psicologia collettiva dal basso, ma il tentativo di ordinare dal vertice criteri gerarchici di mantenimento dello status quo ante.
Per una critica della memoria: verso l’utilizzo giuridico del ricordo come riconoscimento
Un primo, motivato, argomento contro l’uso strumentale della memoria (che prescinde dalla non autenticità della memoria medesima) viene dall’umanista italiano Leonardo da Vinci. Nella prospettiva di uno dei più grandi intellettuali del Quattrocento europeo, chi, in una contesa dialettica, ricorre a citazioni di autorità – a suffragio delle proprie tesi e senza aver il coraggio di scandagliarle da sé – sta prevalendo non per il suo ingegno, ma grazie all’autorevolezza delle fonti allegate[6]. Questa asserzione dimostra in primo luogo e non paradossalmente che Leonardo, innovatore profondo e poliedrico, ha non sorprendentemente una solida base culturale, nei pensatori e negli artisti che lo hanno preceduto. Sa bene che in ogni tempo, come confermano in successione il diritto romano e il diritto comune medievale, quando la dottrina si stratifica e le fonti si affastellano, è necessario ricorrere a un criterio selettivo, che isoli le opinioni realmente rilevanti. Valentiniano II, addirittura nel 426, aveva colto questo passaggio, ritenendo che le parti in una causa potessero richiamare a sostegno delle proprie tesi un numero molto limitato, e non discrezionale, di pareri e di giuristi classici[7]. Oltre un millennio dopo, al tempo di Leonardo, la questione non poteva dirsi significativamente mutata, né nel diritto né nella società tutta. Per singolare eterogenesi dei fini, ad aggravare la questione era senz’altro stato anche l’impegno filologico della cultura umanistica, che aveva portato alla riscoperta di autori e testi altrimenti da tempo obliati e poco circolanti. La citazione erudita della fonte autorevole diventava così frequente e performante da sostituire completamente, non per integrarla con giudizio e profondità, la controversia sul caso concreto. Leonardo non misconosce affatto l’importanza della cultura e delle istituzioni, ma rivolgersi soltanto al riconoscimento del parere altrui per avallare una tesi propria gli sembra un modo surrettizio per avvalorare un arbitrio senza contenuti. Le opere che riecheggiano quanto sto oggi dicendo diventano completamente assorbenti rispetto a un giudizio sulla fondatezza del mio dire.
Con qualche approssimazione, può cogliersi in nuce in Leonardo l’anticipazione dell’epistemologia della modernità, almeno da Cartesio in poi[8]: esiste la possibilità di un accertamento veritativo che prescinde dalla tradizione. La prova diventa più importante dell’analogia: la ragione non ammette il regresso all’infinito, all’apparenza opinabile e aperto e in realtà perimetrato dai confini scelti nelle consuetudini del potere. Lungi dall’esaurirsi a questione metodologica – pur fondamentale – o dal proporre una visione metafisica dell’accertamento processuale – per altro, ben più impegnativa – il tema implica una costante dialettica intergenerazionale dei rapporti giuridici tra l’autorità e la libertà[9].
Nei momenti in cui la cultura si fa portavoce di istanze prevaricanti, che poggiano la propria legittimazione esclusivamente sulla forza che esercitano e sulle consuetudini che implicano, il metodo sperimentale, contingente, radicale, empiristico, è percepito come vettore di liberazione. Contro il corredo arbitrario delle citazioni risalenti, del dogmatismo che si sostituisce alla razionalità, l’inventiva applicata allo statuto del caso concreto è un dispositivo schiettamente antiautoritario.
Quando tuttavia la pretesa ordinatrice del metodo sperimentale esclude coattivamente ogni elemento umano esterno alla sua dimostrazione, l’elemento della singolarità irripetibile, collocata su un piano metafisico e non solo fisico, torna prepotentemente alla ribalta nelle sue potenzialità di contestazione al sistema. Alla fine del XIX secolo, i due campioni della critica al convenzionalismo razionalista della memoria sono Oscar Wilde e Friedrich Nietzsche. La fase storica legittima la loro postura antigerarchica: dal secolo dei Lumi in poi, le presunte vittorie della ragione sul sentimento sono state schiaccianti, fino a creare appunto una sorta di illusoria antinomia costitutiva tra l’una e l’altro. Dopo l’Illuminismo, il Romanticismo si è comunque messo al servizio della causa degli Stati nazionali e il ritorno a tematiche di spiritualità, spesso apertamente confessionali, ha di molto attutito le sue potenzialità eversive[10]. Il Naturalismo, poi, con la montante avanzata delle dottrine positivistiche anche nel diritto[11], da voce critica è presto stato interpretato come atto fondativo dello Stato liberale ottocentesco. Un modello di organizzazione politica del genere ebbe il limite storico di non fare mai autocritica alla propria calante legittimazione sociale: manteneva un’accezione proprietaria delle libertà, mentre le nuove soggettività (quelle di massa quanto quelle marginali) ponevano istanze assolutamente inedite[12]. Nel primo trentennio del XX secolo la crisi dello Stato liberale e la nascita di quello autoritario si avvicendano quasi senza soluzione di continuità; alla fine del XIX, l’individualismo antiborghese cerca di tornare alla vicenda singola per ribaltarne la traduzione politica nella imperante codificazione privatistica[13].
Wilde è in polemica con la società del suo tempo, coi ritmi decaduti di una nobiltà non mostratasi all’altezza del dominio di sé (oltre che del mondo) e con quelli falsamente tumultuosi di una borghesia mai così possidente, ma non per questo “dirigente”. Eppure, la sua protesta non è da posatore: i temi che propone (sull’omosessualità, sulle dipendenze, sulla dissolutezza) non sono troppo diversi da quelli che D’Annunzio proverà a scolpire, in senso radicalmente concessivo[14], nella costituzione di Fiume. E poco artefatto sembra anche l’approccio distruttivo di Nietzsche alle gerarchie accademiche: in una Germania che si è fatta Stato, da decine di autonomie locali e dalla disfatta consecutiva di due imperi (quello germanico e quello prussiano)[15], il conformismo è penetrato nell’amministrazione e nella società senza nemmeno disturbarsi a passare per il tramite della deliberazione di legge[16].
La posizione di Wilde coinvolge prevalentemente il piano estetico. Quella di Nietzsche il lato etico. Per Wilde i memoriali sono perlopiù scritti da persone che hanno smarrito la memoria o da persone che non hanno nulla di meritevole da tramandare[17]. La somiglianza (e il significato) delle due categorie è lampante. Si dedica all’annalistica chi non ha null’altro da fare e utilizza lo strumento memoriale per magnificare le cose prescindibili che ha effettivamente fatto. E c’è dell’altro: scrivono memoriali anche quelli che perdono la memoria, cioè che tacciono sui particolari scabrosi, sugli errori compiuti. La memoria ufficiale diventa esteticamente il luogo dell’indicibile: nell’un caso ammettere che non ci sia nulla di davvero bisognevole da ricordare; nell’altro affermare che si sta occultando cosa si sia davvero stati. Estetica ed etica, perciò, sono in Wilde settori del pensiero che non si lasciano chiudere in steccati precisi: la noia dei memoriali ufficiali ha in effetti un problema assiologico alle spalle. Cosa può essere davvero raccontato? Perché si racconta, in modo enfatico, qualcosa che non avrebbe invero alcunché di così straordinario da tramandare?
È altrettanto efficace la critica di Nietzsche alla memoria: lì l’argomento parte dichiaratamente nella dimensione etica individuale, proiettando – il moto esattamente speculare a quello di Wilde – le sue conseguenze nel pieno della sfera estetica. Ad avviso del tormentato filosofo ottocentesco, infatti, la cattiva memoria (la memoria incompiuta, travisata, fallace, imperfetta) ha dalla sua un vantaggio: quando si tengono le medesime condotte già osservate, non conservandone una rappresentazione mentale completa, sembra in realtà che esse continuino a contenere qualcosa di fondamentalmente nuovo[18]. Si coglie immediatamente la carica dispregiativa, o almeno di dileggio, dell’argomento. Quando si ricorda male, il presente tende ad eternarsi nella percezione erronea: iniziare una qualsivoglia azione ripetendola, salvo poi verificare che questa non è esattamente sovrapponibile a quella nota, diventando perciò essa stessa (quasi) inedita.
Emerge in filigrana un sorprendente stipite comune col pensiero di Hegel e, in particolare, con la filosofia hegeliana della storia, almeno nei suoi tratti più evidentemente divulgativi[19]. Se un evento drammatico si ripete per due volte, la tragedia si è consumata nel primo caso; subito dopo, è farsa. Ed essa consiste nella ridicola mancanza di senno e coscienza di chi determina due volte lo stesso accaduto – non riconoscendo la duplicazione, ma sapendo che il medesimo fatto aveva causato prima una situazione disastrosa. Non ci sono più personaggi aulici e finanche coraggiosi che, sbagliando, commettono tuttavia il loro errore per la prima volta, senza alcuna categoria elaborativa cui poggiarsi, per saggiare previamente la consistenza dello sbaglio e la potenzialità lesiva degli effetti. Quando la storia si ripete, gli artefici del misfatto hanno ormai gli strumenti per coglierne la pericolosità oggettiva (oltre che la loro dabbenaggine soggettiva): non attivandosi per correggere il tiro, sono destinati ad apparire stolidi come personaggi da farsa.
La memoria, tra diritto e religioni: appunti di viaggio
Conviene ripercorrere l’itinerario di critiche alla memoria, per verificare in che termini la memoria oggi codificata nel diritto positivo non riesca ad affrancarsene. Per Leonardo, detenere il predominio sull’interpretazione dei fatti meritevoli di essere ricordati significa selezionare gli argomenti non con l’ingegno, ma con la pretesa di autorità. Per Wilde, la memoria rischia di schiacciarsi nell’accettazione convenzionale di informazioni parziarie quali verità indiscutibili e ormai statiche. Per Nietzsche, l’uso scorretto della memoria sovraespone all’errore, perché esclude la possibilità di apprendere dagli errori già compiuti.
Che posizioni hanno assunto rispetto a ciò il diritto e la morale? Ciascuna delle tre ipotesi critiche poc’anzi prospettate parte da un dato di fatto indiscutibile: la memoria per meritare la rilevanza trascendentale di mito collettivo di fondazione deve possedere un carattere specifico, irripetibile. Più si pensa di aggiungere al cono dell’attenzione comune argomenti collaterali, per il tramite di sanzioni solenni, più la memoria si svuota: diventa troppe cose per cui c’è un obbligo formale di ricordare, privo tuttavia di qualsivoglia imperativo categorico di natura sostanzialmente e intimamente obbligante. Si sono moltiplicate le giornate dedicate a qualcosa: a volte per argomenti importantissimi ed emblematici, ma troppo settoriali per potere realizzare una liturgia universale; a volte per temi privi di qualunque contenuto operativo trasmissibile, ma posti all’attenzione in quanto frammento di una deontologia formalistica della cittadinanza e della partecipazione. Si pretende di far ricordare questioni troppo ristrette o prive di interesse: si perdono le tematiche ben più larghe, comprensibili e condivisibili; vanno fuori fuoco le urgenze più brucianti o i loro più simili antecedenti storici.
Analizzeremo secondo il loro svolgimento normativo cinque particolari giornate civili devolute all’istituzionalizzazione di un dovere di ricordare: fuori dalla loro veste laica e universalistica, mettono in mostra un evidente particolarismo politico. Facciamo riferimento alla legge 31 dicembre 1996, n. 671, relativa alla Giornata nazionale della bandiera; alla legge 20 luglio 2000, n. 211, che istituisce il Giorno della Memoria in ricordo del genocidio ebraico e delle deportazioni naziste; alla legge 30 marzo 2004, n. 92, istitutiva del Giorno del ricordo, a suffragio delle vittime fiumane, istriane e dalmate;alla legge 23 novembre 2012, n. 222, che prevede la Giornata dell’unità nazionale, della Costituzione, dell’inno e della bandiera; alla legge 18 marzo 2021, n. 35, in memoria delle persone decedute a seguito della pandemia da Covid-19. Come vedremo, dietro il recepimento pubblico di ciascuno di tali temi, è in agguato il riconoscimento politico-legislativo di un abuso elettoralistico della memoria: questa memoria, lungi dall’essere fattore di coesione nella coscienza sociale (sempre si riesca a definirla), si pone prepotentemente a base del suo smembramento definitivo.
In prima approssimazione gli ordinamenti positivi delle religioni rivelate attribuiscono a certi eventi (sacramenti) una capacità ordinante e, al tempo stesso, un’attitudine comunitaria tale da rinnovare, nel loro rituale ripetersi, la carica originaria[20]. Lo sfondo semantico non è più solo storicizzato, anzi, proiettandosi a un codice eterno, l’evento che narra diventa immemorabile.
Le giornate laiche, espressive di forme civili di aggregazione intorno a valori, non possono ricorrere alla consacrazione. Se però non si riferiscono a qualcosa di realmente percepito, all’interno della comunità politica, ottengono addirittura l’effetto opposto: vengono istituite quando il valore di riferimento è ormai degradato a diatriba del conflitto culturale – spesso sostitutivo di qualunque giudizio empirico.
La Giornata nazionale della bandiera fu istituita al bicentenario della prima esposizione del tricolore, e sicuramente esprime un elemento caratterizzante della simbologia dello Stato, tanto da trovarsi testualmente disciplinata la composizione della bandiera medesima all’interno dei principi fondamentali della Carta costituzionale. Ciò non toglie che quella giornata, mai civilmente percepita come festa di massa, aveva il senso di risposta politica a un periodo storico in cui si era appena conclusa una legislatura, nella quale aveva fatto inedita comparsa in una maggioranza di governo una forza (all’epoca) apertamente secessionista[21]. Si prevedeva una celebrazione solo tenuemente alla percezione collettiva per contrastare un debordante sentire opposto alla legalità costituzionale, col risultato che l’avanzata di quei sentimenti rese ancora più distante dal vissuto concreto una giornata per il tricolore. E in fondo lo stesso tipo di ragionamento, in un assemblaggio formale ancor più gracile, si realizzò per quanto riguarda la Giornata dell’unità nazionale, della Costituzione, dell’inno e della bandiera. Si intese solennizzare i centocinquant’anni dall’unificazione italiana, proprio nel momento in cui la storiografia metteva in evidenza la natura coercitiva di giudizi solo elogiativi sull’estensione del regno sabaudo[22], aggiungendo al valore chiaramente precostituzionale dell’organizzazione regia la Costituzione in quanto carta fondamentale, l’inno nazionale e di nuovo la bandiera. Il lato parzialmente inesplorato di questa giornata civile, anch’essa a lungo e forse persino adesso estranea a un sentire di massa, la rende particolarmente aggredibile da chi voglia trovare miti sostitutivi alle altre ritualità laiche dell’idem sentire de re publica. Se non ci si riconoscerà più nella Festa del lavoro, nella ricorrenza della liberazione dopo il ventennio fascista o nella scelta referendaria della forma repubblicana contro la monarchia, esiste pronta all’uso una festa di incerto basamento storico e di complessivamente virginale interpretazione popolare. Manipolabilissima.
La creazione di memorie contrapposte, che non si arricchiscono vicendevolmente ma che, come atto fondativo, pretendono di escludersi, determina una competizione sulla storia delle libertà, per cui non esistono più riferimenti universali, ma simulacri di religiosità laica nei quali si passa da una presunzione generale di equivalenza al predominio degli uni sugli altri. È quanto è avvenuto in merito all’istituzione di un Giorno del ricordo per le vittime delle foibe: violenza truce, storicamente e nelle proporzioni ahinoi drammaticamente più limitata di altri gravi drammi della storia italiana. Il fatto che si sia espressamente argomentato, sin dai lavori preparatori, sulla necessità di pareggiare i conti, rispetto a feste nate nell’alveo di sensibilità socialdemocratiche e social-comuniste, ha reso il ricordo stesso operazione politica, degradando per converso a inservibile momento di divisione le celebrazioni dedicate a momenti di lutto già canonizzati. Come spiegare altrimenti il tentativo di dare coloritura politico-ideologica alla Giornata della Memoria, invece relativa a un genocidio etnico-razziale ed etnico-religioso e istituita a proprio tempo anche per reagire a un clima di crescente revisionismo e, almeno in parte, di rinnovato antisemitismo[23]?
Il pendolo della memoria è stato trasformato in strumento simbolico per riconoscere l’orientamento civile, visto che ai partiti riesce solo in parte di esercitare questa funzione e la società ha troppe spinte contrastanti per unirsi in celebrazioni formali contemporaneamente generali e intimamente vissute. Se universali, esse han perso contenuti di coinvolgimento democratico; se particolari, non realizzano più memoria indivisa nella comunità politica. Lo dimostra il dibattito concernente la giornata commemorativa per le vittime dell’epidemia da Covid-19 e, ancor più, il lascito di quell’esperienza sul fronte dell’ordinamento sanitario e del diritto alla cura, nel prisma del rapporto medico-paziente, oltre che di quello tra istituzioni e singoli[24]. Nei due complicati anni dei periodici picchi pandemici, l’esecutivo prima e l’assemblea legislativa poi deliberarono in modo sovente unanime, nonostante continue polemiche antecedenti ai voti. Divisioni urlate e unanimismo nascosto, quanto sostanziale, portarono a galla frammenti di società civile di irriducibili opinioni contrapposte sulla profilassi preventiva, sui ritrovati vaccinali, sull’ordine degli interventi politico-economici da adottare. Intitolando una giornata, essa diventa il parafulmine di un’unità socioculturale e democratico-ideale, che si è vista per pochissimi e non essenziali sprazzi. Vi trovano posto negazionisti e no-vax, come i cantori inesausti della forza salvifica di parimenti sbagliate limitazioni extra ordinem. La memoria legiferata per acclamazione e incapacità di scelta dei rappresentanti non partecipa tuttavia in alcun modo i diritti dei rappresentati: resta, piuttosto, un irriconoscibile oggetto di culto. Intuiamo tutti a che possa servire, ma nessuno di noi pare così intenzionato a credergli.
[1]Tale aspetto è trattato in modo perfettamente speculare in due pubblicazioni recenti; vedasi Torre, Massimo La. Il diritto contro se stesso: Saggio sul positivismo giuridico e la sua crisi. Firenze: Olschki, 2020; e, dello stesso Autore, Pretesa di progresso. Sull’evoluzione nel diritto. Napoli: Edizioni Scientifiche Italiane, 2021.
[2]L’opera, risalente al 1651, è qui consultata nella seguente edizione: Hobbes, Thomas. Leviatano. Milano: Rizzoli, 2011.
[3]Vedasi la documentata e ancora profonda analisi di Szlezák, Thomas Alexander, e Giovanni Reale. Platone e La scrittura della filosofia. Analisi di struttura dei dialoghi della giovinezza e della maturità alla luce di un nuovo paradigma ermeneutico, 73-76. Milano: Vita e pensiero, 1988.
[4]Le implicazioni giuridico-sistematiche dell’approccio al volgare trovavano ampio corredo critico in Ruggieri, Ruggero M. Romanità e cristianesimo nell’Europa medievale. Aspetti e problemi, 3-24. Roma: Studium, 1975. Sulla carica prorompente della circolazione degli stampati Mezzadri, Luigi e Paola Vismara. La Chiesa tra Rinascimento e Illuminismo, 65-66. Roma: Città Nuova, 2006.
[5]Sulla storia del giuramento nel diritto, tanto processuale quanto costituzionale, di matrice occidentale, Agamben, Giorgio. Il sacramento del linguaggio. Archeologia del giuramento. Roma-Bari: Laterza, 2008; concepito in risposta a Prodi, Paolo. Il sacramento del potere. Il giuramento politico nella storia costituzionale dell’Occidente. Bologna: il Mulino, 1992.
[6]La citazione dai Pensieri di Leonardo è qui desunta dal passo, per come commentato in Clavier, Paul ed Edmondo Coccia. Lessico dei valori morali per i cittadini del XXI secolo, 146-147. Roma: Armando Editore, 2008.
[7]Talamanca, Mario. Elementi di diritto privato romano, 26-27. Milano: Giuffrè, 2013.
[8]McCarthy, Michael H. The Crisis of Philosophy, 192-194. Albany: State University of New York Press, 1990.
[9]Ricca, Mario, “Con-sue-tudine/Cognitudine. L’appropriatezza (Suum) come criterio di pertinenza assiologico/semantica delle norme giuridiche”. In Teoria e Critica della Regolazione Sociale n. 2 (2021): 221-275.
[10]Possono leggersi Del Boca, Lorenzo. Risorgimento disonorato. Il lato oscuro dell’Unità d’Italia. Torino: UTET, 2011; e Villari, Lucio. Bella e perduta. L’Italia del Risorgimento. Roma-Bari: Laterza, 2012.
[11]Pur mantenendo un tratto di aderenza tipicamente giuspositivistica, Bobbio, Norberto. Giusnaturalismo e positivismo giuridico. Roma-Bari: Laterza, 2011.
[12]Sull’implementazione di queste contraddizioni, Grossi, Paolo. Introduzione al Novecento giuridico. Roma-Bari: Laterza, 2012.
[13]Un indirizzo critico presto uscito sconfitto nella legislazione. Emblematicamente, sul punto, Ghisalberti, Carlo. La codificazione del diritto in Italia (1865-1942). Bari: Laterza, 1982.
[14]Non stupisce che con particolare dedizione vi si applichi la curatela dello storico De Felice, Renzo. Si veda: De Ambris, Alceste e Gabriele D’Annunzio. La Carta del Carnaro. Bologna: il Mulino, 1974.
[15]Rossi, Ernesto. “Lettera”. In Rossi, Ernesto, Spinelli Altiero, e Piero Graglia, cur. “Empirico” e “Pantagruel”: Per un’Europa diversa: Carteggio 1943-1945. Milano: FrancoAngeli, 2012.
[16]Kohl, Norbert. Oscar Wilde. The Works of a Conformist Rebel, 298-300. Cambridge-New York-Port Chester-Melbourne-Sydney: Cambridge University Press, 1989.
[17]Il concetto è reiteratamente espresso, in modo quasi compiaciuto e insistito, passim, in Wilde, Oscar. Aforismi. Milano: Feltrinelli, 2015.
[18]Nietzsche, Friedrich. Umano troppo umano; Così parlò Zarathustra; Al di là del bene e del male; Crepuscolo degli Idoli; L’Anticristo; Ecce Homo, aforisma 580. Roma: Newton Compton, 2012.
[19]Pur concentrandosi più sulla teoria del diritto che sulla filosofia della storia, fornisce uno sguardo essenziale e chiaro Brooks, Thom. Hegel’s Political Philosophy. A Systematic Reading of the Philosophy of Right. Edinburgh: Edinburgh University Press, 2007.
[20]Su questi temi, di recente, Ferlito, Sergio. Tradizioni religiose e ordine sociale. Alle origini dell’immaginario giuridico. Roma: Carocci, 2022.
[21]Dogliani, Mario e Ilenia Massa Pinto. Elementi di diritto costituzionale, 146-148. Torino: Giappichelli, 2017.
[22]Si veda, con grande chiarezza, Passaglia, Paolo. Storia costituzionale, I, L’Unità ed il periodo monarchico-liberale, 14-15. Pisa: Mnemosyne, 2012.
[23]Sui prodromi del processo, utili a cogliere le affinità argomentative, non meno che le differenze effettuali, tra la propaganda del genocidio e l’attuale revisionismo di specifico contenuto antisemita, Luzzatto Voghera, Gadi. Antisemitismo, 44-45. Milano: Feltrinelli, 1994.
[24]Per tempo, sul tema, Bilotti, Domenico. “Resistere al contagio. Traduzioni interculturali della relazione di cura”. In Calumet – Intercultural Law & Humanities Review 10 (2020): 103-108.