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Recensione di Stefania Lombardi, Università europea di Roma
E-mail: stefania.lombardi@cnr.it
doi: 10.14672/VDS20242RE4
(https://doi.org/10.14672/VDS20242RE4)
Titolo: La comunità dei viventi
Autore: Idolo Hoxhvogli
Formato: 11.9 x 1.5 x 20 cm, p. 58
Editore: Editrice Clinamen, Firenze 2023
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Nota introduttiva: quella che segue non è propriamente una recensione con parti di dialogo ragionato sull’opera. Si tratta, più che altro, di consigli di lettura riguardo pubblicazioni molto particolari che, tra i vari spunti che possono offrire, si configurano anche come esempi dei temi dell’attuale bando della rivista che s’interroga fra riconoscimento e misconoscimento.
La morfologia, in quanto discorso sulle forme, è il principio di una filosofia dello spazio urbano. I profili architettonici, l’intreccio delle vie, le configurazioni fenomeniche degli edifici soni figure della possibilità. La costruzione è preceduta dal desiderio, strutturato in discorsi che parlano il parlante prima che il parlante parli. La città, nella sua concretezza, abita un ordine simbolico precedente allo sviluppo fenotipico. Per la filosofia dell’urbanistica sono imprescindibili l’archeologia delle convinzioni, la narratologia, l’ingegneria delle identità migranti (citazione dal libro).
Breve e intenso è “La comunità dei viventi” di Idolo Hoxhovogli che riprende, inconsapevolmente (e per questo ancora più notevole e prezioso), alcuni temi già tracciati dal filosofo Mario Guarna in “Il vivente. Ciò che Gesù non rivela, Tommaso non lo nasconde” con una splendida prefazione di Riccardo Roni.
Se in quella prefazione Roni parla del libro come una Spoon River dell’immanenza e che mira alla trascendenza, qui, come in uno specchio ribaltato, si potrebbe parlare di una Spoon River della trascendenza che cerca la salvezza nell’immanenza ma senza trovarla e senza smettere, tuttavia, di cercare, come è l’essenza stessa del filosofare più autentico.
Come in Antichrist di Lars von Trier abbiamo, qui, delle figure simboliche e archetipe. Sappiamo che in Antichrist il corvo è la morte, il cervo il dolore, e la volpe la disperazione.
In questo saggio di Hoxhovogli ci sono, invece, le figure simbolo e archetipo della libertà rappresentate dall’anarca, l’incognita, il mistero, l’animale.
Attraverso massime e aforismi, come se ci trovassimo dinanzi allo Zarathustra di Nietzsche, l’autore svela, poco alla volta, il suo pensiero, centellinato come in un percorso di formazione e di consapevolezza dove si giunge per gradi, perché “ciò che è profondo ama la maschera”, come direbbe Reale lettore di Platone.
Qui le voci sono plurali e non singolari perché l’essenza è consegnata a una pluralità.
Visionario e innovativo, questo saggio ci mette dinanzi a scelte, non scelte, possibilità, regno dei morti e critica (heideggeriana?) alla tecnocrazia, dove, nascosta e quasi impercettibile, resta sempre quella speranza che caratterizza la comunità dei viventi e il suo futuro.
Più che un saggio, ci troviamo dinanzi a un manuale per meditare e cercare degli indizi quando ci troviamo in situazioni apparentemente senza via d’uscita.
Perché una scelta c’è sempre e tutto inizia con una scelta, sbagliata, e può concludersi con un altro tipo di scelta. E, come sostiene l’autore, con la scrittura si può convertire l’essenza.