Guardarsi allo specchio e non riconoscersi. Il problema dei governi occidentali di fronte allo scempio dei diritti umani rivelato da Assange
Sara Chessa, Bridges for Media Freedom
E-mail: sara.chessa@protonmail.com
doi: 10.14672/VDS20242ED7
(https://doi.org/10.14672/VDS20242ED7)
Se Michele Serra[1], Stefano Feltri[2] e altri profili dell’olimpo opinionista italiano che hanno di recente sminuito la gravità della persecuzione contro Assange potessero vedersi con gli occhi di chi conosce in modo approfondito il caso, probabilmente non uscirebbero di casa fino al completo oblio, nella memoria generale, delle loro dichiarazioni.
Non si può che provare compassione, tuttavia, per queste figure, che dovrebbero comprendere la funzione del giornalismo investigativo in seno a una democrazia e mostrano, invece, di non averne contezza. Altre figure, ben più autorevoli in materia di diritti umani, sono state inizialmente sviate dalla campagna diffamatoria portata avanti dopo il 2010 contro il giornalista Julian Assange; si può dunque immaginare che fosse ancora più facile non avere scampo per individui che hanno livelli più bassi di conoscenza del diritto. Per fare un esempio, l’azione denigratoria contro Assange è stata talmente violenta e subdola che anche un Relatore Onu come Nils Melzer – uno dei massimi esperti di tortura al mondo – ha ammesso di essere stato completamente sopraffatto da essa. Prima di scrivere il libro[3] “Il processo a Julian Assange. Storia di una persecuzione”, Nils Melzer è stato vittima dell’opera sopraffina di governi e grandi media volta a farci scordare totalmente del lavoro giornalistico di Julian Assange, a portare la società civile a non riconoscerlo più, a non vedere più la caratteristica che sopra ogni altra lo contraddistingue: il suo porsi al servizio del diritto alla conoscenza del pubblico. Per portarci a questo “azzeramento del riconoscimento”, è stato usato ogni tipo di mezzo, con un denominatore comune: la menzogna, come vedremo.
Assange. Non un mancato riconoscimento ma una eradicazione del riconoscimento già avvenuto
Il riconoscimento di Assange come espressione per eccellenza del giornalismo investigativo era avvenuto immediatamente dopo le sue pubblicazioni del 2010; si è trattato, perciò – per quei poteri che si sono ritrovati imbarazzati dalle rivelazioni di interesse pubblico da lui operate – di portare avanti un tentativo di distruzione della consapevolezza dei cittadini circa il suo lavoro. I premi e i riconoscimenti per il lavoro giornalistico dell’organizzazione mediatica di cui Assange era editore, WikiLeaks, erano giunti da ogni dove, accompagnati da inviti a intervenire come oratore presso organi e assemblee dell’Unione Europea[4] e delle Nazioni Unite[5]. Tutto ciò per aver squarciato la fitta nebbia della propaganda costruita attorno alle guerre in Iraq e Afghanistan, rivelando che quelle invasioni – e occupazioni – di paesi stranieri non erano “esportazione di democrazia”, come la narrativa dell’epoca recitava, ma serie sistematiche e quotidiane di violazioni dei diritti umani dei civili, violazioni che rappresentavano esattamente l’opposto dei principi posti a fondamento della democrazia.
Il mondo, dunque, vedeva e riconosceva Assange. Grazie ai diari di guerra afghani e iracheni pubblicati da WikiLeaks e dai suoi media partner, la società civile di tutto il mondo era stata informata dell’esistenza di un vero e proprio sistema basato sul disprezzo della vita umana e sull’indifferenza cinica verso il dolore dell’altro. Gli arresti extragiudiziali, le torture inflitte ai civili nelle carceri, le uccisioni basate sul principio del “prima spara, poi verifica se la persona è una minaccia” erano la normalità, in Iraq. Nel libro «WikiLeaks Files», c’è un saggio[6] di Dahr Jamail che racconta la storia di Alì Abbas, un uomo iracheno che vide sparire uno dopo l’altro tutti i suoi vicini di casa. Provò diverse volte a trovare la ragione delle tantissime detenzioni immotivate di cui aveva notizia. La quarta volta in cui si recò a chiedere informazioni, venne lui stesso arrestato e incanalato in un percorso di tortura giornaliera. Gli strumenti utilizzati? Simulazioni di esecuzioni, botte, attacchi con cani feroci, privazione di acqua e cibo, minacce di morte. Era un episodio isolato? No, i documenti ricevuti, verificati, redatti e pubblicati da WikiLeaks mostrano che quella era la realtà quotidiana all’interno della guerra in questione. Alì Abbas era in grado di testimoniare che si trattava di un sistema organizzato, in cui ogni soldato era perfettamente cosciente di quanto accadeva. Il dolore fisico e lo stress emotivo a cui i civili incarcerati venivano sottoposti erano incalcolabili. Si trattava del carcere di Abu Ghraib, del quale senza le pubblicazioni di WikiLeaks non avremmo saputo nulla.
Questo è solo un esempio delle centinaia di luoghi e situazioni in cui lo scardinamento completo del sistema dei diritti umani aveva luogo durante l’invasione e l’occupazione di Iraq e Afghanistan. Ecco, dunque, perché Assange era “riconosciuto”: perché svolse la funzione essenziale che è storicamente assegnata al giornalismo investigativo nelle democrazie: rendere i cittadini consapevoli di ciò che realmente – oltre la propaganda di ogni colore – i governi fanno. Permettere, cioè, ai cittadini, di comprendere se i governi stiano perseguendo l’interesse pubblico o se, al loro interno, vi siano elementi che si sono venduti a portatori d’interessi particolari, come, per esempio, il complesso militare- industriale o altre realtà economiche moralmente capaci di attribuire alla ricerca di profitti una priorità maggiore rispetto allo sviluppo armonico dell’essere umano.
L’Occidente che non riconosce sé stesso di fronte a uno specchio impietoso
La prima mossa portata avanti dal governo degli Stati Uniti, imbarazzato dopo lo smascheramento del vero volto dell’invasione di Afghanistan e Iraq, fu quella di esortare gli alleati[7] affinché verificassero la presenza, nei loro ordinamenti, di norme che potessero permettere una incriminazione di Assange. Questo è un punto chiave. Non si tratta soltanto di osservare che si è prodotto accanimento contro un giornalista che ha agito da rivelatore di gravissimi episodi di criminalità statale, ma del fatto che i responsabili delle torture e delle violazioni dei diritti umani in Iraq e Afghanistan, identificabili grazie ai documenti pubblicati da WikiLeaks, non ricevono l’attenzione che avrebbero meritato, non vengono perseguiti come sarebbe interesse dei cittadini che avvenisse. Ci si dirige, invece, verso l’operatore dell’informazione che ha permesso al pubblico di ottenere verità su quanto i valori democratici, in teoria difesi attraverso le guerre, venissero invece, attraverso queste ultime, calpestati.
In altre parole, non ci si guarda allo specchio. Il governo americano si rifiuta di vedere riflessa un’immagine che non corrisponde alla propaganda proposta ai propri cittadini e a quelli di tutto il mondo. Non ringrazia il giornalismo investigativo per averlo aiutato a individuare, nella macchina statale e militare, quelle figure che si muovono in totale antitesi rispetto ai diritti non negoziabili dell’essere umano. Tuttavia, se non si prende atto della realtà – di aver fatto scempio dei valori che si afferma, a parole, di difendere – è impossibile immaginare e costruire un futuro differente.
Si arriva così a un paradosso: la società civile mondiale ha potuto vedere cosa contenga il vaso di Pandora delle guerre, il governo americano e molti cosiddetti governi alleati chiudono invece gli occhi di fronte alla sopra menzionata immagine riflessa nello specchio. I cittadini sono meno propensi ad accettare le guerre – chi può esserlo, dopo aver visto quali atrocità contengano nella loro realtà ordinaria? – i governi, invece, cercano di riportare indietro il tempo: incapaci di farsi rappresentanti degli interessi dei propri cittadini, prendono invece a seguire quelli del complesso militare- industriale, cercando di tornare indietro ad una situazione in cui le guerre siano viste da tutti come “necessarie”. Come lo fanno? Tirano fuori dal cilindro il concetto di sicurezza nazionale e si comportano come se il giornalismo investigativo non fosse chiamato a indagare anche tale settore. “Assange e WikiLeaks, pubblicando quei documenti classificati, hanno messo in pericolo la sicurezza nazionale”, dicono. “In particolare, hanno messo a rischio la vita degli informatori degli Stati Uniti in Iraq e Afghanistan”, aggiungono. Peccato che, in oltre dieci anni, dal 2010 al 2024, non abbiano saputo portare un solo caso verificato di persona che abbia perso la vita a causa dei documenti rilasciati da WikiLeaks.
La sicurezza nazionale diventa quindi “scusa” ufficiale per procedere al mancato riconoscimento del volto dell’Occidente allo specchio, per dribblare l’esame di coscienza che avrebbe permesso, potenzialmente, un nuovo inizio. Non riconoscendo quel volto, macchiato dalle atrocità commesse contro i civili afghani e iracheni, il governo americano e i suoi alleati sono obbligati a “disconoscere” il giornalismo investigativo. La colpa di quest’ultimo è troppo grave: svelando la natura delle guerre dell’Occidente, ha rischiato di aprire le premesse per un futuro in cui gli strumenti della pace con mezzi pacifici avrebbero potuto ridurre i profitti dello spasmodico commercio di armi. È questa necessità di disconoscere il giornalismo di interesse pubblico che conduce alla volontà di distruggere Assange. Lo schema è quindi chiaro: 1) Non mi riconosco allo specchio; 2) disconosco uno strumento senza il quale la democrazia non esiste, il giornalismo libero; 3) disconosco chi lo ha praticato con tutto sé stesso, sapendo di mettere a rischio, servendo il diritto alla consocenza del cittadini, la propria vita.
Il disconoscimento inizia: le accuse fabbricate ricevute in Svezia
La campagna denigratoria inizia con le accuse di violenza sessuale ricevute in Svezia nel 2010, poi archiviate e definite nel 2019 “fabbricate” dal relatore indipendente Onu che ha studiato le indagini svoltesi all’epoca a riguardo. Per comprendere appieno come mai l’allora Relatore Onu sulla Tortura Nils Melzer le definisca accuse costruite, occorrerebbe leggere il suo libro, sopra menzionato[8]. Rimandando alla lettura dell’opera, spieghiamo qui che quelle accuse non andarono mai oltre il livello delle indagini preliminari. È un dato importante, perché ci dice che, nonostante alcuni media – in buona o in cattiva fede – parlassero di un Assange “imputato” per stupro, lui imputato non è mai stato. Le accuse non diventarono mai capi di imputazione. Di più: grazie alle meticolose ricerche di Melzer sappiamo che, inizialmente, le due donne coinvolte non si presentarono alla centrale di polizia per fare denuncia per stupro. Una di loro, conversando via messaggio con le proprie amicizie, disse che si era recata per chiedere che Assange facesse un test dell’HIV, ma che la polizia sembrava “non veder l’ora di mettergli le mani addosso”. Ribadendo che la storia merita di essere conosciuta per intero attraverso il libro citato, possiamo procedere ad analizzare il modo in cui si svolsero le indagini all’epoca.
Da subito, Assange affermò che si trattava di una ritorsione per la pubblicazione, da parte di WikiLeaks, dei diari di guerra. Aveva interesse a essere interrogato, voleva chiarire la propria posizione. E voleva farlo senza essere estradato in Svezia, per una ragione: perché la Svezia stessa avrebbe potuto, a sua volta, estradarlo negli Stati Uniti, dove i suoi diritti umani sarebbero stati a rischio, come è oggi ampiamente riconosciuto[9]. Non poté farlo. Ci furono tre gradi di giudizio per stabilire se l’estradizione in Svezia fosse possibile. Quando l’ultimo di questi terminò con un “sì” all’estradizione, Assange si rifugiò nell’ambasciata ecuadoriana, ma attenzione: non lo fece certo per sfuggire alle indagini. Come abbiamo detto, chiedeva di essere interrogato. La ragione per cui chiese protezione all’Ecuador risiedeva nel fatto che la Svezia si rifiutava di dare delle rassicurazioni circa il fatto che non sarebbe stato ulteriormente estradato negli Stati Uniti, dopo aver raggiunto il territorio svedese. Di fronte a questo diniego, non gli rimase altra scelta, per non rischiare trattamenti inumani negli Stati Uniti, se non quella di restare, da rifugiato, nella sede diplomatica sopra menzionata.
Nel periodo in cui il processo sull’estradizione in Svezia era in corso, i pubblici ministeri svedesi non lo interrogarono. In seguito, neppure. Solo nel 2016, dopo ben sei anni, ebbe la possibilità di rispondere alle domande di un pubblico ministero arrivato da Stoccolma. E c’è di più: sappiamo, grazie alla richiesta di accesso agli atti portata avanti dalla giornalista italiana Stefania Maurizi, che negli anni precedenti i pubblici ministeri inglesi consigliarono esplicitamente a quelli svedesi di “non interrogare” Assange. E che molta della corrispondenza che aveva riguardato la gestione di quel caso giudiziario venne cancellata, togliendo ogni traccia che avrebbe potuto permettere di comprendere se il Regno Unito si stesse comportando da stato indipendente o stesse, invece, seguendo istruzioni esterne dall’alleato d’oltre Atlantico. Cosa rileva, in questo capitolo della storia di Julian Assange, in relazione al suo riconoscimento? Ciò che rileva è esprimibile matematicamente: nove. Nove anni trascorsero dal momento in cui le accuse svedesi gli vennero rivolte a quando il Relatore Onu Melzer mostrò il carattere “costruito” delle stesse. In quegli anni, si è fatto di tutto perché Assange fosse identificato con un mostro, con un hacker narcisista, con uno stupratore. In altre parole, si è fatto di tutto perché il pubblico dimenticasse il suo lavoro giornalistico. Si è fatto di tutto per “disconoscerlo”.
Il disconoscimento prosegue: le accuse contro il suo lavoro giornalistico e i testimoni che ricostruiscono la verità
In parallelo rispetto alle accuse ricevute in Svezia, Julian Assange ha affrontato anche quelle riferite al suo lavoro giornalistico, prima tra tutte quella secondo cui le sue pubblicazioni avrebbero messo in pericolo gli informatori dei servizi segreti statunitensi in Afghanistan e in Iraq. Tuttavia, come abbiamo accennato, in quattordici anni, il governo statunitense non è riuscito a trovare un solo caso in cui delle persone fossero state uccise a causa del fatto che il loro nome era presente nei materiali pubblicati da WikiLeaks. Non solo: i nomi, da quei documenti, erano stati eliminati. Lo ha affermato davanti alla giudice in primo grado, il testimone John Goetz, pluripremiato giornalista investigativo tedesco che era stato, all’epoca della pubblicazione dei diari di guerra, media partner di WikiLeaks. Spiegò alla corte che Assange non solo eliminò quei nomi dai documenti, ma investì cospicue risorse economiche e umane per poterlo fare, utilizzando un software che individuava le parole non inglesi presenti in quei materiali. John Goetz disse alla corte che Assange era ossessionato dalla necessità di omettere i nomi dai documenti stessi e mettere in sicurezza gli originali. La cosa richiese un tempo così lungo che, secondo il resoconto giurato di Goetz, alcuni giornalisti del Guardian e di altre testate partner di WikiLeaks erano “frustrati” per l’enorme attesa.
Testimonianze come questa rappresentarono un enorme contributo alla ricostruzione della verità e, quindi, del “nuovo riconoscimento” dell’uomo e del giornalista Julian Assange. Sono testimonianze che arrivarono durante il processo sull’estradizione negli Stati Uniti, iniziato nel 2019 dopo la ricezione della richiesta di estradizione inviata dall’amministrazione Trump, associata a un capo di imputazione per cospirazione informatica e a diciassette capi d’imputazione basati sulla legge sullo spionaggio. Anche questa legge ha rappresentato un prosieguo dell’azione di “disconoscimento”. Non era stata infatti mai usata contro un editore o un giornalista, perché si ritiene che la cosa vada contro il Primo Emendamento della Costituzione americana e anche per un’altra importante ragione: è l’unica legge che non consente all’imputato di fare appello all’interesse pubblico. Non consente, cioè, di dire al giudice che, se si è entrati in possesso di documenti secretati e li si ha pubblicati, questo è avvenuto perché la loro diffusione rispondeva al pubblico interesse. Se non si può affermare questo però, significa che non ci si può, realmente, difendere. Ecco il disconoscimento e la discriminazione. Altri giornalisti e editori hanno sempre potuto fare riferimento all’interesse pubblico, perché mai accusati in base alla legge sullo spionaggio del 1917. Assange, invece, si vorrebbe sostenere, non può farlo. Contro di lui la legge sullo spionaggio la si usa, quasi a dire: la usiamo perché non è un giornalista.
Anche questa menzogna però, ripetuta all’infinito dai rappresentanti del governo americano, fu smontata da un testimone autorevole. Mark Feldstein, professore presso la Facoltà di giornalismo dell’Università del Maryland, testimoniò che nelle facoltà statunitensi di giornalismo si insegna agli studenti come ottenere documenti secretati di interesse pubblico. Si insegna, cioè, ai futuri giornalisti, a fare esattamente ciò che Assange ha fatto: intrattenere relazioni con delle fonti in grado di fornire materiali che sia interesse dei cittadini conoscere. Assange ha dunque svolto, precisamente, ciò che corrisponde all’essenza del lavoro giornalistico.
Altri testimoni, come John Sloboda, hanno dato l’idea dell’importanza del lavoro di WIkiLeaks per l’intera umanità. Altri ancora, come Paul Rogers, hanno fatto che sì che si sgretolasse un’altra pretesa del governo degli Stati Uniti: quella secondo cui Assange non sarebbe un prigioniero politico. A fronte di tale dichiarazione, Paul Rogers, professore emerito di Studi per la Pace presso l’Università di Bradford, ha affermato che le ragioni per cui Assange pubblicò migliaia di documenti secretati erano di natura essenzialmente politica. Assange si caratterizza, secondo Rogers, per la sua filosofia politica complessa, in cui la trasparenza (dei governi, delle imprese, delle ONG) ha un ruolo fondamentale nel garantire che le istituzioni funzionino in modo autenticamente democratico. La sua speranza era quella di cambiare la politica del governo statunitense e delle potenze occidentali, facendo sì che la verità dei fatti – gli orrori dell’invasione di Iraq e Afghanistan – portasse i cittadini lontano dalla possibilità di sostenere facilmente delle guerre, obbligando così i governi ad andare verso politiche basate sul perseguimento della pace con mezzi pacifici. Per un certo tempo, questo effetto venne raggiunto. E, in ogni caso, la testimonianza di Rogers ha permesso di “riconoscere” la natura politica della richiesta di estradizione e delle accuse rivolte contro Assange.
Un oceano di discriminazioni e tre livelli di “non riconoscimento”
Per elencare le discriminazioni subite da Assange quasi non mi è bastato il libro che ho pubblicato sul caso per l’editore Castelvecchi[10]. Difficilmente potrà essere sufficiente un editoriale. Una delle più evidenti per chi ha seguito il processo è quella che vede l’accusa statunitense sostenere che il Trattato sull’Estradizione tra Regno Unito e Stati Uniti non debba essere preso in considerazione come fonte, nel processo sull’estradizione. Affermazione ridicola, se si considera che la stessa richiesta di estradizione è effettuata sulla base di tale Trattato. Il fatto è che, in realtà, si cerca di bypassare l’articolo che, nell’accordo in questione, vieta le estradizioni di natura politica. “Quel divieto non è stato incluso nella legge generale sull’estradizione del 2003, è questa legge che va presa in considerazione”, sostiene l’accusa. La realtà è che il Regno Unito include regolarmente la clausola che vieta le estradizioni per ragioni politiche nei trattati sull’estradizione che stipula coi vari paesi. È dunque evidente che la legge generale sull’estradizione può anche non includere esplicitamente il divieto in questione, ma non vieta di sicuro di avere dei trattati che negano l’estradizione per ragioni politiche (e lo spionaggio di cui si accusa Assange è capo di imputazione politico per antonomasia). In questo come in altri aspetti, il processo sull’estradizione di Assange sembra una gara alla cancellazione di diritti fondamentali. E proprio con questo ha, in realtà, a che fare: con la volontà di minare alle fondamenta il sistema dei diritti umani. Il processo sull’estradizione ha visto un primo grado di giudizio terminato con un “no” all’estradizione (poi capovolto in secondo grado), ma tale “no” era basato soltanto su ragioni legate alla salute di Assange: la giudice Baraitser non considerò minimamente la possibilità di negare l’estradizione per il motivo principale per cui deve essere bloccata, ossia la minaccia che essa rappresenta per la libertà di informazione. Se Assange verrà estradato, si creerà un precedente tale per cui ogni giornalista che imbarazzi una qualsiasi grande potenza rivelando fatti reali potrà essere destinatario di una richiesta di estradizione. Già la sola creazione di questo precedente determinerà un effetto deterrente enorme nei giornalisti investigativi di tutto il mondo. Come abbiamo ricordato all’inizio, senza giornalismo investigativo, senza una stampa libera di andare oltre i comunicati ufficiali dei governi, non ci può essere democrazia. Dove i cittadini non sono messi nella condizione di valutare l’operato dei governi, non c’è democrazia. Ecco così tre forme di “disconoscimento”. La prima è l’incapacità dei governi occidentali di riconoscere, davanti allo specchio offerto da WikiLeaks, il proprio volto di calpestatori dei principi fondamentali e dei diritti non negoziabili su cui si basano le democrazie. La seconda, che nasce dalla prima, consiste nel disconoscere Assange come giornalista e va di pari passo con il “disconoscimento” degli individui come “cittadini di una democrazia”. Se i governi mostrassero di seguire, anziché gli interessi del complesso militare-industriale, quelli dei propri cittadini, di certo nessuno accuserebbe Assange. Accusarlo – e soprattutto accusarlo ai sensi della legge sullo spionaggio – vuol dire affermare che non avevamo il diritto di conoscere i crimini di guerra rivelati da WikiLeaks. Se però questo diritto non lo avevamo, se non lo abbiamo, significa però che il nostro status di cittadini di un paese democratico è, senza dubbio, “disconosciuto”. La speranza è che il processo di “nuovo riconoscimento” di Assange, iniziato grazie a coraggiosi testimoni che hanno ricostruito la verità sulla sua persona, possa andare avanti. Se questo accadrà, se lo faremo accadere utilizzando il prezioso strumento della protesta pacifica, avremo qualche speranza di essere nuovamente riconosciuti, anche noi, come cittadini di paesi democratici, titolari di un diritto inalienabile alla conoscenza.
[1] Ma mi faccia il piacere, March 18,2024, https://www.leggimarcotravaglio.it/2024/03/18/ma-mi-faccia-il-piacere-4/ Ultima visita sito: 21 marzo 2024.
[2] I contorsionismi di Stefano Feltri per attaccare Julian Assange, Feb 24, 2024, https://www.senzabavaglio.info/2024/02/24/i-contorsionismi-di-stefano-feltri-per-attaccare-julian-assange/
Ultima visita sito: 21 marzo 2024.
[3] Nils Melzer, 2022, The Trial of Julian Assange. A Story of Persecution, Verso Books.
[4] WikiLeaks founder Julian Assange breaks cover but will avoid America, Jun 21, 2010, https://www.theguardian.com/media/2010/jun/21/wikileaks-founder-julian-assange-breaks-cover Ultima visita sito: 21 marzo 2024
[5] Speech transcript: Julian Assange addresses the United Nations, Sept 26, 2010, https://www.greenleft.org.au/content/speech-transcript-julian-assange-addresses-united-nations Ultima visita al sito: 21 marzo 2024
[6] Dahr Jamail, 2015. «Iraq», in AA.VV., «The WikiLeaks Files: The World According to US
Empire», 350-367.
[7] WikiLeaks’ Julian Assange Could Face Criminal Charges from
U.S. Allies, Daily Beast, Aug 10, 2010, http://bit.ly/daily-beast-wikileaks. Ultima visita sito: 22 marzo 2024.
[8] Nils Melzer, 2022, The Trial of Julian Assange. A Story of Persecution, Verso Books.
[9] Oggi addirittura il cancelliere Tedesco Scholz è convinto del fatto che una estradizione negli Stati Uniti metterebbe a rischio i diritti umani di Assange. Si veda: Il cancelliere tedesco Scholz contro l’estradizione di Assange: “Negli Usa rischierebbe persecuzioni, https://www.ilfattoquotidiano.it/2024/03/04/cancelliere-tedesco-scholz-contro-estradizione-assange-usa/7468226/ Ultima visita sito: 22 marzo 2024.
[10] Chessa, Sara, 2023, Distruggere Assange. Per farla finita con la libertà di informazione, Castelvecchi.