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Ubaldo Fadini, Università di Firenze
E-mail: ubaldo.fadini@unifi.it
doi: 10.14672/vds20231ip5
(https://doi.org/10.14672/vds20231ip5)
Abstract
È a partire dalle riflessioni di Elias Canetti sul valore del ricordo come modalità positiva di conservazione di esperienze di vita, di pensiero, che il contributo affronta la questione di come nel nostro tempo/mondo storico prevalga una conservazione/sopravvivenza di carattere soltanto “strumentale”, negativa, che individua l’alterità soltanto come mezzo per il perseguimento dei propri scopi particolari. Rispetto a tale conservazione di carattere “selvaggio”, il ricordo in senso canettiano può essere colto come un atto di resistenza, in termini non lontani da alcune articolazioni della ricerca di Gilles Deleuze, in grado di sostenere pratiche di organizzazione del vivere anche funzionalmente rilevanti e soddisfacenti, così come sono descritte da Niklas Luhmann su un piano di ricerca propriamente sociologico.
Keywords: conservazione, potere, resistenza, memoria, dimenticanza
It is from Elias Canetti’s reflections on the value of remembrance as a positive mode of preservation of life experiences of thought that the contribution addresses the question of how, in our time/historical world, protection/survival of only an “instrumental” negative character prevails, one that identifies otherness only as a means for the pursuit of its particular ends. Concerning such preservation of “savage” nature, remembrance in the Canaanite sense can be grasped as an act of resistance, in terms not far from some articulations of Gilles Deleuze’s research, capable of sustaining even functionally relevant and satisfying practices of organizing living, as Niklas Luhmann describes them on a properly sociological research plane.
Keywords: preservation, power, resistance, memory, forgetfulness
Mi è capitato più volte di riflettere su alcuni temi-chiave della ricerca/scrittura complessiva di Elias Canetti: ad esempio la sua ripugnanza rispetto a tutti i tentativi, in primo luogo “filosofici”, di cattura della molteplicità del reale, rinchiusa in un “unico blocco”, che si pretende di pensare a partire da una griglia concettuale considerata imprescindibile e così presupposta in effetti per un pensare che non può che rivolgersi contro sé stesso e le molteplici ragioni dell’esistere.
Soprattutto mi ha sempre colpito l’insistenza dell’autore di Massa e potere sull’importanza della relazione tra l’essere umano e la realtà circostante, tra la “testa” (Kopf) e il “mondo” (Welt), nel momento in cui l’attenzione va rivolta ai centri di trasformazione, alle tensioni, alle metamorfosi, a tutto ciò che veicola l’aspirazione ad una qualche ulteriorità di vita, ad una sopravvivenza “positiva”. È la matassa dei ricordi, la sostanza della sua ricca impresa autobiografica, a restituire appunto uno dei perché di un impegno teso a portare a unità, sia pure sotto una veste provvisoria e revocabile, la cosiddetta “memoria sentimentale”, riferibile alla sfera della più stretta intimità, e quella “intellettuale”, sostenuta da uno sforzo di razionalizzazione delle esperienze appunto maggiormente “personali”. In Il libro contro la morte, è proprio il ricordo ad assicurare la tenuta di tale rapporto e ancora prima la sua realizzazione; esso permette cioè di conservare, se si vuole: salvare, il passato nel presente, di non perderlo, di farlo invece divenire nel suo accompagnarlo ad altro, che totalmente differente non è. Canetti è attento a svelare parzialmente il passato nel suo valore di coesistenza con il presente, di rivelazione della componente di virtualità pure di quest’ultimo, al di là così della sua determinazione in forme prefissate. Anche in questi termini si manifesta, come ha scritto Susan Sontag, la dominante dell’indagine canettiana, la protesta ininterrotta contro quel prevalere della morte che non può che deprimere le tendenze vitali al mutamento, alla metamorfosi. In un appunto di La provincia dell’uomo si può leggere come il ricordo sia “buono perché aumenta la misura del riconoscibile. Ma bisogna fare particolarmente attenzione che non escluda mai il terribile. Il ricordo può concepire il terribile diversamente da come esso apparve nel suo atroce presente, diversamente, ma in modo non meno crudele, non meno insopportabile, non meno assurdo, tagliente, amaro; e non deve concepirlo con soddisfazione perché è passato: nulla è mai passato. Il vero valore del ricordo sta in questo: che ci fa capire che nulla è mai passato”[1].
Per non finire mai, per non accettare fino in fondo la signoria della morte, per soddisfare il bisogno di avere sempre più vita, ricchezza inesauribile che rende non ineluttabile la conclusione definitiva, va garantita ad ogni costo l’apertura del vivente all’imprevedibile, all’improbabile. Certamente non si fa altro che concludere qualcosa, ma tale dinamica va appresa nella sua decisiva parzialità, in relazione a qualcosa di particolare e che non vale come tutto e per tutto. E l’espressione della parzialità, di un venire costitutivamente meno che non si risolve però nell’annientamento sistematico, è quella dello scrivere laddove sia in grado di mettere la “giusta” fine, in tal caso…, alle pretese arroganti e violente del possesso ultimo, del dominio assoluto. C’è in questa disposizione critica l’idea che lo scrittore (Canetti ha in mente Stendhal) si ponga come una figura – umile perché parziale – di verità, nel senso della volontà di riaffermare il primato del vivente metamorfico mediante il passaggio al suo interno della stessa pratica del (quasi) morire. Lo scrittore non vuole riconoscere il primato della fine: può sopravvivere ad essa collocandosi letteralmente fuori di sé, mettendo in atto una conservazione in vita non strumentale, non omicida. Non si deve inventare una fine, si legge ancora in La provincia dell’uomo: è estremamente pericoloso “inventarne una”.
C’è anche un’attenzione specifica, a mio modo di vedere, alla uniformazione dei ricordi sotto veste di effetti di ordini ricevuti, estranei essenzialmente alla “carne” degli esseri umani. Ecco che in tal modo essi si presentano come delle “spine”, come il depositarsi sulla nostra sensibilità e intelligenza di espressioni di violenza che valgono, appunto, come una “memoria” pronta ad attuare il potenziale di aggressività veicolato dai comandi ricevuti. Le “spine” stanno per fattori di (auto)mortificazione che provocano – a causa del loro instancabile riproporsi nel quotidiano – un bisogno di alleggerimento, la ricerca di un sollievo. In Massa e potere, Canetti indica due linee di disattivazione di tale dispositivo intimamente patologico; la prima è quella propria della logica di prevaricazione, cara a tutti i “potenti”, imposta nel nostro quadro d’epoca; vale a dire quella che spinge a trasmettere ulteriormente i comandi subiti, a scagliare in mille direzioni quelle “spine” che così non potranno far altro che piegare/piagare altri esseri umani. Tale dinamica è ciò che dà sostanza alla stessa idea di un “sopravvivere” negativo, quello strumentale, rivolto a fare dell’altro uno strumento il più possibile ben predisposto alla soddisfazione di un bisogno di “unicità” nella comprensione del reale come produzione continua di pericoli. C’è in effetti una “angoscia del comando” che colpisce coloro che si sono procurati una qualche autorità e che li lega ancora di più alla regola imprescindibile del dare incessantemente degli ordini, di conficcare dovunque delle “spine”, il che esprime concretamente il bisogno di liberarsene (da un sentire alla lunga intollerabile). L’analitica canettiana del potere ha il merito di mettere in rilevo, in scena, in modo non lontano da quella che svilupperà Michel Foucault nella prima metà degli anni Settanta, una follia che appare propria di un potere teso in primo luogo a impedire il manifestarsi del molteplice, del differente, di ciò che muta e che viene avvertito come vivo anche là dove si riscontrano soltanto delle fissità, non a caso intese così come dei subdoli mascheramenti. Scrive Canetti: “Chi si è posto molto rapidamente in una posizione di primo piano o è riuscito in qualche modo a procurarsi autorità suprema entro uno di quei sistemi, viene assillato a causa della sua posizione dall’angoscia del comando e deve cercare di liberarsene. La continua minaccia di cui egli si serve e che costituisce la vera e propria essenza del sistema, finisce per svolgersi contro di lui. Che egli sia o no effettivamente messo in pericolo da nemici, sempre proverà la sensazione di essere minacciato. La minaccia più pericolosa procede dalla sua stessa gente, da coloro che egli comanda continuamente, che gli sono vicinissimi, che lo conoscono bene. Il mezzo per liberarsi, a cui egli ricorre non senza esitazioni, pur non rinunciandovi mai, è l’ordine subitaneo di una morte di massa. Egli dà inizio a una guerra e manda i suoi là dove devono uccidere. Molti di loro, d’altronde, possono morire pur essi. Non gli rincrescerà. Comunque si atteggi esternamente, c’è in lui un profondo e segreto bisogno che anche le fila della sua stessa gente si diradino. Affinché egli sia liberato dall’angoscia del comando, è necessario che muoiano anche molti di coloro che combattono per lui. La selva della sua angoscia è divenuta troppo fitta: egli anela a che si diradi. Se ha esitato troppo, non vede più chiaro e può gravemente danneggiare la sua posizione. La sua angoscia del comando assume allora dimensioni che portano alla catastrofe. Ma prima che la catastrofe abbia raggiunto lui, il suo corpo – che per lui rappresenta il mondo – , prima di ciò, egli avrà portato alla rovina innumerevoli altri”[2].
A questa linea se ne può contrapporre un’altra, che si forma a partire dalla messa a valore del costitutivo essere di relazione dell’umano, dalla capacità di organizzarsi in modo tale da realizzare una “massa di rovesciamento”, in grado cioè di perseguire effettivamente l’obiettivo del potenziamento della vita invece del suo indebolimento. Ancora in Massa e potere si sottolinea come senz’altro ci sia purtroppo la linea della pseudo-liberazione, consistente nel trasmettere in basso gli ordini ricevuti, certificando/“giustificando” così la presenza di esseri considerati in una qualche maniera “inferiori”, ma si dà a volte anche la possibilità concreta di ripagare coloro che si pretendono “superiori” dalle sofferenze imposte: “Un singolo, debole e privo d’aiuto, avrà solo raramente la fortuna di farlo. Se però molti si riuniscono in una massa, possono ottenere ciò che sarebbe stato negato ai singoli. Insieme possono volgersi contro coloro che li hanno comandati fino a quel momento. La situazione rivoluzionaria può essere considerata come la condizione di tale rovesciamento. Ma la massa, la cui scarica consiste essenzialmente in una liberazione collettiva da ‘ordini-spine’, dev’essere intesa come massa di rovesciamento”[3].
Questa idea di una “liberazione collettiva” è quindi strettamente collegata alla questione “classica” dell’autoconservazione, da afferrare dal lato della sua opposizione radicale alle pratiche della privazione di quote del vivente, della chiusura prevaricatrice nei confronti delle ragioni multiple dell’esistere, degli intrecci di vita, di esperienze che restituiscono la costitutiva relazionalità dell’essere umano. Nella sua conversazione del ’62 con Canetti, Theodor W. Adorno osserva in termini che mi sembrano assai incisivi: “Nella Dialettica dell’Illuminismo, Horkheimer e io abbiamo analizzato il problema dell’autoconservazione, come è stato formulato per la prima volta […] nella filosofia di Spinoza – e che Lei definisce, nella Sua terminologia, come il momento della sopravvivenza, cioè la situazione della sopravvivenza in senso pregnante – , che questo motivo dell’autoconservazione, quando diventa per così dire ‘selvaggio’, quando perde dunque il rapporto con gli altri che gli stanno di fronte, si trasforma in una forza distruttiva, in qualcosa di distruttivo, e insieme sempre anche in autodistruzione […]. Credo che l’accordo non sia qui un caso, ma potrebbe rinviare a un momento oggettivo, che è diventato attuale proprio sulla base della crisi della situazione presente, che è in definitiva una crisi proprio di questa autoconservazione divenuta selvaggia, di questa sopravvivenza divenuta selvaggia”[4].
La critica canettiana alla dinamica del “potente” è rivolta a evidenziare come il prelievo di “vita” sia l’esigenza propria di qualsiasi “arte del regnare”, del potere in ogni sua manifestazione. Al di là dello stesso confronto con Adorno, diffidente nei confronti delle posizioni teoriche che rivendicano comunque una autonomia di fondo della vita dalle spinte/spine del potere, ciò che mi pare opportuno rivendicare, com’è d’altra parte riconosciuto dallo stesso critico francofortese, è il presupposto “spinoziano” dell’indagine svolta da Canetti, nel senso che essa muove dalla convinzione che l’eternità sia immanente a vita medesima. È dunque ulteriormente fondata la centralità irrinunciabile del tema della lotta contro la morte, in quanto è proprio sulla paura rispetto a quest’ultima che si basano tutti i discorsi del potere, con i suoi agenti “ben-pensanti”, nel loro porsi come effettivamente dotati di coerenza e di valore quando sono invece letteralmente privi di senso in relazione con quel principio di metamorfosi, dell’“eternità” della vita che, nella massa, nella sua esperienza in/di divenire, relativizza, rende parziale, il motivo complessivo della divisione, della separazione per sé e cioè, in definitiva, della morte. È l’affermazione dello “stare per sé” come condizione autentica dell’esistere che costituisce il perno dell’ideologia della sopravvivenza, dell’agire “paranoico” del potente, teso a far trionfare la “volontà di prevaricazione della parte sul tutto”. La morte si combina immediatamente con quel “voler far parte per sé stesso” che viene rivendicato, ancor più che nel passato, come compito primario del soggetto moderno nel quadro di funzionamento di una società avanzata/differenziata; con la rimozione socio-culturale del morire si vanno a sacrificare sacrificare le ragioni più intime del vivere, riducendo, appunto, gli esseri umani a corpi “morti”, devitalizzati a causa delle dinamiche di strutturazione di ordine paranoico delle esperienze corporee e sociali.
La stessa figura della potenza metamorfica (e delle sue molteplici espressioni parziali, “finite”) mi piace di nuovo proiettarla sull’etica spinoziana, sulla rilevazione della virtualità propria dei modi dell’esistere, e in tale ottica vorrei riprendere il tema deleuziano dell’atto di creazione, ricordando come esso sia specifico anche della filosofia come particolare disciplina che inventa/crea concetti. Certamente il filosofo francese rinvia – nella sua conferenza del 17 marzo del 1987 – al cinema, alla pittura, alla musica (e anche all’attività propriamente scientifica, nella sua specificità) come attività creatrici e quindi come pratiche di resistenza al mortifero “sistema controllato delle parole d’ordine che valgono in una determinata società”. Ma pure la filosofia può essere considerata come pratica effettiva di carattere inventivo, soprattutto nel momento in cui vale quale atto di concetto come resistenza. Si può cioè pensare alla filosofia come atto di resistenza che oltretutto ha anche un risvolto umano che rinvia appunto alla “lotta di uomini”, in un senso propriamente “politico”, in quanto per resistere alla morte, al primato del morto sul vivo sempre più manifesto nel nostro “mondo”, è essenziale tentare di rendere ancora più radicale e palpitante il percorso dell’umano. L’atto di resistenza è umano ed è ciò che propriamente resiste alla morte e si concretizza, voglio ripeterlo, nella “lotta” e nella forma dell’opera d’arte. C’è “un’affinità fondamentale tra l’opera d’arte e l’atto di resistenza. Essa ha qualcosa a che fare con l’informazione e la comunicazione in quanto atto di resistenza. Qual è questo misterioso rapporto tra un’opera d’arte e un atto di resistenza, se gli uomini che resistono non hanno né il tempo né talvolta la cultura necessaria per avere il minimo rapporto con l’arte? Non so, Malraux sviluppa un bel concetto filosofico, dice una cosa molto semplice sull’arte, dice che è la sola cosa che resiste alla morte. Torniamo al principio: che cosa si fa quando si fa filosofia? Si inventano concetti. Secondo me questa è la base di un bel concetto filosofico. Riflettete… che cos’è che resiste alla morte? Basta guardare una statuetta di tremila anni avanti Cristo per trovare che la risposta di Malraux è in fondo una buona risposta. Si potrebbe dire allora, meno bene, dal punto di vista che è il nostro, che l’arte è ciò che resiste, anche se non è la sola cosa che resiste. Di qui il rapporto così stretto tra l’atto di resistenza e l’opera d’arte. Non ogni atto di resistenza è un’opera d’arte, benché, in un certo senso, lo sia. Non ogni opera d’arte è un atto di resistenza e tuttavia, in un certo senso, lo è”[5].
A me viene anche in mente, per questo transito da Canetti al filosofo francese nel segno della ricerca di ciò che può valere contro la morte, in opposizione a tutte le dinamiche della “sopravvivenza selvaggia”, anche una delle stimolanti operazioni teoriche sviluppate da Deleuze e Félix Guattari nel loro Millepiani, quando presentano il motivo dell’amore vivente, la cui condizione di possibilità viene individuata in quella fuoriuscita dal buco nero della coscienza e della passione soggettiva (veri e propri “vicoli ciechi”, misura reale della sottomissione, dell’assoggettamento) che sola può assicurare il rinvenimento di “particelle catturate, surriscaldate, trasformate” indispensabili appunto per un amore inteso come connessione con gli spazi comunque parzialmente ignoti dell’altro, una connessione priva però di ogni volontà di introduzione e di conquista. Il balzare fuori dai buchi della soggettività è ciò che può liberare delle “teste cercanti”, con le loro punte di deterritorializzazione, di fuga creativa, in grado di formare nuovi e strani divenire, di potenziare il possibile, di orientare i flussi verso linee di deterritorializzazione positiva: ad esempio, dalla politica del viso in direzione della testa del divenire-clandestino[6].
Al di là di questo percorso da Canetti a Deleuze (e Guattari), vorrei sviluppare quest’ultima parte del contributo ritornando al motivo del ricordo, della memoria, però in un’ottica che appare in prima battuta come eccentrica rispetto a quella finora fatta propria. Scelgo infatti di riprendere alcune osservazioni di Niklas Luhmann, a partire dalla sua ricerca sotto la veste di sociologo delle realtà organizzate, ricordando ciò che scrive sulla funzione della memoria in relazione ad un approccio sistemico che coglie appunto nella memoria del sistema la possibilità da parte di quest’ultimo di oscillare tra il passato e il futuro, riconnettendoli in modo selettivo attraverso la decisione presente. Non voglio però farla troppo difficile e passo la parola direttamente al sociologo: “La memoria non è affatto una prestazione di cui ci serve ogni tanto, che viene attivata se si tratta di riattualizzare accadimenti passati. La memoria serve piuttosto a discriminare continuamente tra dimenticanza e ricordo, tra liberare capacità operative e costruire identità per un uso ripetuto. Con questa funzione selettiva la memoria viene usata in ogni operazione di osservazione e allo stesso tempo viene registrata; per così dire, essa conferma lo stato dal quale parte l’operazione, riattualizza il mondo nel modus dell’essere conosciuto. Solo a partire da qui si possono riconoscere come devianti irritazioni, cose inusuali, sorprese, informazioni e piani per innovazioni. In questo modo non solo si dimentica la dimenticanza, ma anche la stessa funzione selettiva, poiché la memoria saboterebbe sé stessa, se volesse continuamente ricordare che aveva distinto tra ciò che va dimenticato e ciò che va ricordato. Quindi, decidendo, il sistema deve assumersi il rischio di dimenticare qualcosa e recepirlo come rischio della decisione – come rischio della decisione in un mondo sconosciuto con infinite possibilità di ulteriori informazioni”[7].
In questa prospettiva d’indagine la memoria non si presenta quindi come ciò che consente di recuperare qualcosa di dimenticato, ma come quella funzione che “rende invisibile il passato”, sigillandolo “in quanto concluso”. Del passato, una volta “datato”, si conserva solo ciò che può essere impiegato nel presente alleggerendo l’elaborazione di informazioni: la memoria, quando si rivolge al passato “datato”, lo fa per costruire un “passato presente”, pur restando fermo il presupposto della inaccessibilità complessiva del passato stesso. Luhmann insiste sul condizionamento reciproco di decisione e memoria, dato che il decidere si concretizza a partire da ricorsi che presuppongono memoria, e sottolinea anche che per distinguere il ricordare e il dimenticare è necessario che la memoria stessa si “re-impregni” appunto attraverso il decidere. Interessante è poi il rinvio alla scrittura (e oggi pure al “computer”, suo equivalente funzionale) come sostrato materiale della memoria, intesa quale processo che innanzitutto seleziona ciò che viene ricordato, rimarcando il fatto, “come accade anche nella rete neurofisiologica del cervello”, che “il dimenticare costituisce il processo normale, il ricordare costituisce il caso eccezionale”: “La decisione, per quanto formulata per iscritto, resta un evento legato all’istante, che però si può distribuire nello spazio e nel tempo, si può scomporre in sotto-eventi. L’informazione può infatti sorprendere solo una volta e non una seconda; l’atto di comunicare la decisione fissata per iscritto, come azione, resta irripetibile (anche se può essere corretta) e il comprendere è anch’esso un evento unico, anche se può essere ricordato. La scrittura rende senz’altro possibile una considerevole diffusione dell’evento decisionale e questo, per esempio, è un motivo che suggerisce di datare la decisione. Ma ogni scomposizione di questo evento decisionale riconduce necessariamente di nuovo tutte le componenti nella forma di eventi singoli che, a loro volta, dipendono dal fatto di ricordare la decisione e la sua data”[8].
Lo sfondo dell’indagine è quello della teoria che ha come oggetto l’organizzazione, intesa come una combinazione di decisioni e comunicazioni, e sarebbe importante seguire il ragionamento sui “rapporti temporali”, anche a partire da una determinazione del decidere che ne coglie il modo essenzialmente temporale per via della funzione di divisione e ricollegamento di passato e futuro, ma quello che mi preme ancora rimarcare è la particolarità della funzione della memoria: in un breve testo del 1996, Il rischio dell’assicurazione contro i pericoli, Luhmann riprende l’idea che la funzione primaria della memoria sia proprio la dimenticanza, premessa fondamentale perché il sistema (gli stati del ricordare e del dimenticare sono propri del sistema, anche quello psichico, per quanto ci riguarda) possa liberarsi nel presente dai vincoli messi in piedi nei suoi stati passati. Questa “liberazione” è ciò che coinvolge delle capacità indispensabili per l’articolazione di nuove operazioni. Scrive Luhmann, tenendo sempre fermo il fatto che la memoria distingue tra ricordo e dimenticanza al fine di ottenere maggiore libertà per meglio operare (potrei aggiungere, per tornare all’apertura più propriamente “antropologica” di questo mio testo, che la discriminazione produttiva della memoria, la rilevazione della funzione in positivo del ricordo e della dimenticanza, è essenziale per cercare di realizzare un sopravvivere non “selvaggio”, unicamente strumentale):
Soltanto in casi eccezionali il sistema si può impegnare a fissare qualcosa – e questo sempre soltanto quando certi stati vengono utilizzati in modo ripetitivo, re-impregnando così la memoria. Questi vincoli appaiono alla coscienza come identità a diversi livelli di generalizzazione, mentre la dimenticanza passa inosservata; essa stessa viene dimenticata. Si può perciò anche dire che la funzione della memoria consiste nel discriminare continuamente fra ricordo e dimenticanza, per cui si ricorda di nuovo soltanto in casi eccezionali attraverso l’indice temporale “passato”, per esempio per mezzo di date o localizzazioni, relativamente indeterminate nel tempo passato (‘durante le vacanze, l’estate scorsa’ o cose del genere)[9].
[1]Elias Canetti, La provincia dell’uomo, 363. Tradotto da Furio Jesi. Milano: Adelphi, 1978.
[2]Canetti, Elias. Massa e potere, 516-517. Tradotto da Furio Jesi. Milano: Rizzoli, 1972.
[3]Canetti, 59.
[4]Adorno, Theodor Ludwig Wiesengrund, ed Elias Canetti. “Colloquio”. In Adorno, Theodor Ludwig Wiesengrund, Elias Canetti e Arnold Gehlen. Desiderio di vita. Conversazioni sulle metamorfosi dell’umano. Tradotto da Ubaldo Fadini. Milano-Udine: Mimesis, 2019.
[5]Deleuze, Gilles. Che cos’è l’atto di creazione? 22-23. Tradotto da Antonella Moscati. Napoli: Cronopio, 2023.
[6]Al di là del rinvio a Mille piani. Capitalismo e schizofrenia (ho qui presente la traduzione di Giorgio Passerone, Istituto della Enciclopedia Italiana, Treccani, Roma 1987), soprattutto ai “piani” 7 e 10, sia consentito il rimando al mio Figure nel tempo. A partire da Deleuze/Bacon. Verona: Ombre Corte, 2003.
[7]Luhmann, Niklas. Organizzazione e decisione, 130. Tradotto da Giancarlo Corsi. Milano: Mondadori, 2005.
[8]Niklas, 131.
[9]Luhmann, Niklas. Il rischio dell’assicurazione contro i pericoli, 70-71.Tradotto da Alberto Cevolini. Roma: Armando Editore, 2013.