Intero numero disponibile qui.
Federica Piangerelli, Università degli Studi di Macerata, ORCID ID: 0000-0002-5448-4544
E-mail: f.piangerelli@unimc.it
doi: 10.14672/vds20231pr2
(https://doi.org/10.14672/vds20231pr2)
Paper accettato da 3/3 revisori
Abstract
L’articolo intende riflettere intorno ad alcune dinamiche legate all’autoctonia ateniese, autentico mito di fondazione e pervicace ideale identitario.
L’indagine, in particolare, si sofferma su due snodi concettuali. Il primo esamina le possibili ragioni politiche sottese alla diffusione di questo racconto mitico. Tra queste spicca il tentativo degli Ateniesi di legittimare la propria primazia negli assetti di potere imperialistici e democratici, riappropriandosi, in chiave ideologica, di un passato che manca, di cui la prima testimone è e resta la memoria cittadina.
Tale coscienza civica, tuttavia, esige di essere costantemente ravvivata, nonché plasmata, per costruire il ricordo di una Atene idealizzata. Tra gli strumenti più efficaci si distingue l’epitafio, che infatti costituisce il secondo fulcro teorico del contributo. L’esame dimostra che tale genere epidittico, in forza di una rassicurante “ermeneutica della ripetizione”, rappresenta il cronotopo della memoria poliade: è quella sfera spaziotemporale in cui la stirpe ateniese rinasce ogni volta che muore, trascendendo la consequenzialità degli eventi, per cristallizzarsi in un glorioso ed eterno presente.
Keywords: memoria civica, Atene classica, autoctonia, epitafio, Platone
The paper aims to reflect on some dynamics linked to the Athenian autochthony, that is an authentic foundation myth and a stubborn ideal of identity.
The research focuses on two conceptual issues. The first examines the possible political reasons underlying the diffusion of this mythical tale. Among these, the attempt by the Athenians to legitimize their primacy in the imperialistic and democratic power structures stands out, by re-appropriating, in an ideological key, a past that is missing. The first witness of this is and remains the city’s memory, that needs to be constantly revived, as well as moulded, to build the remembrance of an idealized Athens. The epitaph is one of the most effective tools and due to that it constitutes the second question examined. The investigations shows that this epideictic genre, by virtue of a reassuring “hermeneutic of repetition”, represents the chronotope of polyad memory: it is that space-time sphere in which the Athenian lineage is reborn every time it dies, transcending the consequentiality of events, to crystallize itself in a glorious and eternal present.
Keywords: civic memory, Classical Athens, autochtony, epitaph, Plato
Una terra sia pure non natale,
Ma da ricordarsela per sempre,
E nel mare un’acqua non salata
E carezzevolmente gelida.
Anna Achmatova
A Socrate, curioso di sapere quali siano gli argomenti che il pubblico spartano è solito ascoltare con maggiore interesse, il sofista Ippia risponde: le genealogie degli eroi e degli uomini, le fondazioni delle città e ogni discorso di carattere archeologico[1]. Per ottenere successo, dunque, l’Elidese deve elaborare orazioni magniloquenti, incentrate su un passato primigenio, ma che, ricco di fascino, si conferma di volta in volta capace di incantare gli animi degli astanti.
Per quanto abile nei discorsi, tuttavia, Ippia non si interroga intorno alle ragioni di tali preferenze degli Spartani, ovvero non si pone una domanda che, lungi da ogni capziosità, potrebbe dischiudere interessanti orizzonti di riflessione. Stando alle stesse parole del Sofista, infatti, tale predilezione per l’origine, oltre a costituire un topos letterario, rievoca i miti di fondazione e per questo sembra inserirsi appieno in un più ampio disegno sociopolitico, perseguito, a vario modo, da molteplici poleis nella Grecia classica: sancire l’eccellenza della propria identità poliade e nobilitare i valori fondanti della propria comunità attraverso una narrazione degli inizi, collocata in un tempo ancestrale tra umano e divino, custodita e sempre riattualizzata dalla memoria collettiva.
Dietro le parole di Ippia, dunque, si inizia ad intravedere uno scenario più complesso, animato da dinamiche articolate, che il presente contributo, seppure in una forma necessariamente cursoria, si propone di approfondire. Con tale intento, l’asse del ragionamento si sposterà da Sparta ad Atene, perché ci offre un esempio meglio documentato, laddove il racconto dell’origine assume i contorni del mito dell’autoctonia[2]. Dopo avere illustrato le trame di tale narrazione, l’esame si focalizzerà su due principali snodi concettuali: dapprima su alcune possibili cause politiche sottese alla diffusione di questo racconto mitico, poi sull’epitafio, perché da noi ritenuto uno dei canali più efficaci attraverso cui glorificare l’universo valoriale della città, rinvigorendolo nella memoria poliade. Quest’ultimo tema, nello specifico, sarà studiato a partire da una originale curvatura argomentativa, ovvero seguendo le piste teoriche tracciate da Platone nel suo dialogo “più enigmatico”[3]: il Menesseno.
Le declinazioni dell’autoctonia
Alla stregua di ogni mito, anche l’autoctonia si presenta come una “storia stratificata” che, nel corso dei secoli, conosce diverse metamorfosi narrative, ma tutte parimenti connesse ad un medesimo nucleo teorico: sancire il legame strutturale degli Ateniesi con la propria terra, l’Attica[4], ed esprimere una forte rivendicazione identitaria a carattere etnico.
Stando ad una prima variante del racconto, attestata dalle fonti a partire dal V secolo a.C., l’autoctonia indica la stanzialità del popolo ateniese nel territorio attico: l’assenza di migrazioni ha evitato la mescolanza con altre genti, straniere e barbare[5], e ha permesso di preservare l’originaria purezza di stirpe. Secondo una versione differente, invece, documentata a partire dagli ultimi decenni del V secolo fino poi al IV secolo a.C., la quale non sostituisce ma integra quella precedente, tale racconto esalta la nascitadegli Ateniesi dalla terra attica, che è celebrata come paradigmatica “madre e nutrice”. Questa, infatti, ha assicurato ai propri figli il nutrimento migliore, allevandoli e educandoli nell’eccellenza. In questo senso, l’autoctonia si lega ad altre nozioni cruciali, quali quelle di eugeneia, “nobiltà di nascita”, trophe, “allevamento”, e paideia, “educazione”, che confermano e rinforzano la primazia della progenie ateniese.
Nella sua formula più accreditata[6], il mito vuole che al tempo di Cecrope[7], primo re dell’Attica, mezzo uomo e mezzo serpente, ancora legato alle creature mostruose nate dalla Terra primordiale[8], gli dèi decisero di insediarsi in quel territorio così da avere ciascuno il proprio culto personale. Scoppiò, quindi, una contesa tra Poseidone, che, giunto per primo, fece sgorgare il mare Eretteide da una cavità dell’Acropoli, e Atena che, invece, piantò un olivo nel Pandroseion. Zeus dichiarò giudici di questo conflitto gli altri dodici dèi, i quali assegnarono la vittoria ad Atena. Cecrope, infatti, testimoniò in suo favore, dichiarando che, in realtà, era lei ad essere giunta per prima in quella terra. Poseidone, furibondo, inondò l’Attica intera, mentre Atena divenne protettrice della città che da lei prese il nome, Atene, e diede avvio ad una lunga era di civilizzazione.
Delle molteplici vicende che seguirono a questi fatti[9], una è di particolare importanza[10]. Un giorno Atena si recò da Efesto per farsi fabbricare delle armi. Il dio, che era da poco stato abbandonato da Afrodite, fu preso dal desiderio per la dea, che però si diede alla fuga. Efesto, tuttavia, con fatica, riuscì a raggiungerla e tentò di possederla, eiaculando sulla sua gamba. Atena, disgustata, prima di scappare si pulì con un brandello di lana che fecondò la terra su cui venne gettato. Da questo territorio,in particolare dalla porzione circoscrittaal suolo ateniese, nacque Erittonio[11], che divenne il primo re della città e non mancò mai di onorare Atena: stabilì il saldo intreccio tra il popolo, che da lui discese, e la dea[12], poliade sin dai tempi antichissimi.
Al fondo del mito
Su questo plesso mitico poggia l’ideale dell’autoctonia, che, tra i principi fondanti dell’universo valoriale dell’Atene classica, si rivela decisivo per legittimare la supremazia della stirpe ateniese negli assetti del potere politico, esterni e interni alla città.
Lampante, per esempio, è l’uso del discorso autoctono a giustificazione del comando di Atene della coalizione greca durante le Guerre Persiane[13]: nell’intero panorama ellenico, il popolo attico è l’unico a non avere conosciuto le difficoltà legate alle migrazioni, ovvero è il solo ad essersi rafforzato nel corso dei secoli, perché unito e compatto sin dalla sua origine[14]. Cosicché all’indomani dell’epica vittoria contro il nemico persiano, Atene si propugna come la “paladina” della libertà greca e la sola detentrice legittima di una egemonia imperialistica dalle radici antichissime, secondo quanto declama Pericle nel suo celebre epitafio[15]:
Ma per prima cosa comincerò dagli antenati. […] Restando sempre gli stessi abitanti di questa terra, in un seguito ininterrotto di generazioni, grazie al loro valore, la tramandarono libera fino ai nostri giorni. E se i nostri antenati sono degni di lode, ancora di più lo sono i nostri padri: non senza fatica aggiunsero quell’impero che ora è nostro a quello che era stato lasciato loro, e così grande lo lasciarono a noi (Tucidide, La guerra del Peloponneso, II, 36, 1-2)[16].
Nella sua orazione funebre, inoltre, lo stratega ricorda anche che Atene ha da sempre assunto come regola del proprio agire il koinon greco, distinguendosi per prodezza militare, intelligenza politica e genio culturale[17], sino a divenire l’iconica e immortale “Scuola dell’Ellade”[18].
Pertanto, nata da una terra “fertile di virtù” e in una regione in cui spirano “venti divini”, la progenie di Cecrope ed Eretteo ha saputo inverare la propria natura umana, motivo per cui deve essere glorificata come il paradigma della Grecità più autentica.
Ma la narrazione autoctona esplica il proprio valore performativo anche negli equilibri di potere all’interno della polis, dove conosce un vigoroso incremento proprio nell’età d’oro periclea. All’apogeo dell’esperimento democratico[19], cioè quando si perfeziona una esperienza di governo partecipata e diffusa, che intende assicurare a tutti i cittadini l’“uguaglianza giuridica” (isonomia) e la “libertà di parola” (isegoria), Pericle vara una restrittiva legge sulla cittadinanza[20], introducendo il vincolo della doppia genitorialità: può assurgere allo status di polites, cioè di cittadino a pieno titolo, solo l’adulto, maschio, libero e figlio di entrambi i genitori ateniesi. Quali che siano le ragioni concrete di tale “serrata sulla cittadinanza”[21], spicca nitida la radice ideologica: rinvigorire il sentimento di appartenenza ad una collettività omogenea su base etnica, che esige di essere preservata nella sua purezza[22].
Stando a tale disegno politico, dunque, non è la politeia ad assicurare l’uguaglianza ai cittadini, ma è l’unità naturale e originaria degli Ateniesi a fondarne la parità politica, come esprime con chiarezza Aspasia nel suo epitafio:
Per noi, il fondamento di questa costituzione è la discendenza da una stessa origine. Le altre città, infatti, sono state organizzate da esseri umani di ogni tipo e difformi, così che sono difformi anche le loro costituzioni, tirannidi e oligarchie: alcuni governano altri considerandoli schiavi, gli altri a loro volta ritengono quelli padroni. Noi e i nostri, invece, nati tutti come fratelli da una stessa madre, non crediamo di essere né servi né padroni gli uni degli altri, ma la nostra uguaglianza di nascita secondo natura, ci obbliga a ricercare anche la parità giuridica secondo la legge e a non sottometterci gli uni agli altri, se non a chi sembra virtuoso e intelligente (Platone, Menesseno, 238E1-239A4)[23].
Il progetto democratico di Pericle, inoltre, assicura, con maggiore fermezza, l’ordinaria esclusione dei meteci[24] dai diritti politici, perpetuando la convinzione che la residenza non fa la cittadinanza[25]. Si danno, infatti, due modi differenti di abitare uno stesso luogo: da figli legittimi, come gli Ateniesi “purosangue”, nati dalla loro terra poliade, o da figli adottivi, come gli stranieri residenti, provenienti da “altrove” (allothen), portatori di una eterogeneità indelebile[26].
A uno sguardo complessivo su entrambi tali strategie politiche, si comprende che l’ideale dell’autoctonia, oltre ad avallare alcune delle disparità endemiche alla democrazia ateniese[27], persegue il tentativo di riappropriarsi, in chiave ideologica, di un passato che manca. Tramandando, infatti, l’archetipo dell’essere radicati, ab origine, in uno stesso suolo e in una genealogia comune, il mito dell’autoctonia permette di leggere il presente glorioso di Atene come l’inveramento di una condizione giusta perché già da sempre “in atto” e di cui la prima testimone è e resta la memoria della città.
Ripetere per glorificare
Per potenziare la propria cogenza performativa, il racconto autoctono trova nell’immaginario collettivo della polis una delle modalità operative più efficaci. Agli stessi Ateniesi, infatti, è demandato il compito di mantenere sempre vivo il ricordo della loro origine divina e ctonia, così da rivendicare la propria egemonia e superiorità.
Tale “orgogliosa reminiscenza”, tuttavia, non si conserva da sé, ma esige di essere costantemente ravvivata e, in un certo senso, plasmata, al fine di costruire il ricordo di una Atene che sia la più idealizzata possibile. A nostro avviso, tra gli strumenti più adatti ad assolvere a questo compito vi sono gli epitafi[28], ossia i discorsi funebri pronunciati annualmente da un retore scelto dall’Assemblea, al cospetto dell’intera cittadinanza, per commemorare i caduti in guerra a difesa della polis[29]. Nella loro solennità, queste circostanze rappresentano la cornice perfetta per edificare una salda memoria poliade intorno ad un ritratto mitizzato della città, ma a patto che gli oratori incaricati siano abili nel disegnarlo. In questo senso, seppur con piglio critico, è Platone, nel Menesseno, a sottolineare la necessità di un utilizzo intelligente dell’epitafio per esplicarne appieno le potenzialità retoriche. Secondo la nostra ipotesi ermeneutica, infatti, questo dialogo platonico, con uno spiazzante intreccio di toni ironici e registri narrativi seri[30], ragiona intorno ai valori e ai limiti di tale genere epidittico e lo fa a partire dalle modalità con cui i retori ateniesi sono soliti lavorare.
Nel confronto iniziale con il giovane Menesseno, Socrate prende subito a canzonare i suoi concittadini, autori degli epitafi, dei quali ha sperimentato in prima persona gli effetti “roboanti”:
Così, Menesseno, quando sono elogiato da loro, mi sento di nobile stirpe e, ogni volta, ascoltandoli mi lascio sedurre, convincendomi che in quel momento sono diventato più grande, più nobile e più bello. E poi, come quasi sempre accade, molti stranieri mi accompagnano e ascoltano con me, e ai loro occhi, in quel momento, divento più rispettabile; anche loro, infatti, mi sembrano condividere queste stesse impressioni sia nei miei confronti sia verso il resto della Città: persuasi dall’oratore, ritengono che sia diventata più ammirevole di prima (Menesseno, 235A5-B6).
E ancora:
In me, questo stato di rispettabilità dura più di tre giorni: il discorso e la voce dell’oratore sono così soavi e si insinuano così in profondità nelle orecchie, che solo al quarto o al quinto giorno mi ricordo chi sono e capisco dove mi trovo, e fino ad allora credo quasi di essermi stabilito nelle isole dei beati: tanto i retori, per noi, sono abili! (Menesseno, 235B7-C4).
A una lettura attenta, risalta il vero bersaglio della moquerie di Socrate: non l’epitafio in sé, ma l’inettitudine degli oratori ateniesi. Ossessionati da una eccessiva ricercatezza formale, infatti, questi elaborano logoi dallo stile ampolloso, capaci solo di provocare una malìa istantanea, quindi incapace di radicarsi nella coscienza civica[31].
In un’ottica contrastiva, tuttavia, tali sottolineature suggeriscono una modalità più astuta di ricorrere al discorso funebre. I retori, infatti, se fossero consapevoli di declamare dinnanzi a folle partecipate, in cui sono presenti anche meteci e stranieri, nonché di essere legittimati a mentire per fini encomiastici[32], proporrebbero una rappresentazione di Atene idilliaca ma parimenti ancorata ai valori tradizionali della polis, così da sedimentarsi più facilmente nel sentire comune. Di conseguenza, la solennità dei toni e la cura della forma da “fini” dovrebbero farsi “mezzi” delle orazioni, per orientare, con maggiore pregnanza persuasiva, l’immaginario collettivo della città.
Ma Menesseno non desiste dal difendere i retori ateniesi, asserendo che talvolta, dati i tempi stretti con cui sono designati, potrebbero trovarsi in difficoltà, fino ad essere obbligati a improvvisare. La replica di Socrate, però, non si fa attendere:
E perché mai, mio caro? Per ciascuno di loro ci sono discorsi già pronti e per giunta tali orazioni non sono difficili da improvvisare. Se, infatti, si dovesse parlare bene degli Ateniesi davanti ai Peloponnesiaci o dei Peloponnesiaci davanti agli Ateniesi, ci sarebbe bisogno di un valido retore, dotato di capacità persuasiva e in grado di guadagnarsi una buona reputazione; ma fintantoché qualcuno deve mettersi alla prova davanti agli stessi che al contempo loda, non è difficile dare l’impressione di parlare bene (Menesseno, 235D1-5).
Il compito degli oratori appare notevolmente ridimensionato: devono mettersi alla prova davanti agli stessi che si apprestano ad elogiare; quindi, non devono vantare grandi doti persuasive; ricorrono a schemi narrativi già pronti, pertanto il loro lavoro di costruzione del testo è minimo, se non nullo[33]. Già dubbia, la loro abilità retorica appare ancora più delegittimata.
Da tali critiche, tuttavia, trapelano ancora una volta alcune riflessioni più generali in merito all’epitafio, di cui illuminano uno dei tratti peculiari: la continua ripetizione dell’identico, che è una caratteristica così incisiva da declinarsi in almeno un duplice versante.
In un senso, questa si riscontra sul piano formale e contenutistico. Il logos epitaphios, infatti, si compone di registi espositivi canonici: in diverse circostanze ripropone sempre gli stessi temi, a cui aggiunge solo piccole variazioni legate all’evento contingente da onorare. È dirimente notare, inoltre, che tali topoi sono quasi tutti al passato, perché riguardano l’origine, divina, nobile e autoctona[34], degli Ateniesi, come pure le gesta eroiche dei loro avi e padri che si sono sempre prodigati a difesa della libertà: dalle leggendarie vittorie su Eumolpo e le Amazzoni alle più recenti Guerre Persiane, fino alle guerre contro gli altri greci.
In un altro senso, invece, tale ripetitività si attesta ad un livello strutturale. L’orazione funebre, infatti, risponde ad una logica autoreferenziale, perché si configura come una apologia pronunciata dagli Ateniesi, intorno agli Ateniesi, in un consesso di Ateniesi[35]. Come in un “gioco di specchi”, dunque, questo componimento epidittico persegue il tentativo, sempre riuscito, di mostrare alla polis la versione migliore di sé, per convincerla della propria ineguagliabile venerabilità.
Sulla base di tali riflessioni, dunque, si può sostenere che, proprio in forza di una rassicurante “ermeneutica della ripetizione”, l’epitafio rappresenta il cronotopo della memoria cittadina, ovvero costituisce quella sfera spaziotemporale in cui la stirpe ateniese rinasce ogni volta che muore, perché, trascendendo la consequenzialità lineare degli eventi, si cristallizza, gloriosa e incorruttibile, in un eterno presente[36].
Una nota finale
Fil rouge dei percorsi argomentativi proposti in queste pagine, l’autoctonia ateniese si è rivelata un mito di fondazione dall’alto valore identitario, che funge da perno ideologico di un disegno politico, imperialista e democratico, il cui apice si attesta nell’età periclea.
Come si è cercato di dimostrare, inoltre, il discorso autoctono trova un saldo ancoraggio nella memoria poliade, perché anima uno slancio progettuale che, lungi dal proiettarsi in un futuro ancora da costruire, torna ricorsivamente ad un passato archetipico, il quale rivive nell’immaginario collettivo soprattutto grazie agli epitafi. L’eccellenza degli Ateniesi ha già trionfato e i successi del presente ne rappresentano le conseguenze più nobili, ma ormai depotenziate, o detto altrimenti:
L’ideologia della città da proiezione ideale operata da una società aperta al futuro, che progetta sé stessa come perfettibile secondo la bontà delle sue leggi di organizzazione, si muta in una rappresentazione della quale questa stessa società non è che oggetto, già dunque perfetta, ma irrimediabilmente trascorsa, la cui esistenza si è già conclusa, appartiene al passato. È il nuovo mito di una diversa età degli eroi, meno sovraumana, ma egualmente irrecuperabile. Ora Atene è la Città; è nato il classicismo (Lanza, Vegetti 1977, 27).
[1]Platone. Ippia maggiore, 285D.
[2]A Sparta, città che non pretendeva di essere autoctona, i miti di fondazione giustificano la conquista dello spazio su cui poter esercitare legittimamente la propria egemonia, come mostra Malkin, 1994.
[3]Così, per esempio, Kahn, 2018 e Taylor, 2016, 64. Il Menesseno, infatti,presenta un impianto strutturale e teorico spiazzante: le parti dialogate, oltre a essere esigue (prologo: 234A-236A; epilogo, 249D-E), fungono da cornice a un lungo epitafio (236A-249D) in memoria dei defunti nella guerra di Corinto, conclusasi con la pace di Antalcida (386 a.C.), attribuito ad Aspasia e pronunciato da Socrate a Menesseno. In linea con le finalità di tale tipologia di logos, anche questo discorso funebre glorifica la città democratica di Atene, dalla nobile stirpe autoctona, ed esorta all’esercizio di una “virtù eroica”, impersonificata dai caduti in guerra: offre una immagine non conforme all’usuale giudizio platonico intorno alla sua città (basti pensare all’Apologia di Socrate), nonché distante dai pilastri concettuali della sua stessa filosofia politica (si vedano almeno Centrone, 2012, 404-406 e Migliori, 2013, 1018-1142).
[4]Questa stretta connessione trapela già dalle pieghe semantiche del lemma greco autochton, perché è composto dall’aggettivo autos, “stesso”, “identico”, “medesimo”, “da sé”, “spontaneamente, e dal sostantivo chton, “terra”, “regione”, “paese”, e infatti può essere reso con “sprung from the land itself” (LSJ 284).
[5]È opportuno ricordare che, nel mondo greco antico, soprattutto in Età Classica, si trovano due principali figure di stranieri: lo xenos, ovvero lo “straniero greco”, che è tale per lo più per ragioni politiche (per esempio, uno spartano per un ateniese), e il barbaros, ovvero lo “straniero non greco”, la cui estraneità non è solo di tipo politico ma anche etnico-culturale (per esempio, un persiano per un ateniese).
[6]Narrata da Apollodoro in Biblioteca, III, 14, 1.
[7]Analizza, in modo dettagliato, la figura mitica di Cecrope Gourmelen 2004.
[8]Il probabile riferimento è alle figure mitiche dei Titani e dei Giganti, che sono figlie di Gea, fecondata da alcune gocce del sangue del membro evirato di Urano. Titani e Giganti, dunque, sono “spuntati” dalla terra e i secondi, in particolare, manifestano questa loro origine anche nell’aspetto: dalla vita in su hanno fattezze umane, dalla cintola in giù code di serpente. Una delle prime attestazione di tale plesso mitico si ha nella Teogonia di Esiodo: la nascita dei Titani (v. 155 ss.), la nascita dei Giganti (v. 174 ss.).
[9]Apollodoro. Biblioteca, III, 14, 2-5.
[10]Apollodoro. Biblioteca, III, 14, 6.
[11]Già i mitologi dell’antichità si dilettavano a chiosare sul nome “Erittonio”: «Chtonios, figlio della Terra, è il prodotto de brandello di lana (erion) con il quale la vergine inseguita asciugò sulla sua gamba lo sperma del dio, a meno che non sia semplicemente sorto dalla lotta (eris) amorosa» (Loraux 1998, 63-64).
[12]A Erittonio, per esempio, è attribuita l’istituzione delle Panatenee e, secondo Erodoto, Storie, VIII, 44, proprio sotto il suo regno, gli abitanti dell’Attica presero il nome di Atenesi.
[13]Erodoto. Storie, VII, 161, 3.
[14]Tucidide. La guerra del Peloponneso, I, 2, 5.
[15]Come argomenta Nati (2018, 162):«Proprio i temi dell’autoctonia e del sacrificio per il bene dello Stato rappresentano il leitmotiv della propaganda imperialistica ateniese in seno alla Lega Delio-attica, nonché della sua superiorità morale nei confronti dell’avversaria Sparta durante la Guerra del Peloponneso. […] La terra dalla quale nasce Kekrops non è, infatti, quella politicamente strutturata della polis, ma una terra ancora indefinita, anche da un punto di vista geografico», proprio perché assume i contorni dell’Attica nella fase di ascesa ed espansione della potenza ateniese. Non è un caso, dunque, che proprio in questo periodo, il termine autochtones, riferito gli Ateniesi, diventi di uso comune negli epitafi, ovvero nei discorsi funebri afferenti al genere dell’oratoria epidittica, approfonditi sotto 3. Ripetere per glorificare.
[16]La traduzione, seppure da me leggermente modificata, è di Ferrari 2020.
[17]Tucidide. La guerra del Peloponneso, II, 40, 1.
[18]Tucidide. La guerra del Peloponneso, II, 41, 1. Riflette sul significato di tale espressione, nonché sul successo “paradossale” di cui ha goduto nell’immaginario culturale occidentale, Most, che scrive: «Ciò che rende particolarmente degno di interesse questo tropo è il paradosso per cui quella che ha finito per diventare una figura centrale dell’universalismo umanistico, propagandando valori pacifici di collaborazione internazionale e di cultura intellettuale, ebbe in realtà origine come stereotipi di un patriottismo angustamente localistico e campanilistico, che enfatizzava i valori militari della guerra, della competizione e del sacrificio di sé» (Most 1997, 1340-1341).
[19]Per un primo approfondimento della complessa questione della democrazia greca, colta nel suo sviluppo storico, si vedano almeno Musti 1995; Ferrucci 2022.
[20]Tra gli altri, Aristotele (Politica, III, 2 1275b, 23-25; La costituzione degli Ateniesi, 26) attesta l’emanazione di questa legge, avvenuta nel 451/450 a.C., mentre Demostene (Contro Neera, 92) comprova che tale norma è ancora vigente nell’Atene del 341/340 a.C.
[21]Al fondo di questa legge si possono individuare molteplici motivazioni come, per esempio, l’esigenza di limitare i frequenti matrimoni misti, causa della mescolanza tra le diverse “classi sociali”, ma anche la necessità di restringere la classe dei cittadini, per designare un nucleo ristretto degli aventi diritto ai privilegi economico-politici derivanti dal fiorente impero marittimo ateniese. Conviene ricordare, infatti, che Pericle introduce la mistophoria, ovvero una ricompensa in denaro per assolvere agli oneri del polites: essere cittadino diviene un “mestiere”. Per una dettagliata rassegna delle posizioni degli storici intorno a tale provvedimento si veda Blok 2009.
[22]Ogni deroga a questa legge, tuttavia, resta sempre possibile. Come ricordano sia Aristotele (La costituzione degli Ateniesi 26, 4) sia Plutarco (Pericle 37, 2 e 4-5), morti di peste i due figli legittimi di Pericle, Santippo e Paralo, lo stesso stratega, per assicurare la discendenza della sua stirpe, chiese all’Assemblea di riconoscere come “ateniese a pieno titolo” suo figlio illegittimo, Pericle il giovane, avuto da Aspasia di Mileto. La cittadinanza ateniese, inoltre, poteva essere concessa agli stranieri per particolari benemerenze verso la polis, come avvenne con gli arruolati volontari sulle navi ateniesi che vinsero alle Arginuse (406 a.C.). Pertanto, come sottolinea Cozzo, «nei fatti, sia sul versante pubblico sia su quello privato, Atene rinunciava al mito dell’autoctonia (anche se, soprattutto nelle celebrazioni ufficiali lo ripeteva ostinatamente) ogni volta che la concessione della cittadinanza le faceva comodo» (Cozzo 2014, 74).
[23]La traduzione, seppure da me modificata, è di Liminta 2016.
[24]I meteci sono gli “stranieri residenti”, liberi e lavoratori, che beneficiano della Metoikia, ovvero di quell’istituto giuridico che rappresenta la formula più evoluta di integrazione nel mondo greco antico, attestata a partire dal VI secolo soprattutto ad Atene. La posizione dei meteci nel contesto ateniese, tuttavia, risulta ambivalente, in quanto fondata sulla duplice logica di tutela e subordinazione: da un lato, gli stranieri residenti godono di diritti civili e di alcuni diritti giuridici, condizione che permette loro di inserirsi nel tessuto socioculturale della polis, dall’altro, però, sono esclusi dai diritti politici, ovvero non è loro concessa la cittadinanza, che resta una prerogativa dei soli Ateniesi “purosangue”. Per un primo approfondimento di tali complesse questioni si vedano almeno Whitehead 1977 e Bearzot 2001.
[25]Come ricorda Aristotele, anch’egli meteco ad Atene perché originario di Stagira: “Il cittadino non è tale perché abita un certo luogo (anche i meteci e gli schiavi, infatti, hanno in comune con i cittadini il luogo in cui risiedono” (Politica, III, 1275a2-14. Traduzione di Ferri 2016).
[26]Spesso il meteco è designato, in una accezione denigratoria, metanastes, cioè “immigrato”, ed epelydes, “sopraggiunto”. Del tutto in linea con tale impianto ideologico, allo straniero residente è interdetto il diritto di enktesis, ovvero il possesso di beni immobili, come case di proprietà o appezzamenti di terreno: per gli Ateniesi, infatti, concedere ai meteci tale possibilità equivarrebbe ad alienare parti della propria terra madre.
[27]“Nell’ambito della polis, e di quella ateniese in particolare, l’uguaglianza, così come la libertà, erano valori e privilegi condivisi più da una élite che dalla totalità della popolazione. Piuttosto, Atene è la città delle diseguaglianze: diseguali […] sono gli Elleni rispetto ai barbari; diseguali […] sono gli Ateniesi rispetto agli altri Elleni; diseguali […] sono tra loro gli abitanti della medesima città. La democrazia si alimenta di tali diseguaglianze” (Cardullo, 2008, 23).
[28]Come ricorda Elling (1997, 845-848), oltre agli epitafi, molti elementi simbolici del mito dell’autoctonia sono presenti nei luoghi di culto e nei monumenti più importanti e sacri della città. Sull’Acropoli, per esempio, cresce l’olivo di Atena, che nemmeno i Persiani hanno potuto distruggere pur avendolo bruciato, perché è rigermogliato il giorno successivo: un segno formidabile del radicamento della città nel suo stesso territorio (Erodoto, Storie, VIII, 55); accanto all’olivo, è ben visibile la traccia dei ripetuti colpi del tridente inferti da Poseidone, che è incastonata nel santuario di Eretteo; sui frontoni del Partenone, infine, è rappresentata non solo la nascita di Atena ma anche la disputa della dea con Poseidone per il possesso dell’Attica.
[29]Esamina alcuni dei più celebri epitafi giunti fino a noi, ovvero quello di Lisia, Isocrate, Demostene, Iperide e Platone, Gastaldi, 2018.
[29]La traduzione, seppure da me leggermente modificata, è di Ferrari, 2020.
[30]Si veda anche sopra n. 3. A complicare l’interpretazione del dialogo è l’evidente mescolanza di toni ironici (presenti, soprattutto, nel confronto iniziale tra Socrate e Menesseno) e seri (riscontrabili, per lo più, nell’epitafio e nello scambio di battute finale). Questo intreccio – riconosciuto già da Plutarco (Pericle, 24, 7) – ha determinato la polarizzazione della critica: da un lato, si trovano le letture panironiche, per le quali anche l’epitafio platonico rappresenta solo una satira parodistica della retorica funebre contemporanea e della politica ateniese (per esempio, Clavaud, 1980, Engel, 2013, Loraux, 1993); dall’altro, quelle totalmente serie, secondo cui i contenuti dell’orazione funebre sono autentica espressione della dottrina filosofico-politica di Platone (per esempio, Long, 2003, Trivigno, 2009). Tuttavia, prendendo le distanze da proposte esegetiche unilaterali, si può delineare una più efficace strategia ermeneutica “intermedia”, che renda ragione della mescolanza tra ironia e serietà e ricostruisca il “disegno filosofico” sotteso all’intera opera. A nostro avviso, infatti, l’ironia sembra diretta solo contro il modus operandi dei retori ateniesi, incapaci di cogliere le “limitate potenzialità” dell’epitafio, che invece Platone stesso mostra “in atto”, elaborando una orazione funebre esemplare. Tale linea interpretativa è condivisa anche da Schiassi, 2002, 37-38; Tulli, 2003 e 2007; Centrone, 2012, 383-387.
[31]Si noti, infatti, che l’espressione «in quel momento» è ripetuta per ben due volte, a distanza di poche righe (235B1 e 3-4), e che la sensazione di trovarsi sulle “isole dei beati” persiste non più di tre o quattro giorni.
[32]Socrate, infatti, ricorda (234C e 235A) che è bello morire in guerra, perché anche al povero tocca un funerale magnifico e anche il mediocre è elogiato: di ciascuno si celebrano le qualità che possiede ma anche quelle che non possiede.
[33]Socrate, inoltre, apostrofa i retori ateniesi come “uomini sapienti”, che utilizzano “discorsi preparati da lungo tempo” (Menesseno, 234C).
[34]A questo proposito, è interessante notare che dei caduti in guerra si celebra anche la sepoltura nel “grembo familiare” di colei che li ha generati, nutriti e accolti (237C), ovvero della terra Attica. Questo dato aggiunge un ulteriore tassello al discorso autoctono, che si configura come un ideale che regola l’intero ciclo vitale dei suoi figli: nascita, nutrimento e morte. A suggerire tale curvatura “funerea” è anche l’etimologia dello stesso lemma chton, di cui Chantraine nota: Avec un environnement religieux, est plutôt sentie comme la surface extérieure du monde des puissances souterraines et des morts, et par là, volontiers come ce monde lui-même […] opposé au ciel (Chantraine, 1999, 1258).
[35]Menesseno, 236A4-5.
[36]Come scrive Loraux: “Muoiono gli uomini, la città rimane, onnipotente, indivisibile come l’idea di unità; morti sono i cittadini allorché l’oratore si fa avanti per esaltare Atene attraverso gli ateniesi: su questi morti astratti la città costruisce la propria idealità. Grazie a questo trasferimento di gloria Atene si colloca in una nobiltà senza tempo” (Loraux, 2006, 76).
Bibliografia
1. Dizionari e lessici
Chantraine, Pierre. Dictionnaire étymologique de la langue grecque. Histoire des mots. Paris: Klincksieck, 1999.
LSJ = The Online Liddle-Scott-Jones-Greek-English Lexicon. http://stephanus.tlg.uci.edu/lsj/#eid=1 (ultima visita sito web: 15/06/2023).
Montanari, Franco. Vocabolario della lingua greca. Torino: Loescher Editore, 2004.
2. Fonti
Apollodoro, e Guidorizzi Giulio. Biblioteca. Con il commento di J. G. Frazer. Milano: Adelphi, 1995.
Aristotele, e Bruselli Mario. La Costituzione degli Ateniesi. Milano: BUR, 2018.
Aristotele, e Ferri Federico, cur. Politica. Milano: Bompiani – Testi a fronte, 2016
Demostene, e Avezzù Elisa, cur. Contro Neera. Processo a una cortigiana. Venezia: Marsilio, 2002.
Erodoto, e Asheri David, cur. Le Storie, Libro VIII. Commento di Pietro Vannicelli, testo critico di Aldo Corcella. Milano: Fondazione Lorenzo Valla – Arnoldo Mondadori Editore, 2003.
Erodoto e Nenci Giuseppe. Le Storie, Libro VII. A cura di Pietro Vannicelli e Aldo Corcella, Milano: Fondazione Lorenzo Valla – Arnoldo Mondadori Editore, 2017.
Esiodo, e Arrighetti Graziano, cur. Teogonia. Milano: BUR, 2012.
Platone, e Liminta Maria Teresa, cur. Ippia Maggiore. In Platone, Tutti gli scritti, a cura di Giovanni Reale. Milano: Bompiani – Il Pensiero Occidentale, 2016.
Platone, e Liminta Maria Teresa, cur. Menesseno. In Platone, Tutti gli scritti, a cura di Giovanni Reale. Milano: Bompiani – Il Pensiero Occidentale, 2016.
Plutarco e Magnino Domenico, cur. Vite parallele. Secondo volume: Pericle e Fabio Massimo, Nicia e Crasso, Alcibiade e Gaio Marcio, Demostene e Cicerone. Torino: UTET, 2016.
Tucidide, e Ferrari Franco, cur. La guerra del Peloponneso. Introduzione di Moses I. Finley. Milano: BUR, 2020.
3. Studi critici
Bearzot, Cinzia. “Ἀπραγμοσύνη. Identità del meteco e valori democratici in Lisia”, 63-80. In Identità e valori. Fattori di aggregazione e fattori di crisi nell’esperienza politica ateniese, a cura di Alberto Barzanò et al. Roma: L’Erma di Bretschneider, 2001.
Blok, Josine H. «Perikles’ Citizenship Law: a New Perspective». Historia. Zeitschrift für Alte Geschichte 2 (2009): 141-170. Wissenschaftliche Verlagsgesellschaft mbH, 2009. doi:10.25162/historia-2009-0007.
Cardullo, Loredana Rosa. “Atene come polis multiculturale. L’età classica”, 13-35. In Kaczyński, Grzegorz J. Il Paesaggio multiculturale: Immigrazione, contatto culturale e società locale. Milano, Italy: FrancoAngeli, 2008.
Centrone, Bruno. “Introduzione”. In Platone, e Centrone Bruno. Ippia maggiore, Ippia minore, Menesseno, 381-412. Testo tradotto da (e con note di) Federico M. Petrucci. Torino: Einaudi, 2012.
Clavaud, R. Le Ménexène de Platon e la rhétorique de son temps, Paris: Les Belles Lettres, 1980.
Cozzo, Andrea. Stranieri. Figure dell’Altro nella Grecia antica. Trapani: Di Girolamo Editore, 2014.
Elling, Pierre, e Settis Salvatore, cur. “Il mito: riscritture riusi”, 839-866. In I Greci. Storia cultura arte società, 2. Una storia greca, II. Definizione. Torino: Einaudi, 1997.
Engels, David. «Irony and Plato’s Menexenus». L’antiquité classique. PERSEE Program, 81 (2012): 13-30. doi:10.3406/antiq.2012.3808.
Ferrucci, Stefano. Democrazia. Roma: InSchibboleth, 2022.
Gastaldi, Silvia e Luise, Fulvia De, cur. “L’autoctonia degli Ateniesi: un mito civico di identità”, 51-68. In Luise, Fulvia De. Cittadinanza: Inclusi Ed Esclusi tra gli antichi e i Moderni. Trento: Università degli studi di Trento, Dipartimento di lettere e filosofia, 2018.
Gourmelen, Laurent. Kékrops, le Roi-Serpent. Paris: Les Belles Lettres, 2004.
Kahn, Charles H. “Plato’s funeral oration: The motive of the Menexenus”, 9-27. In Parker, Harold, e Robitzsch Jean Miximilian. Speeches for the Dead. Essays on Plato’s Menexenus. Berlin/Boston: De Gruyter, 2018.
Lanza, Diego e Vegetti, Mario. “L’ideologia della città”, 13-27. In L’ideologia della città, Diego Lanza et al. Napoli: Liguori, 1977.
Long, Christopher P. «Dancing Naked with Socrates». Ancient Philosophy. Philosophy Documentation Center, 23,1 (2003): 49-56. doi:10.5840/ancientphil20032312.
Loraux, Nicole. L’invention d’Athènes: histoire de l’oraison funèbre dans la “cité classique”. Paris: Payot et Rivages, 1993.
Loraux, Nicole. Nati dalla terra. Mito e politica ad Atene. Roma: Meltemi, 1998.
Loraux, Nicole. La città divisa. L’oblio nella memoria di Atene. Vicenza: Neri Pozza, 2006.
Malkin, Irad. Myth and territory in the Spartan Mediterranean. Cambridge: Cambridge University Press, 1994.
Migliori, Maurizio. Il disordine ordinato. La filosofia dialettica di Platone. vol. I – Dialettica, metafisica, cosmologia; vol. II – Dall’anima alla prassi etica e politica. Brescia: Morcelliana, 2013.
Montanari, Massimo. Il mito dell’autoctonia. Roma: Bulzoni, 1981.
Most, Gleen W. 1997. “Atene come scuola della Grecia”. In I Greci. Storia cultura arte società, 2. Una storia greca, II. Definizione, a cura di Salvatore Settis, 1339-1352. Torino: Einaudi.
Musti, Domenico. Demokratía. Origini di un’idea. Roma-Bari: Laterza, 1995.
Nati, Danilo. “Considerazioni in margine all’iconografia di Kekrops”, 161-188. In Benedetta Sciaramenti. Immagini dei Greci, immagini dai Greci. Perugia: Morlacchi – Quaderni di Otium, 2018.
Schiassi, Giuseppe. “Introduzione”, 7-45. In Platone, e Schiassi Giuseppe, cur. Menesseno. Città di Castello: Società Editrice Dante Alighieri, 2002.
Taylor, Alfred E. Platone. L’uomo e l’opera. Roma: Castelvecchi, 2016.
Trivigno, Franco V. «The Rhetoric of Parody in Plato’s Menexenus». Philosophy and Rhetoric. The Pennsylvania State University Press, 42 (2008): 29-58. doi:10.1353/par.0.0025.
Tulli, Mauro. “L’Atene di Aspasia: tradizione del racconto e ricerca dell’ideale nel «Menesseno» di Platone”, 91-106. In Evento, racconto, scrittura nell’antichità classica, Atti del Convegno Internazionale di Studi, Firenze 25-26 novembre 2002, a cura di Angelo Casanova e Paolo Desideri. Firenze: Università degli Studi di Firenze, Dipartimento di Scienze dell’Antichità “Giorgio Pasquali”, 2003.
Tulli, Mauro. “Epitafio e malia dell’anima: Gorgia nel ‘Menesseno’ di Platone”, 321-329. In Interiorità e anima. La psychè in Platone, a cura di Maurizio Migliori, Linda M. Napolitano Valditara, e Arianna Fermani. Milano: Vita e Pensiero, 2007.
Whitehead, David. The Ideology of the Athenian Metic, Cambridge: Cambridge Philological Society, 1977.