Simone Santamato, Università Vita-Salute San Raffaele, Milano
E-mail: simonesantamato@gmail.com
doi: 10.14672/VDS20242PR6
(https://doi.org/10.14672/VDS20242PR6)
Abstract
La filosofia si scontra con temi ricorrenti, uno dei quali, probabilmente il più ricorrente, riguarda il complicato rapporto tra identità e alterità. È un match che fatica ad arrivare al gong: l’intreccio che lega l’io e l’altro assomiglia più a un garbuglio difficile da srotolare. Non abbiamo dunque la pretesa di dirimerlo quanto di presentare alcune strategie teoretiche utili a un suo allentamento. Seguiremo una traiettoria precisa: considereremo le filosofie di Heidegger e Nancy cercando di capire cosa ne vada dell’identità e dell’alterità nel loro impianto filosofico. Naturalmente non vogliamo salpare per un viaggio solo storico: ci interesserebbe cogliere l’occasione teoretica di queste filosofie, sapendo possano suggerirci delle suggestioni prolifiche.
I nostri strumenti saranno prevalentemente due: Essere e tempo di Heidegger e Essere singolare plurale di Nancy. Malgrado questi due poli teoretici siano notoriamente agli antipodi, la nostra idea è che una loro analisi comparativa incentivi riflessioni non di poco conto. Tra tutte il fatto che l’alterità sia un’imperdibile occasione di potenziamento per la soggettività e, per questo, il loro rapporto deve essere coltivato quanto più sanamente possibile.
Keywords: Heidegger, Nancy, progettualismo, co-ontologia, identità-alterità.
Philosophy battles with some recurring themes, one of which, maybe the most one, is the complicated relation between identity and otherness. It is a match that struggles to get to the gong: the net that binds the self and the other looks more like a tangle hard to unroll. So, we don’t have the claim to settle it down, but we would like to present some strategies useful to loosen it. We will follow a precise trajectory: we will consider the philosophies of Heidegger and Nancy trying to understand what is about of identity and otherness in their philosophical frameworks. Of course, we don’t want to set sail on a historical trip: our interest is to catch the theoretical suggestions of these philosophies, knowing that they can advise us with prolific thoughts.
We’ll basically have two tools: Heidegger’s Being and Time and Nancy’s Being Singular Plural. Even if those two theoretical poles are notoriously opposites, our idea is that a comparative analysis incentivizes important conclusions. Between all that otherness is an unmissable chance of expansion for the subjectivity and, because of this, their relation must be cultivated in the healthiest way.
Keywords: Heidegger, Nancy, projectualism, co-ontology, identity-otherness.
Il rapporto tra soggettività e alterità infervora da sempre i dibattiti filosofici, ma oggi più che mai risulta impellente: nell’epoca di massima intensità della globalizzazione, intesa nei suoi caratteri sociali, politici ed economici, l’interdipendenza che lega gli individui deve essere discussa con una certa necessità. Tra l’altro, uno dei prodotti più socialmente rivoluzionari della globalizzazione, il social, riorganizza strutturalmente il concetto stesso di fare relazione.
Per questa ragione, la nostra intenzione è di portare l’attenzione sui vari modi di relazione, partendo dall’emblematica polarizzazione ontologica tra il pensiero di Heidegger e Nancy. Se da un lato, come vedremo, troviamo molta diffidenza nei confronti della relazione, della quale viene risaltato maggiormente il rischio di impersonalità, dall’altro l’essere come tale si dissemina essendo gli-uni-con-gli-altri.
Lo slancio progettualistico di Heidegger
Prima di addentrarci nel cuore del tema, ci pare utile segnare qualche coordinata concettuale per mettere a fuoco i concetti cui maggiormente ricorreremo nel corso del lavoro. Partiamo da Essere e tempo.
Sein und Zeit[1]è fondamentalmente un itinerario dell’umano: qui chiamato Esserci (Dasein), “è caratterizzato […] dal fatto che, per questo ente, nel suo essere, ne va di questo essere stesso”[2]. Inoltre, “l’Esserci, in qualche modo […] si comprende nel suo essere”[3]. Insomma: il Dasein può realizzarsi autenticamente portando a compimento il suo essere. SuZ è una mappatura delle tappe propedeutiche a questa realizzazione: dapprima il Dasein si rende conto di avere “alla mano” (zur Hand) degli oggetti di cui ha una qualche “utilizzabilità” (Zuhandenheit)[4]; poi incontra altre identità con cui condivide il mondo-ambiente (Umwelt), che a loro volta realizzano il loro essere: per questo, i con-Esserci (Mitdasein)[5]. Ancora dopo, capisce che controbilanciare la propria identità con quella degli altri sia un bel rompicapo: da qui ciò che chiamiamo “omologazione”. In Heidegger, il Si (Man) impersonale – “si dice” e “si fa” in un certo modo, dunque agire senza esprimere la propria soggettività[6]. In che modo l’Esserci risolve questa omologazione? Secondo Heidegger, è necessario accorgersi di essere-per-la-morte (Sein zum Tode) per poter fare progetti (Entwürfe)[7] che realizzino la propria identità. E allora: l’autenticità (Eigentlichkeit) individuale sta nel progettare. Notiamo qualcosa: identità e alterità si articolano anzitutto nella situazione dell’impersonalità.
Questo è uno degli snodi centrali di SuZ: perché ognuno realizzi autenticamente il suo essere, è necessario che sublimi l’inautenticità (Uneigentlichkeit) del Si; per meglio dire, deve dapprima risolvere l’enigma della omologazione. Sono tutte dinamiche robustamente ontologiche: l’omogeneizzazione è un ostacolo mica psicologico ma riguardante l’essere proprio di ognuno di noi.Ciononostante, l’apertura all’altro è strutturante per l’Esserci[8], addirittura “L’esser-solo è un modo difettivo del con-essere, e la sua stessa possibilità è la conferma di quest’ultimo”[9]. Sembra una contraddizione: l’alterità è fondamentale per l’identità però, poco sopra, l’autenticità sfida l’impersonalità. Il fatto è che l’una cosa non esclude l’altra: l’identificazione di sé non annulla la presenza dell’altro. La giocata vincente non sta nell’individuazione a scapito della relazione ma, proprio all’opposto, nell’armonizzazione di identità e alterità. L’orizzonte che abbraccia la questione è di nuovo ontologico: non c’è un’assiologia o un’ontologia dei valori a sostanziare l’equilibrio tra soggetti quanto una vera e propria ontologia formale. Se il con-Esserci è tale in quanto anche per lui ne va del suo essere, è negli interessi dell’analitica esistenziale che ogni Dasein si realizzi autenticamente. Considerato il tutto, è possibile dire che soggettività e alterità siano armoniche fin quando non invadono lo spazio di individuazione ontologica l’una dell’altra. E dunque “L’altro Esserci […] è incontrato nel quadro […] dell’aver cura”[10].
Questo è probabilmente uno dei concetti più evanescenti di SuZ: la Cura è al sottofondo di ogni dinamica dell’Esserci in quanto essere-nel-mondo (In-der-Welt-sein). Che sia in rapporto con l’utilizzabile del quale siprende cura[11] o dei con-Esserci dei quali ha cura[12], sovrintende l’entrata in relazione del soggetto[13]. Heidegger ne stempera subito il carattere morale: Cura “è usato in un senso ontologico-esistenziale puro. Esso non ha nulla a che vedere con tendenze d’essere di carattere ontico, del genere della preoccupazione o dell’incuranza”[14]. Da nostra parte crediamo che assiologia e ontologia in Heidegger possano coincidere: se ne va dell’essere che in ognuno ci è che l’umano si realizzi, è ragionevole credere che l’aver-cura, per quanto inteso ontologicamente, sia messo in pratica attraverso delle disposizioni emotive (Stimmungen)[15] che preservino l’identificazione altrui. C’è da dire che la filosofia di Heidegger, nonostante indaghi l’Esserci, è in realtà tutta tesa all’essere in quanto tale. Volendo usare una definizione stridente ma efficace, è una metafisica ontologica: lavora sul che cosa dell’umano in quanto Esserci poiché appaia, come traslucido, l’essere come tale. Le tappe segnate sono proprio il percorso che porta l’Esserci a disvelare (Unverborgenheit) l’essere. Questo svelamento, cui Heidegger si riferisce col greco ἀλήθεια, gode di termini specifici e suggestivi quali: “apertura nella radura” (Lichtung), “rilucenza” (Reluzenz), “aperturalità” (Erschlossenheit), “essere aperto nella radura” (Gelichtetheit), e vari altri.
Ne viene che l’analitica esistenziale sia una propedeutica e perciò tutti i discorsi sulla quotidianità sono un traino verso l’essere. Heidegger non ne fa certamente segreto chiarendo da subito che l’analitica esistenziale riguarda quell’ente il cui essere ha più modo di venire a galla: l’umano[16].
Dunque, nell’ontologia di SuZ ci sono due forze in gioco: l’Esserci che compie il suo percorso esistenziale nel progetto da una parte, e l’essere in quanto tale che si svela grazie al percorso del Dasein dall’altra. La si può interpretare in due modi: o l’umano ne esce potente di un ingente compito ontologico, quello dello svelamento dell’essere nella vita autentica, o l’analitica esistenziale lo subordina alla metafisica dell’essere. L’Heidegger successivo a SuZ dà ragione un po’ a entrambi gli orientamenti: la storia della filosofia traccia una bisettrice sul suo pensiero dopo il ‘27 per separare l’analitica esistenziale dai successivi studi di ontologia pura, il cui lavoro apripista è Was ist Metaphysik?[17]. In questa istanza vogliamo stare coi piedi per terra. L’analitica esistenziale disegna, per così dire, una cartografia dell’identità dall’utilizzabile fino all’identificazione nel progetto. In questa traiettoria c’è un punto fondamentale su cui faremmo ruotare il discorso: nel suo sentiero esistenziale, l’individuo incontra altre individualità che a loro volta percorrono un ciclo di identificazione. Ora che sappiamo del progetto e della realizzazione individuale possiamo affrontare uno dei discorsi più interessanti dell’analitica esistenziale, quello della quotidianità.
Coi piedi per terra: la quotidianità
A noi interessa rimanere coi piedi per terra. In questa sezione, allora, approfondiremo la dinamica della quotidianità per come affrontata in SuZ.
Abbiamo già posto delle basi: la quotidianità dell’Esserci è parte integrante dell’esperienza del Si. La sua analisi, quindi, “dovrà stabilire quali sono le possibilità del suo essere che l’Esserci ha aperto e possiede in quanto Si”[18]; inoltre, “Queste possibilità stesse riveleranno […] una tendenza d’essere essenziale della quotidianità”[19]. Portiamo a casa due risultati: da un lato le possibilità d’essere del Dasein nel Si e, dall’altro, l’essere essenziale della quotidianità. Ciò che c’è di certo, comunque, è che dalla quotidianità e dal Si ne va di un Esserci autentico. Sono cose vitali per il nostro discorso: se, come si è detto, in Heidegger ci deve essere un corretto controbilanciamento tra identità e alterità perché l’Esserci si realizzi, l’impersonalità del Si ci getta nel cuore del match – “Ognuno è gli altri, nessuno è se stesso”[20]. In un certo senso il Si rappresenta una patologia per l’umano: stordito dall’esistere altrui, viene assorbito in un imbuto tanto stretto da striminzirne l’identità. Questo imbuto è la «pubblicità» (Öffentlichkeit):
Essa regola innanzi tutto ogni interpretazione del mondo e dell’Esserci, e ha sempre ragione. E ciò, non sul fondamento di un rapporto eminente e primario all’essere delle «cose», non perché essa disponga di un’esplicita e appropriata trasparenza dell’Esserci, ma per effetto del non approfondimento «delle cose» e dell’insensibilità a ogni discriminazione di livello e di purezza. La pubblicità oscura tutto e spaccia ciò che risulta così dissimulato come notorio e accessibile a tutti[21].
La pubblicità è il contesto pubblico: tutti i momenti in cui, insomma, siamo per il sociale. Ma sarebbe riduttivo vederla così: la pubblicità si sedimenta nel tessuto della nostra identità tanto che orienta le nostre azioni sostituendosi alla nostra personalità. Dicevamo: “si dice” e “si fa” in un certo modo e, dunque, agiamo seguendo certi presupposti senza esprimerci nell’azione. Ora: come facevamo presente, l’analisi del Si e della pubblicità ci porta al cospetto dell’essenzialità sia dell’Esserci nell’impersonalità che della quotidianità come tale. A quest’ultima corrispondono tre evenienze “esistentive” (existentielle) già citate di sfuggita: la chiacchiera, la curiosità e l’equivoco. Queste situazioni costituiscono essenzialmente il Si impersonale e sono, quindi, il punto di sommersione dell’identità nella pubblicità. Vediamole in ordine.
La chiacchiera si articola nell’epistemologia e nel linguaggio in quanto, riguardando il discorso, verte sia il contenuto epistemico di quanto si dice sia il fatto di dire qualcosa. Il discorso come chiacchiera “Nell’insieme della sua connessione articolata di significati […] custodisce una comprensione del mondo già aperto e, cooriginariamente, una comprensione del con-Esserci degli altri e dell’in-essere proprio di ciascun Esserci”[22]. Chiariamo ciò che c’è in gioco. La chiacchiera è una sorta di rete di significati intessuta dagli uomini per gli uomini e quindi fa naturalmente capo al linguaggio, a degli enunciati concordati che covano una certa sensatezza. Al contempo linguaggio e chiacchiera non sono la stessa cosa. Se al linguaggio spetta la comprensione originaria di ciò a cui si riferisce[23], alla chiacchiera tocca l’ignoranza di quanto si sta parlando. Ecco spiegato perché la chiacchiera sia contemporaneamente un fatto epistemologico e linguistico: da un lato riguarda una cattiva conoscenza, meglio ancora un’ignoranza, dall’altro si istituisce sul discorso. In breve: “Ciò che è compreso è il discorso, il sopra-che-cosa lo è solo approssimativamente e superficialmente”[24]. È una specie di balbettio di significanza dove si dice per dire: “Le cose stanno così perché così si dice”[25]. La sua immediatezza di significati le conferisce gli attributi di diffusione e ripetizione: la chiacchiera si sparge proprio in virtù della sua comprensibilità ma non solo, i suoi discorsi sono scevri anche poiché asetticamente ripetuti. Questo è interessante: reiterare continuamente un discorso fa sì che si sedimenti nel telaio dell’impersonalità e circoli incontrastato. Insomma, nella chiacchiera rientrano tutti i sentito-dire immaginabili fino a che il contenuto scade nell’infondatezza: “In questa diffusione e in questa ripetizione […] nelle quali la certezza iniziale in fatto di fondamento si aggrava fino a diventare infondatezza, si costituisce la chiacchiera”[26]. Nella pubblicità si crastula delle cose senza che nei discorsi abiti una reale comprensione del contenuto cui si riferiscono e addirittura, se prima se ne aveva qualche contezza, la ripetizione dissolve ciò che si sapeva. Di conseguenza, questo sproloquio oscillante tra l’epistemico e il linguistico chiude l’essere-nel-mondo:
Il discorso, che rientra nella costituzione essenziale dell’essere dell’Esserci e di cui con-costituisce l’apertura, ha la possibilità di mutarsi in chiacchiera e, come tale, di non tener più aperto l’essere-nel-mondo in una comprensione articolata, anzi di chiuderlo e di coprire così l’ente intramondano[27].
Ci sono dei risvolti ben peggiori di quanto non credessimo inizialmente: la chiacchiera chiude il mondo all’Esserci poiché ne sfoca la comprensione. Utilizziamo il verbo “sfocare” con cognizione di causa in quanto, per Heidegger, noi anzitutto ci disponiamo al mondo in un modo da cui dipende l’autenticità delle cose che «vediamo»: è su questo sguardo al contempo esistenziale e ontologico che ruota l’ἀλήθεια[28]. E infatti “Il Si prefigura la situazione emotiva; esso stabilisce che cosa si «vede» e come si «vedono» le cose”[29].
Per quanto ci chiuda al mondo, “Molte cose impariamo a conoscere a questo modo e non poche restano per sempre tali. L’Esserci non può mai sottrarsi a questo stato interpretativo quotidiano”[30]. Naturalmente non possiamo subito disporci autenticamente all’essere: molte cose le impariamo dapprima chiacchierando coi nostri affetti. Così la conoscenza vera e propria è considerabile un’aggiunta alle sedimentazioni della chiacchiera. È rilevante far presente che pure ottenendo una presa autentica sull’intramondano, si finisce per continuare a chiacchierarne:
l’Esserci che si mantiene nella chiacchiera, in quanto essere-nel-mondo è tagliato fuori dal rapporto ontologico primario, originario e genuino col mondo, col con-Esserci e con l’in-essere stesso. Si mantiene in una sospensione nella quale, però, si rapporta pur sempre al «mondo», agli altri e a se stesso[31].
È una condizione da superare ma nella quale comunque si continuerà a rimanere. Chi però si lascia andare rimane sospeso in un rapporto insignificante col mondo e gli altri. Non ci si può permettere un adagio ontologico del genere: a noi interessano relazioni con l’alterità che rappresentino un’occasione imperdibile di potenziamento.
La seconda situazione del Si è la curiosità. Qui si pone l’accento su una proprietà caratteristica del pensiero heideggeriano, pure sopra intravista, quella del «vedere». Nella sua impalcatura teoretica si può dire ci sia una piramide dei sensi – intesi nel senso forte di modo di accesso al mondo – con in cima la vista: essa va ben oltre la mera sensibilità, sovraccaricandosi di uno spettro ampio di significati che sfociano in un’interpretazione ontologica – la vista fa apparire le cose. Nel caso della curiosità si tratta di un vedere disinteressato che “si prende cura solamente di vedere”[32] e che, quindi, focalizza le cose soffermandovisi blandamente. Ci si lascia non tanto ammaliare dall’intramondano quanto conquistare dal fatto che sia lì e possa essere curiosamente scorto. Il vedere curioso è ben distinto dal vedere autentico, dal θεωρέω che disvela l’essere delle cose:
Essa cerca il nuovo esclusivamente come trampolino verso un altro nuovo. Essa non cerca quindi nemmeno la calma della contemplazione serena, dominata com’è dalla irrequietezza e dall’eccitazione che la spingono verso la costante novità e il cambiamento. In questa agitazione permanente la curiosità cerca di continuo la possibilità della distrazione[33].
Ordiniamo i tasselli: abbiamo da una parte l’irrequietezza-eccitazione e dall’altra la distrazione. Ci aiuta il senso comune: quando si è curiosi di qualcosa, ci poggiamo lo sguardo sopra quanto basta per soddisfare l’iniziale interesse. In altri termini, siamo incuriositi da ciò che ci distrae, facendo della curiosità un interesse di scarsa intensità che esaurisce la sua potenza in brevi attimi di soddisfacimento. Ovviamente è ben lontana dalla comprensione effettiva di ciò che la interessa, cosa che la lega alla chiacchiera: “La chiacchiera fa da guida alla curiosità e dice ciò che si deve aver letto e visto. L’essere-ovunque-e-in-nessun-luogo della curiosità è affidato alla chiacchiera”[34]. Ancora una volta intuiamo per senso comune: dopo esserci incuriositi, saremo portati a chiacchierare di quanto ci ha distratto. Potremmo dire che alcuni contenuti della chiacchiera siano proprio ciò che ci ha incuriosito e, se così fosse, capiamo meglio perché non ne sveli le strutture ontologiche: è normale non avere contezza di ciò che ci ha solo distratto. Questa disposizione compromette moltissimo le relazioni: l’altro ci incuriosisce ma è privo di quell’interesse profondo che ci porta a esplorarlo nella sua irriducibile personalità.
Neanche l’equivoco si separa dalla linea tracciata da Heidegger: è lontano dalla comprensione autentica del mondo e permea intimamente la fondatezza dell’Esserci e del suo rapporto con gli altri – “Questa equivocità non investe soltanto il mondo, ma anche l’essere-insieme come tale e il rapportarsi stesso dell’Esserci al proprio essere”[35]. L’equivoco è una sorta di approdo sintetico delle due precedenti situazioni in quanto ne aggrava le conseguenze:
L’equivoco non riguarda soltanto la disposizione e l’impiego dell’utilizzabile che si incontra nell’uso e nella fruizione, ma si è già inserito saldamente anche nella comprensione come poter-essere, nella modalità del progetto e nella predisposizione delle possibilità dell’Esserci. Non soltanto ognuno sa e discute di qualsiasi cosa sussista o gli capiti, ma ognuno sa già parlare con competenza di ciò che deve ancora accadere, di ciò che ancora non è ma dovrebbe «propriamente» esser fatto. Ognuno ha già sempre presentito e fiutato ciò che gli altri hanno presentito e fiutato. Questo esser-sulla-traccia, ma per sentito dire […], è il modo più subdolo in cui l’equivoco può presentare all’Esserci le sue possibilità, perché le vanifica fin dall’inizio[36].
A causa del chiacchiericcio e del vano curiosare tutto il mondo sprofonda in una grossa equivocità: quella di essere compreso come se non avesse più nulla da offrire. Peggio: non solo quel che c’è viene dato per presupposto e quel che c’è stato ha esaurito il suo interesse, ma pure quello che sarà lo si dà per scontato. Gli individui creano un vortice di equivocità difficile da sedare poiché tutto il mondo sembra aperto quando più chiuso non potrebbe essere: tutto è frainteso. Il chiacchiericcio e la visione curiosa equivocano i significati del mondo dando vita a veri e propri feticci di senso – i sentito-dire – tramandati nella pubblicità. È un vero e proprio svuotamento di sensatezza: tutto è già compreso e dato per scontato. Tutte le cose si ritraggono in un nulla velato dai sentito-dire, dei costrutti di sensatezza che nascono e muoiono nell’ignoranza del dire pubblico:
Nell’equivoco, l’Esserci è sempre nel «Ci», cioè nell’apertura pubblica dell’essere-assieme, in cui la chiacchiera più diffusa e la curiosità più sfrenata creano l’«animazione» nella quale tutto accade quotidianamente in modo tale che in fondo non accade mai nulla. L’equivoco offre costantemente alla curiosità ciò che essa va cercando e dà alla chiacchiera l’illusione che tutto sia deciso da essa[37].
Naturalmente questo porta a un cortocircuito della relazione che di fatto è tossica: nessuno cerca di raggiungere l’intimità dell’altro ma ci si ferma allo sproloquio:
La curiosità, come modo di essere dell’apertura dell’essere-nel-mondo, investe anche l’essere-assieme come tale. L’altro, innanzi tutto, «ci» è in base a ciò che se ne è sentito dire, a ciò che si racconta su di lui e se ne sa. Nell’essere-assieme originario si insinua innanzi tutto la chiacchiera. Ognuno tiene gli occhi addosso all’altro per vedere come si comporterà e per sapere che cosa dirà. L’essere-assieme dominato dal Si non è affatto una giustapposizione di individui estranei e indifferenti, ma un nervoso ed equivoco starsi a sorvegliare reciproco, uno starsi a sentire vicendevole e nascosto. Sotto la maschera dell’essere-l’uno-per-l’altro domina l’esser-l’uno-contro-l’altro[38].
Ora: seguendo l’impersonalità, l’altro diventa un nemico dal quale ben guardarsi. Lo si scruta con circospezione, sempre con diffidenza e sospetto, in un subliminale conflitto a somma zero: vince chi origlia di più le cose dell’altro facendosene una vaga idea. Ci sembra la conseguenza più pericolosa dell’impersonalità: questo scolorimento della relazione indebolisce il suo essere un’opportunità di potenziamento. Noi ne siamo convinti: una relazione è felice quando ognuno ha la possibilità di individuarsi come soggetto unico e irripetibile condividendo con l’altro quello che ha scoperto di sé stesso. La intendiamo insomma come una fioritura condivisa dove l’intreccio esplicita meglio a ognuno qualcosa di sé.
Com’è noto, la filosofia heideggeriana ha avuto un proselitismo ampissimo: non è solo un pensiero corposo e ramificato ma anche una matrice da cui derivano precise strutture teoretiche. Ci spostiamo proprio verso uno dei suoi allievi perché, rovesciando molte delle tesi viste, apre a nuovi modi di intendere l’identità e l’alterità.
Analitica co-esistenziale
Abbiamo intitolato questo paragrafo come l’ultimo capitolo di Essere singolare plurale[39] non a caso: una delle imprese più importanti di Nancy è stata di rimescolare le carte dell’analitica esistenziale classica. Abbiamo capito che quest’ultima insiste su un aspetto perlopiù metafisico: attraverso il cammino esistenziale dell’Esserci deve rilucere l’essere come tale. E quindi, tutta l’esistenza è una propedeutica a questo disvelamento. Nancy fa propria l’eredità dell’analitica esistenziale tradizionale riabilitandone alcuni assunti: tra tutti, quelli di co-esistenza (co-existence), co-implicazione (co-implication), essere-gli-uni-con-gli-altri (être-les-uns-avec-les-autres).
Se bisogna salvare qualcosa dell’analitica esistenziale heideggeriana, quella è la riflessione sulla quotidianità e il con-Esserci. La recriminazione teoretica alla filosofia di Heidegger è che abbandoni ben presto la relazione per avvinghiarsi tra l’ontologico e il metafisico. Nancy riapre il dibattito sulla quotidianità, la pubblicità e l’essere-con (être-avec) giungendo a un approdo teoretico originale.
Il presupposto è questo: se in Heidegger la pubblicità insisteva sull’impersonalità, in Nancy permette di realizzare l’essere. O meglio, ne “espone” (ex-position) la sensatezza: “la presenza stessa è la dis-posizione”[40]. Dunque, il grosso scarto tra Nancy e Heidegger è che per il primo il senso è già realizzato. In altre parole, Nancy nega il progettualismo nella sua accezione ontologico-esistenziale, poiché tutto è immediatamente sensato nel “noi” (nous): “L’essere non ha senso, ma l’essere stesso, il fenomeno dell’essere, è il senso, che a sua volta è la circolazione di sé stesso – e noi siamo questa circolazione”[41]. Quindi, il senso è di volta in volta circolante nel tessuto di relazioni entro il quale giochiamo la nostra socialità:
Non c’è altro senso […] che il senso della circolazione – e questa va in tutti i sensi simultaneamente, in ogni senso di ogni spazio-tempo aperto dalla presenza alla presenza. Ogni cosa, ogni essente, ogni esistente, ogni passato e ogni avvenire, ogni vivente e ogni morto, ogni cosa inanimata, le pietre le piante, i chiodi, gli dei – e gli «uomini», vale a dire coloro che espongono la spartizione e la circolazione come tali, dicendo «noi», dicendosi noi in tutti i sensi possibili dell’espressione, e dicendoselo per la totalità dell’essente[42].
Quindi, Nancy prende le distanze dall’analitica esistenziale classica perché rea di allontanarsi dai discorsi sulla quotidianità e il con-Esserci; ritornando su queste dinamiche, affida il senso dell’essere al “noi” che, in quanto tale, è un intero già realizzato composto da parti – ognuno di noi – che diffondono il senso dell’essere. I concetti chiave sono due: l’essere e la sua circolazione. Laddove in Heidegger c’era il progetto a slanciare l’individuo verso l’autenticità, qui non c’è propriamente bisogno di nulla perché, in senso ontologico, è impossibile non avere senso: “Noi facciamo senso: non conferendo un prezzo o un valore, ma esibendo il valore assoluto che il mondo è di per sé”[43]. Dobbiamo cambiare i verbi: non si ha senso ma si fa senso. Sta qui tutta la complessità dell’ontologia di Nancy che però ne rappresenta al contempo la profondità: malgrado il senso sia già fatto, noi ne ricamiamo le filamenta in una perenne tessitura:
L’origine è uno scarto. È uno scarto che ha subito tutta l’ampiezza di tutto lo spazio-tempo e che da subito non è null’altro che l’interstizio dell’intimità del mondo: il tra-essente (entre-étant) di tutti gli essenti, che non è a sua volta nulla d’essente e che non ha altra consistenza, altro movimento, altra configurazione al di fuori di quella dell’essere-essente (être-étant) di tutti gli essenti. L’essere o il «tra» spartisce le singolarità di tutti gli atti sorgivi. La creazione ha luogo dappertutto e sempre, ma essa è quest’unico evento, o avvento, solo a patto d’essere ogni volta ciò che essa è, o di essere solo ciò che essa è «ogni volta», ogni volta singolarmente sorgiva […] Se la «creazione» è davvero questa ex-posizione singolare dell’essente, allora il suo vero nome è l’esistenza. L’esistenza è la creazione – la nostra –, l’origine e la fine che noi siamo[44].
Tutt’al più si dovrebbe dire che ogni venuta all’essere di un essente sia origine del mondo nella misura in cui, nella sua insostituibilità, spartisce o parcellizza meglio il senso dell’essere. La nascita non è solo il compimento riproduttivo ma un vero e proprio fatto ontologico: la messa al mondo inserisce nel reticolo dell’essere una nuova eventualità, una nuova singolarità che ne inspessirà il reticolato ontologico. Sta qui l’essere singolari plurali: ognuno è al contempo una singolarità, quella che è insostituibilmente per sé stesso, e una pluralità poiché atomizza il senso dell’essere nella pubblicità. Qui si rompe definitivamente con la filosofia heideggeriana: la pubblicità o la pluralità, da dissolvere l’individualità nel Si, diventano il fuoco della realizzazione dell’essere.
Les gens sont bizarres: così Nancy rilegge il Si di Heidegger[45]:
Heidegger rischia dunque di trascurare il fatto che non c’è un «si» puro e semplice, in cui l’esistente «propriamente esistente» sarebbe semplicemente immerso, sin dal principio. «La gente» designa chiaramente questa modalizzazione del «si», grazie alla quale «io» mi eccettuo – fino a dare l’impressione di dimenticare o di trascurare il fatto che anch’io faccio parte della «gente». Ma questo distanziamento implica sempre l’ammissione dell’identità: «la gente» significa altrettanto chiaramente che noi siamo tutti per l’appunto genti, cioè persone, uomini, indistintamente, tutto un genere comune, ma un genere che possiede solo un’esistenza numerosa, dispersa, indistinta nella sua generalità e afferrabile unicamente nella simultaneità paradossale dell’insieme […] e della singolarità disseminata […][46].
Si sostituisce quindi al Si impersonale un più neutro «la gente», con cui si chiarisce che per quanto ci si distacchi dall’alterità ne si rimane comunque allacciati. «La gente» incorpora la propria identità nell’alterità perché, per quanto la si veda come «strana», noi non si è altri che quella gente. È la stessa ontologia del “con” (avec) a richiederlo: in un modo o nell’altro anche la stranezza sarebbe un modo della parcellizzazione del senso dell’essere poiché riguarderebbe essenti in relazione. L’essere si dissemina, parcellizza o pluralizza: fintanto che vi saranno degli essenti, sparpaglierà la sua sensatezza; anche all’umile livello della gente, “quanto riceviamo […] con le singolarità, è il passaggio discreto di altre origini del mondo”[47].
E allora il
«Con» è la spartizione dello spazio-tempo, è un allo-stesso-tempo-nello-stesso-luogo in quanto esso stesso, in se stesso, scartato. È un principio d’identità istantaneamente demoltiplicato: l’essere è allo stesso tempo nello stesso luogo, nella spaziatura di una pluralità indefinita di singolarità. L’essere è con l’essere, non si ripiega in se stesso, ma è accanto a sé, vicino a sé, addosso a sé, fino a toccarsi, nel paradosso di una prossimità in cui vengono alla luce il distanziamento e l’estraneità. Noi: ogni volta un altro, ogni volta con altri[48].
Naturalmente questa ontologia cade un po’ vittima del suo stesso presupposto: è davvero difficile concepire l’unicità in uno sfondo che ne pluralizza la sensatezza. Dice Nancy, l’essente è sensato solo e solamente nella relazione e mai al di là di quella, anzi: se tutto l’essere si dà nel «con» è impossibile che si fondi in sé stesso – “l’esistenza è con: oppure niente esiste”[49]. Si tratta di assunti che rompono con la stragrande eredità filosofica Occidentale cartesiana che vedeva il soggetto come un’individualità auto-fondata, al netto della relazione col mondo che spesso e volentieri pareva ingannevole. Sotto un certo punto di vista noi crediamo che controbilanciando lo squilibrio di identità e alterità in Heidegger, Nancy finisca per tirare troppo la corda verso la relazionalità: se in Heidegger l’alterità era equivoca, in Nancy è l’identità a trovarsi in ambiguità.
Oltre la linea
Per concludere, vogliamo rimettere insieme i pezzi e capire quali opportunità di indagine ci lascino, anche a fronte dei dibattiti contemporanei. Nancy e Heidegger supportano visioni dell’identità e alterità diverse: se per il primo il senso dell’essere si parcellizza nella relazione che dunque diventa la forma dell’autentico, per il secondo l’alterità è un inciampo dell’impersonalità. Allacciare queste due matrici identifica la complessità del problema: è davvero difficile indagare nelle maglie della questione senza ricamare troppo per l’una o l’altra parte. Come sentiamo di realizzarci: avendo l’altro come opportunità di progetto oppure essendo noi il progetto di noi stessi?
È una domanda importante: come interpretiamo il nostro essere-nel-mondo, a che pro agiamo e per quale motivo persistiamo nell’esistere? Da tutto questo dipende pure la nostra disposizione nei confronti di chi ci sta accanto, e la nostra idea, come ormai pensiamo sia chiaro, è che la relazione sia un’inestimabile chance di potenziamento. Quindi, rispetto alle due proposte che abbiamo visto, noi siamo di un parere più moderato: l’altro è una chance importante per l’individuazione personale se mantiene una soggettività sostanziale. Leggendola con Nancy è difficile arrivare alla stessa conclusione, specie assumendo un senso già realizzato che noi ci limitiamo a esporre. Dovremmo quindi ammettere che ogni parcellizzazione dell’essere possa identificarsi a sé ma, se così fosse, si contraddirebbe un essere già realizzato poiché le sue parti non lo sarebbero. A ogni modo vogliamo ragionare oltre la linea delle metafisiche in un panorama di indagine che tocca, impatta, accarezza, attraversa, sfiora, tange, tasta l’irresistibile intrecciarsi degli individui quando abbottonano una relazione.
Ci sembra ovvio: perché l’altro sia un’occasione è importante che mantenga le sue proprietà costitutive, la sua identità e la sua personalità. Questo da una parte implica che non diffidi degli altri e dall’altra che non senta il senso come già dato. L’individuazione è un viaggio che parte dallo scarto ontologico tra quello che siamo e ciò che potremmo essere[50], come un continuo processo di individuazione che presuppone un senso da cercare e in cui sperare. In un certo qual modo noi siamo il senso, ma non certo pienamente: manchiamo di quel qualcosa che ci faccia sentire soddisfatti di essere noi stessi, e questo qualcosa lo si può trovare nell’insostituibilità altrui. È un ragionamento empirico al massimo: nei rapporti, di qualsiasi natura essi siano, aneliamo a una sorta di insostituibilità. Vogliamo solidificarci tanto che l’altro si immerga nella nostra intimità, scorgendone al contempo le incrinature e le stabilità, cosa possibile se c’è un senso ancora da compiere e per cui progettare. Nonché è possibile solo e soltanto se né ci si spersonalizza nel Si e né ci si pensa interamente sensati. Noi proponiamo allora, di nuovo, una visione ontologicamente mediana tra il progettualismo di Heidegger e la co-ontologia di Nancy: né bisogna dimenticare la presenza dell’altro o superarla per individuarsi, né si deve ritenere il senso già dato nella relazione. Il senso lo facciamo lentamente, passo per passo, nell’inarrestabile scorrere degli “eventi” (Ereignisse) della nostra esistenza. La relazione tra identità e alterità dovremmo vederla come una specie di sinfonia da armonizzare con calma, strada facendo, mano a mano che l’intimità di ognuno emerge e ne evidenzia l’intrinseca insostituibilità.
Sono discussioni pervasivamente presenti nel dibattito contemporaneo. Il tema dell’interpersonalità, nonché del riconoscimento, ha sempre animato la discussione filosofica ma soprattutto oggi, al tempo della globalizzazione, tocca da vicino lo statuto della soggettività. Infatti, in quello che è stato definito il momento storico dell’interdipendenza[51], comprendere che cosa ne vada della relazione soggetto-alterità è fondamentale perché vivano un rapporto sano. L’urgenza della questione è evidenziata da una moltitudine considerevole di lavori trasversali, che navigano non solo nelle acque filosofiche ma anche verso la psicologia sociale e la sociologia. Prima fra tutte, la continua levigazione baumaniana del concetto di società liquida, che possiamo intendere come una lettura sociologica degli argomenti che finora abbiamo affrontato. Per un’altra occasione, sarebbe davvero interessante approfondire le coincidenze tra l’analitica della quotidianità heideggeriana e la liquidità di Bauman: la chiacchiera, la curiosità e l’equivoco, che costituiscono l’impersonalità del Si, trovano sicuramente una congiunzione con la diagnosi baumaniana.
Ancora, rimanendo sul terreno eminentemente filosofico, la questione del riconoscimento viene presa di petto da Honneth che, confrontandosi non solo con Heidegger ma anche e soprattutto con Gadamer, cerca di venire a capo del dilemma della soggettività interpersonale. La linea teoretica di Honneth è a un tempo ermeneutica e ontologica: se da un lato ricostruisce l’intersoggettività da Gadamer, dove gli risulta evidente l’influenza heideggeriana del Mitwelt[52], dall’altro ricostruisce il dibattito del riconoscimento in The I in We.
Sulla medesima linea d’onda, non è possibile trascurare Ricœur e Lévinas. Sotto più punti di vista, le loro posizioni sono interconnettibili: se per il primo l’alterità è intelaiata nel tessuto strutturale del soggetto, e il fuoco del loro rapporto si gioca nel fatto di raccontarsi l’un l’altro, per il secondo è importante partire dal “volto” come configurazione della propria identità agli altri, la cui fioritura deve basarsi sulle intrinseche caratteristiche di ognuno.
Recentissima è la critica di De Vecchi alle ontologie sociali di matrice analitica, secondo cui il soggetto è una sostanza predeterminata del tutto impermeabile[53]. L’approccio di De Vecchi risulta particolarmente originale per svariate ragioni, prima fra tutte poiché propone un nuovo approccio, denominato ontologico-qualitativo. Bisogna specificare come se da una parte De Vecchi affronta nel profondo il dilemma dell’intersoggettività, dall’altra adotta bisturi lontani da quelli heideggeriani o di Nancy. Le radici del suo approccio, infatti, affondano nella fenomenologia più tipicamente husserliana o scheleriana, dove il fuoco delle investigazioni sta nel soggetto inteso come centro propulsore di intenzionalità. Soprattutto per questo, il suo lavoro è imbevuto di un lessico concettuale ben diverso da quello pregnantemente ontologico di Heidegger e Nancy. Ciononostante, gli obiettivi teoretici sono molto simili: venire a capo del complicato intreccio che interconnette soggettività e alterità.
Evidenziare tutte queste suggestioni ci aiuta non solo a capirne la portata, ma anche l’impellenza: nell’epoca delle interconnessioni, dove il concetto di fare relazione è rimodellato dalla socialità virtuale, è vitale capire che cosa ne vada del soggetto e dell’altro perché vigano dei rapporti sani.
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[1]D’ora in avanti: SuZ.
[2]Heidegger, Martin. Essere e tempo, 24. Milano: Longanesi, 1971.
[3]Heidegger, 24.
[4]Heidegger, 89…
[5]Heidegger, 148…
[6]Heidegger, 157…
[7]Heidegger, 311…
[8]Heidegger, 148…
[9]Heidegger, 151-152.
[10]Heidegger, 152.
[11]Heidegger, 89…
[12]Heidegger, 152…
[13]Heidegger, 234 sgg.
[14]Heidegger, 235.
[15]Heidegger, 167 sgg.
[16]Heidegger, 24 sgg.
[17]Heidegger, Martin. Was ist Metaphysik? Francoforte: Vittorio Klostermann, 1976. Edizione Italiana: Heidegger, Martin, Franco Volpi, cur., Che cos’è metafisica? Milano: Adelphi, 2001. Qui Heidegger riadatta i paradigmi fondamentali dell’analitica esistenziale (l’essere-nel-mondo, l’essere-per-la-morte, il nulla e la rilucenza) a una nuova indagine, quella sulla metafisica. Si parte da una importante domanda di senso: che cos’è metafisica? La ricerca si articola secondo una impostazione sostanzialmente simile a quella dell’analitica esistenziale di SuZ: all’essere come tale si perviene tenendo conto di quel Niente (Nichts) che pure intrinsecamente lo interessa.
[18]Heidegger, Essere e tempo,205.
[19]Heidegger, 205.
[20]Heidegger, 160.
[21]Heidegger, 159.
[22]Heidegger, 206.
[23]Heidegger, 197…
[24]Heidegger, 206-207.
[25]Heidegger, 207.
[26]Heidegger, 207.
[27]Heidegger, 207-208.
[28]Heidegger, Martin, Ingeborg, Schüßler, cur., Platon: Sophites. Francoforte: Vittorio Klostermann, 1992. Edizione Italiana: Heidegger, Martin, Nicola, Curcio, cur., Alfonso, Cariolato, Enrico, Fongaro e Nicola, Curcio, trad. it., Il «Sofista» di Platone. Milano: Adelphi, 2013. Tutta la prima parte di questo lavoro – di tre anni precedente a SuZ – è dedicata a un’analisi dell’ἀλήθεια. Fin da subito viene chiarito come si tratti di uno specifico modo di emersione delle cose: l’ἀλήθεια è propria di colui che, disposto per una visione giusta, porta l’essere proprio delle cose a esibirsi – “L’ἀλήθεια è un peculiare carattere ontologico dell’ente, in quanto l’ente è in relazione con un certo rivolgergli lo sguardo, con un aprirsi […] all’ente e nell’ente, con un conoscere” (Heidegger, Il «Sofista» di Platone, 62).
[29]Heidegger, Essere e tempo, 208.
[30]Heidegger, 208.
[31]Heidegger, 208.
[32]Heidegger, 211.
[33]Heidegger, 211.
[34]Heidegger, 212.
[35]Heidegger, 212.
[36]Heidegger, 212-213.
[37]Heidegger, 213-214.
[38]Heidegger, 214.
[39]Nancy, Jean-Luc. Être singulier pluriel. Parigi: Éditions Galilée, 1996. Edizione Italiana: Nancy, Jean-Luc, Tarizzo, Davide, Durante Graziella, trad. it., Essere singolare plurale, 103-108. Torino: Einaudi, 2020.
[40]Nancy, Jean-Luc. 18.
[41]Nancy, 6.
[42]Nancy, 7.
[43]Nancy, 8.
[44]Nancy, 21-22.
[45] Nancy, 9-14.
[46]Nancy, 11.
[47]Nancy, 12.
[48]Nancy, 41.
[49]Nancy, 8.
[50]Sull’argomento, sono illuminanti le considerazioni avanzate da Sartre ne L’Être et le Néant (Parigi: Éditions Gallimard, 1943. Edizione Italiana: Sartre, Jean-Paul, Del Bo, Giuseppe, trad. it., L’essere e il nulla. Milano: Il Saggiatore, 2014) dove si dice che la spinta all’azione sia di natura prevalentemente ontologica. Gli atti che compiamo mirano a determinarci in quanto individui fondati (in-sé) perché, costitutivamente, manchiamo una presa vera e propria di noi stessi. In altri termini siamo sostanzialmente sostenuti dal Nulla che, per tutte queste cose, diventa una spinta all’azione: l’identità è sballottata tra la mancanza ontologica e l’azione. Ogni atto è quindi una specie di tentativo di solidificazione di quel che siamo, nella speranza che ci identifichi una volta per tutte.
[51]Martinelli, Alberto. La democrazia globale. Mercati, movimenti, governi. Milano: EGEA/Università Bocconi Editore, 2008
[52]Honneth, Axel. «On the Destructive Power of the Third». Philosophy & Social Criticism. SAGE Publications, gennaio 2003. doi:10.1177/0191453703029001830.
[53]De Vecchi, Francesca. La società in persona. Ontologia sociale qualitativa. Bologna: Il Mulino, 2022.