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Recensione di Luigi Somma, Università degli Studi di Salerno.
ORCID ID: 0009-0006-1236-3484
E-mail: lsomma@unisa.it
doi: 10.14672/VDS20242RE1
(https://doi.org/10.14672/VDS20242RE1)
Titolo: L’avventura del Metodo. Come la vita ha nutrito l’opera
Autore: Edgar Morin
Formato: 22.6 x 2.2 x 14 cm, p. 160
Editore: Raffaello Cortina Editore, Milano 2023
È nell’incontro tra vita e opera, nell’intreccio complesso, e le sue “ramificazioni ricorsive”, tra vita e pensiero che Edgar Morin pone le basi per il suo Metodo, frutto di una lenta e faticosa gestazione durata circa trent’anni; all’interno della quale si può collocare il suo tentativo di liberare la Complessità dalle secche del paradigma riduzionista e semplificatore, quale risultato di un sistema educativo che, fedelmente alla concezione cartesiana, ci insegna a riconoscere nella chiarezza e nella distinzione gli elementi di discrimine e di validazione di qualsivoglia percezione o descrizione del reale. Ancor prima dell’elaborazione del Metodo, Morin aveva già dato pieno accoglimento alla sfida della Complessità[1], giungendo alle radici di quel sentire comune che usava attribuire a ciò che era Complesso i significati arduo, spinoso, confuso e inestricabile:
la parola complessità, nel suo uso banale, significa tutt’al più non è semplice, non è chiaro, non è né bianco né nero[2].
Comprendere come il pensiero possa germinare l’opera significa non soltanto cogliere nelle note autobiografiche di una vita le tappe fondamentali dei rivolgimenti e travalicamenti del suo pensiero, ma anche cogliere niccianamente quel legame inscindibile che fa del pensiero una “struttura mobile” della vita, del suo incessante e caotico divenire (physis):
Da allora la mia vita e la mia opera divennero inseparabili, giacché la mia vita nutriva la mia opera e di rimando la mia opera nutriva la mia vita[3].
Ricostruire le traiettorie dell’opera composita ed eterogenea di Edgar Morin è un compito assai arduo, e tale saggio intende, a mio avviso, tutt’al più contrassegnarne lo spirito in esse operante.
Il “cammino” verso l’elaborazione del metodo è l’esito ultimo di un’interrogazione radicale sul metodo stesso, sui principi e le “metodologie” attraverso le quali regoliamo le nostre conoscenze.
«Abbiamo bisogno di un metodo di conoscenza che traduca la complessità del reale»[4], ossia riconoscere come il modo di pensare dominante fosse regolato da paradigmi mediante i quali organizziamo la nostra conoscenza: i principi d’ordine, di separazione, di riduzione e il carattere assoluto della logica deduttivo-identitaria (i quattro pilastri di certezza).
Se il principio di riduzione «tende a ricondurre il conoscibile a ciò che è misurabile», a ciò che è determinabile mediante quantità misurabili e quindi formalizzabile e riproducibile; dall’altra, il principio di separazione astrae un elemento dal suo contesto, obliterando le (retro)interazioni e le interconnessioni con il suo ambiente, separando ciò che non è separato, eludendo le contraddizioni apparentemente inconciliabili interne ai fenomeni, infine obliterando ciecamente quanto non sia riconducibile a leggi generali, a principi d’ordine e ad un carattere rigidamente deterministico.
La difficoltà insita nel cammino del metodo risiede “nella ricerca stessa di un cammino”, nel rendere conto del processo auto-illusorio (self-deception) con cui erigiamo le basi di un falso sapere, della menzogna insita nell’atto di conoscenza della (propria) realtà. In tal modo, Morin introduce l’idea dell’auto-osservazione e dell’auto-conoscenza, enunciando che “ogni osservatore dovrebbe integrarsi nella sua osservazione e ogni attore osservarsi nella sua azione”[5]. È nella lotta contro “la maschera della pseudo-oggettività” che si traduce morinianamente l’introduzione di uno sguardo soggettivo sulla realtà dei fenomeni; diviene importante nel Metodo riconoscere il ruolo attivo del soggetto/osservatore nell’atto di costruzione della realtà; tuttavia, ciò richiede non soltanto una conoscenza della complessità della realtà, bensì un’operazione individuale di autoverifica delle proprie convinzioni (illusioni), una lotta costante contro la self-deception, contro le proprie menzogne, alle fondamenta delle proprie possibilità di conoscenza. Ed è soltanto tramite questo lavoro di scavo interiore che è possibile giungere ad una Conoscenza Complessa, cioè ad una conoscenza (una conoscenza della conoscenza/una epistemologia della epistemologia) che torni a riflettere sui propri principi di conoscenza, per poter cogliere la trama complessa della realtà, conoscendone non soltanto i singoli fili dell’arazzo nella loro separatezza, e nemmeno il disegno complessivo che essi compongono, ma la profonda interconnessione esistente tra la trama totale e le sue singole parti, così come la (inter-retro)relazione esistente tra le parti stesse. Giacché tale inter(retro)relazione tra le sue parti può produrre proprietà emergenti, definendo il ciclo di feedback mediante il quale esse tornano a retroagire sulla stessa. È la metafora del baniano, i cui «ramoscelli cadendo a terra, si trasformano in nuove radici che trasformano i rami in nuovi tronchi»[6]. Quale simbolo del ciclo ricorsivo inerente ai processi complessi, i cui “prodotti divengono produttori di ciò che li produce”[7]. Osserviamo emergere la nozione di sistema complesso, banalmente tradotto dalla teoria sociale come l’organizzazione di parti differenti in un tutto, a cui Morin aggiunge il concetto di auto(eco)organizzazione: ciascun sistema determina la propria autonomia soltanto in co-dipendenza con il proprio ambiente, poiché è da esso che trae l’energia (ossia informazioni, energie fisiche e biologiche) necessaria a garantirne il funzionamento. Soltanto i sistemi complessi viventi sono in grado incessantemente di auto-organizzarsi spontaneamente, di stabilire un tale rapporto di co-dipendenza con il proprio ambiente. Bisogna anche precisare come Francis Varela e Humberto Maturana abbiano elaborato una propria concezione di sistema, che presenta alcune caratteristiche parzialmente analoghe. Essi in “Autopoiesi e cognizione La realizzazione del vivente”[8] indicano nella nozione di autopoiesi un sistema autoreferenziale che produce e riproduce gli stessi elementi di cui è costituito. Sono sistemi capaci, pertanto, di auto-organizzarsi, che si caratterizzano quali entità sistemiche dotate della proprietà dell’autonomia. In tal senso, la nicchia è frutto di una selezione operata dall’osservatore nell’ambiente, nel quale è definita la classe di interazione nel quale esso può entrare:
L’osservatore guarda simultaneamente l’organismo e l’ambiente e considera come nicchia quella parte dell’ambiente che egli osserva trovarsi nel suo dominio di interazioni[9].
Quindi, in definitiva, se per l’osservatore la nicchia costituisce comunque parte dell’ambiente, per il sistema osservato essa è l’intera realtà cognitiva. Ciò sta a significare che la nicchia non può essere definita indipendentemente dal sistema che la specifica. È evidente che soltanto un’unità complessa, o anche composita, possiede una struttura e un’organizzazione:
mentre due unità semplici interagiscono mediante le semplici influenze reciproche delle loro proprietà, due unità composite interagiscono in maniera determinata dalla loro organizzazione e struttura mediante le influenze reciproche delle proprietà dei suoi componenti[10].
In maniera similare, ma con un sentimento di maggiore apertura all’esterno, all’altro, alla rielanza[11], Morin scrive che
ogni auto-eco-organizzazione vivente comporta un computo: una computazione di sé per sé dei processi interni all’organismo, da una parte, dei dati e degli avvenimenti esterni dall’altra. Ogni essere vivente, dagli organismi monocellulari alla sequoia e all’essere umano, si autoafferma ponendosi al centro del mondo […] lo condurrebbe però all’egoismo stretto se non esistesse in ogni soggetto vivente anche un bisogno di rielanza, al suo simile, di integrazione in una comunità, in un noi[12].
Egli inscrive, inoltre, tale processo nella triade disordine/ordine/organizzazione, enfatizzando come da stati caotici ed entropici possano sorgere nuove forme d’ordine, e, quindi di “organizzazione complessa”, quale processo ininterrottamente ricorsivo e genesico:
Ho capito radicalmente che tutto ciò che non reca il segno del disordine elimina l’esistenza, l’essere, la creazione, la vita, la libertà, e ho capito che ogni eliminazione dell’essere, dell’esistenza, del sé, della creazione è demenza razionalizzatrice. Ho capito che l’ordine da solo è soltanto un bulldozer, che l’organizzazione senza disordine è l’asservimento assoluto. Ho capito che occorre temere non il disordine ma il timore del disordine[13].
D’altra parte, il riconoscimento della complessità del reale, dei suoi processi e fenomeni è strettamente connesso ad una rieducazione al pensiero complesso, ossia posto in termini moriniani, ad una “riforma del pensiero”.
A tal proposito, Morin prospetta il ritorno ad un “Umanesimo rigenerato”:
non abbiamo bisogno di un nuovo umanesimo rigenerato, abbiamo bisogno di un umanesimo tornato alle origini e rigenerato[14].
È, dunque, necessario porci oltre le separazioni dicotomiche sulle quali, da Descartes a seguire, si è fondata la cultura occidentale; pensare, ad esempio, oltre la separazione tra natura e cultura, laddove v’è un certo umanesimo che si rivolge all’uomo come un essere divinizzato, destinato al dominio della natura (homo sapiens/faber/oeconomicus). Se da una parte, le scienze umanistiche concepiscono esclusivamente “l’uomo culturale” e dall’altra quelle scientifiche quello “biologico”, è soltanto attingendo ad una “conoscenza globale dell’umano” che si potrà afferrarlo nella sua intrinseca complessità. Ne Il paradigma perduto e ne L’identità umana, si muove il tentativo di Morin di restituire una definizione dell’umano, procedendo oltre le sue separazioni, nella sua “santa trinità”: esso è nel contempo individuo singolare, appartenente alla specie umana e membro della società. È nella co-dipendenza e inter-correlazione tra di esse, e nella comunità di destino che le riassume tutte che si rivolge un nuovo ipotetico umanesimo. Come possiamo disconoscere, così come è posta da Morin, la molteplice natura dell’essere umano, dell’Homo complexus? Dal momento che esso è, nel contempo, homo sapiens e homo demens; ragione e follia; Homo oeconomicus e Homo ludens, ed è soltanto nella comprensione della polarità tra gli opposti, della contraddizione intrinseca che lo attraversa, che possiamo attivare un processo dialettico che ponga in comunicazione reciproca le due polarità della ragione calcolante e del pensiero delirante; poiché è soltanto nella “ragione emotiva”, nel riconoscimento di una ragione capace di riattivare il centro delle emozioni, nel cerchio aperto che li dialettizza, che possiamo ritrovare la realtà profonda dell’umano. «L’umanesimo rigenerato è essenzialmente un umanesimo planetario[15]», in grado di concepire l’essere umano, al di fuori degli abiti dell’homo faber, l’uomo della tecnica, allo scopo di non assoggettare il destino dell’umanità ad una concezione tecno-deterministica del progresso, e, pertanto, di riconoscere nell’umano l’importanza antropologica dell’immaginario e del mito; infine, di riconoscere l’essere umano quale parte di un unico destino planetario, di un unico ecosistema complesso, nel quale esso opera ed operato.
Fare ricorso ad una tale “ragione sensibile, aperta e complessa” significa, per Morin, “rivitalizzare la solidarietà e la responsabilità per prolungare l’ominizzazione in umanizzazione”, infrangere la barriera degli individualismi, far sorgere l’io in senso alla comunità e a un Noi universalistico.
In conclusione, si può iscrivere al cuore della ricerca moriniana di un metodo (di conoscenza) la “crisi della ragione”; abbiamo assistito, difatti, al consolidarsi di “razionalizzazioni” chiuse, così anche l’urbanizzazione, la burocratizzazione e la tecnologizzazione si sono realizzate mediante il ricorso alle regole e i principi della razionalizzazione. Quando la razionalità si costituisce quale razionalismo sancisce il suo assolutismo; essa, cioè, pretende di piegare la realtà ai suoi principi, alle sue regole, fondando un ordine per nulla fondato sulla realtà: “la ragione diventa il grande mito unificatore del sapere, dell’etica e della politica”. Si comprende come ciò abbia posto le condizioni per l’obliterazione di una grande porzione della realtà, e, proprio a quelle dimensioni complesse della stessa, che ineriscono al soggettivo, al caso, al disordine, alla contraddizione, ora relegate al piano del non razionalizzabile. A essa, Edgar Morin, suggellando la sua contraddizione interiore tra scetticismo e volontà di verità, poi tradotta nel Metodo, contrappone una razionalità (complessa) aperta; ossia una ragione che, abbandonando un “modello di ordine” in favore di un “modello di organizzazione (che leghi insieme ordine e disordine), sappia riconoscere i propri limiti e combattere i mostri interiori delle illusioni, che, infine non si lasci “possedere” dalle proprie idee, divenendo invece una “ragione dialettica vivente”, in grado di ristabilire una dialettica “aperta” tra razionale e reale, che non determini, in definitiva, un dominio assoluto della ragione su di esso.
[1]Morin, Edgar. La sfida della Complessità, Firenze: Le Lettere, 2017.
[2]Morin, 27.
[3]Morin, Edgar e Francesco Bellusci, cur. L’avventura del Metodo. Come la vita ha nutrito l’opera. Milano: Raffaello Cortina Editore, 2023, 67.
[4]Morin, 43.
[5]Morin, 48.
[6]Morin, 47.
[7]Morin, 47.
[8]Vedere nota successiva.
[9]Maturana, Humberto R. e Francisco J. Varela. Autopoiesi e cognizione: La Realizzazione del Vivente. Milano: Raffaello Cortina editore, 2001, 56.
[10]Maturana, Humberto R. e Francisco J. Varela, 34.
[11]Morin ha coniato il termine rielanza come unione di due parole francesi: relier (unione) e alliance (alleanza).
[12]Morin, Edgar e Francesco Bellusci, cur. L’avventura del Metodo. Come la vita ha nutrito l’opera. Milano: Raffaello Cortina 2023, 79.
[13]Morin, Edgar. Il Metodo. 1. La natura della natura, 450.
[14]Morin, Edgar. L’avventura del Metodo. Come la vita ha nutrito l’opera (edizione italiana a cura di Francesco Bellusci), Milano: Raffaello Cortina, 2023, 89.
[15]Morin, 114.