Una lettura foucaultiana
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Michele Di Bartolo, Università di Perugia, ORCID ID: 0009-0006-7620-049X
E-mail: dibartolo.mic@gmail.com
doi: 10.14672/vds20231pr1
(https://doi.org/10.14672/vds20231pr1)
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Abstract
Nell’ultimo periodo della sua vita, Michel Foucault ha posto al centro della propria ricerca i processi di soggettivazione, cioè i modi in cui i soggetti, opponendosi ai dispositivi di potere, cercano di costituirsi come soggetti delle proprie azioni. Questi processi sono mediati da alcune pratiche, che Foucault chiama tecnologie del sé. In molte di esse la memoria svolge un ruolo centrale. In questo articolo, attingendo alla prospettiva foucaultiana, cercherò di evidenziare alcune discontinuità nella concezione e nell’uso della memoria in queste tecnologie del sé, nel passaggio dal platonismo all’età ellenistico-romana.
Keywords: estetica dell’esistenza, filosofia antica, Foucault, ermeneutica del soggetto, memoria
In the last period of his life, Michel Foucault placed at the centre of his research the processes of subjectivation, i.e., the ways in which subjects, opposing to the dispositives of power, try to constitute themselves as subjects of their own actions. These processes are mediated by certain practices, which Foucault calls technologies of the self. In many of them memory plays a central role. In this paper, drawing on the Foucauldian perspective, I will attempt to highlight some discontinuities in the conception and use of memory in these technologies of the self, in the transition from Platonism to the Hellenistic-Roman age.
Keywords: aesthetics of existence, ancient philosophy, Foucault, hermeneutics of the subject, memory
Introduzione
Nei corsi e negli scritti dei primi anni Ottanta, Michel Foucault ha riservato una particolare attenzione alla questione della cura di sé nel pensiero antico. Per comprendere il senso di una simile operazione storiografica occorre tener presente la matrice nietzschiana dell’approccio foucaultiano al passato. Come Nietzsche, anche Foucault legge la storia in funzione del presente mettendola al servizio della vita. Questo approccio risponde a una duplice finalità. Da una parte consente di chiarire la genesi storica delle presunte verità assolute che limitano la capacità di comprendere il presente e di agire, dall’altra schiude un patrimonio di idee, di pratiche e di forme di vita cui attingere per ampliare l’orizzonte dei possibili. In questa prospettica l’indagine storica condotta da Foucault assume la portata di una critica dell’attualità.
Un’altra indispensabile considerazione preliminare va fatta in merito alla posizione che la questione della cura di sé occupa rispetto allo sviluppo del pensiero foucaultiano nel suo complesso. La ricerca di Foucault si dipana intorno a tre assi fondamentali che emergono progressivamente nel corso degli anni sovrapponendosi e intrecciandosi tra loro. Il primo asse è quello della verità e della costituzione dei saperi, il secondo è quello dei rapporti di potere, il terzo, infine, è quello dei processi di costituzione del sé. Se è vero che i soggetti si costituiscono come tali all’interno di meccanismi di sapere-potere nei quali sono sempre presi, è anche vero che entro tali meccanismi si possono aprire spazi di autonomia che lasciano ai soggetti dei margini per una libera costituzione di sé. In tal senso l’indagine sulla cura di sé nel mondo antico sembra offrire la prova concreta dell’esistenza di una simile possibilità[1].
Se è vero che la preoccupazione della cura di sé è da considerare anteriore alla nascita della filosofia, è altrettanto certo che è proprio con l’avvento di questa e in modo particolare con Socrate e Platone, che essa trova una prima compiuta trattazione e che viene posta in stretta relazione al precetto delfico che prescrive di conoscere sé stessi. Foucault vede dipanarsi dal momento socratico-platonico due diverse linee di sviluppo. La prima, che ha poi finito per prevalere sotto l’effetto del cristianesimo, avrebbe teso a identificare la cura di sé con la conoscenza di sé, la seconda, che ha invece conosciuto il suo momento di massima fioritura nel periodo ellenistico e romano per poi inabissarsi, avrebbe invece inteso la cura di sé come esercizio e pratica volti a produrre una trasformazione nel soggetto.
Nelle pagine seguenti si cercherà di mostrare come, secondo la lettura foucaultiana, in entrambe le linee di sviluppo giochi un ruolo strategico la memoria e come la distanza tra le due possa misurarsi proprio nel diverso modo di interpretare il ruolo da questa assunto in ordine all’istanza della cura di sé. La prima tradizione, quella che tende a identificare la cura con la conoscenza, vede la memoria come il luogo dal quale trarre la verità, sia essa una verità eterna ed universale, secondo il modello platonico, sia essa la verità individuale del singolo soggetto, secondo il paradigma cristiano della confessione[2]. L’altra tradizione, quella che intende la cura come esercizio di trasformazione, tende invece a vedere la memoria come una materia da plasmare per dar forma a sé stessi e alla propria vita.
Questa seconda linea di sviluppo, cui Foucault attribuisce il nome di estetica dell’esistenza contrapponendola alla metafisica dell’anima platonico-cristiana, sembra essere il modello al quale il filosofo francese guarda in vista dell’attuazione di nuove pratiche di sé capaci di svincolare i soggetti dalla cattura da parte dei dispositivi di sapere-potere.
Scrittura, memoria e cura di sé nel momento socratico-platonico
Nel celebre mito egizio narrato da Socrate nel Fedro, Theuth presenta a Thamous la sua nuova invenzione, la scrittura, come un farmaco per la memoria, capace di scongiurare il rischio dell’oblio. Thamous replica che l’effetto della scrittura sulla memoria è esattamente il contrario di quello prospettato da Theuth. Gli uomini, affidandosi ad essa, non cureranno più la memoria.
E ora tu, come padre della scrittura, per affetto hai detto il contrario di quello che è il suo potere. Perché essa apporterà l’oblio nelle anime di coloro che l’hanno appresa, per negligenza della memoria (mnémes ameletesìa), in quanto, per fiducia nella scrittura, giungeranno a ricordare dall’esterno attraverso segni estranei, e non dall’interno autonomamente da sé stessi; dunque, non della memoria (mnémes), ma della rammemorazione (hypomnéseos) hai trovato il farmaco[3].
Ad un sapere apparente, depositato su supporti esterni, Socrate contrappone un sapere autentico, che trova il luogo della sua inscrizione nell’anima. Solo chi sia già in possesso del sapere può trarre giovamento dalla scrittura, nella misura in cui questa può servire a richiamare alla memoria ciò che già si conosce e che, in ultima analisi, è già presente nella memoria[4]. Ciò che è in gioco non è la distinzione tra una memoria esterna affidata alla scrittura ed una memoria interna, ma tra un’assimilazione profonda del discorso e una memorizzazione acritica e superficiale[5]. Si profila a questo punto la distinzione tra due diverse forme della memoria. Una, del tutto simile alla scrittura vera e propria, offre solo una simulazione del sapere, l’altra, più profonda, consiste nel diventare tutt’uno con il discorso, in virtù di un lavoro che mette in gioco tutto l’essere del soggetto. Da una parte, dunque, abbiamo una scrittura che, pur depositandosi nella memoria, la lascia immutata, dall’altra abbiamo una scrittura che imprimendosi nella memoria, la trasforma, diventa parte integrante del soggetto che la ospita.
La metafora della scrittura sembra determinare, nel discorso di Platone, una duplicazione infinita tra un fuori e un dentro della memoria. All’esteriorità della scrittura propriamente detta si contrappone l’interiorità della scrittura dell’anima, ma questa si sdoppia ancora nel fuori di una memoria puramente mimetica che simula la verità che riproduce e nel dentro di una memoria autentica che incarna la verità. Questa verità incarnata, tuttavia, è ancora la copia di un’altra verità. Il gioco dei duplicati si duplica ancora. La scrittura dell’anima rimanda ancora al fuori, ad un’alterità. L’anima, infatti, non basta a sé stessa. Occorrerà ricorrere, ad esempio, all’insegnamento di un maestro. Questi, tuttavia, non insegna in virtù del proprio sapere, ma in virtù del proprio non sapere, traendo la conoscenza, non dalla propria anima, ma da quella dell’allievo. Ciò presuppone che la verità sia già da sempre inscritta nell’anima, ma che questa non sia in grado di accedere a sé senza uscire da sé, senza passare attraverso la mediazione dell’altro. Da una parte, dunque, la conoscenza si identifica con la conoscenza di sé, dall’altra, per realizzarsi, sembra dover passare attraverso l’esteriorità del rapporto con un altro che opera come uno specchio attraverso il quale potersi guardare. La metafora del rispecchiamento ha un ruolo strategico nell’Alcibiade primo di Platone, che rappresenta, agli occhi di Michel Foucault, la prima trattazione sistematica del problema della cura di sé.
Alcibiade è un giovane bello e ambizioso, proviene da una delle famiglie più importanti di Atene, è ricco, ha molti amici influenti e, sebbene non abbia più i genitori, ha un tutore d’eccezione quale è Pericle. Tuttavia, nonostante goda di una simile condizione di privilegio, egli ammette che preferirebbe morire piuttosto che dover passare tutta la vita nella medesima condizione. Vorrebbe invece trasformare il proprio privilegio in un ruolo politico attivo e assumere la guida della città. Ed è proprio questa volontà di trasformare sé stesso ad attrarre l’attenzione di Socrate. La questione della cura di sé si pone qui all’altezza di questa transizione tra un certo status privilegiato e la vita politica attiva.
Socrate interroga Alcibiade su cosa significhi governare la città, su cosa siano la giustizia e la concordia e, in ultimo, porta il giovane ad ammettere la propria ignoranza. Troviamo dunque una prima trasformazione che è quella che, da una condizione di ignoranza della propria ignoranza, porta ad una presa di coscienza, a quella che potremmo definire una conoscenza negativa di sé, ovvero una conoscenza dei propri limiti, del proprio non sapere. Questa presa di coscienza induce Alcibiade a disperare, ma a questo punto Socrate gli spiega che se avesse cinquant’anni allora sì che non ci sarebbe più nulla da fare, ma lui è giovane e dunque è proprio nella condizione ideale per occuparsi di sé stesso.
Si impongono, a questo punto, due questioni. In primo luogo, occorrerà capire in cosa consista questo sé stesso di cui ci si deve prendere cura, in secondo luogo bisognerà comprendere come prendersene cura. Al primo quesito Alcibiade dovrà rispondere che ciò di cui ci si deve prendere cura è l’anima e non i nostri beni o il nostro corpo. L’argomentazione della quale Socrate si serve per giungere a questa conclusione riveste, agli occhi di Foucault, un ruolo fondamentale in quanto ci dice qualcosa rispetto alla concezione dell’anima che emerge dall’Alcibiade. Il ruolo strategico è ricoperto dalla nozione di uso, in greco chresis. L’anima, infatti, è qui concepita in una relazione con gli oggetti, con il corpo e con gli altri mediata dall’uso. Il temine chresis non sta tuttavia ad indicare un impiego meramente strumentale. Prova ne sia che il verbo chrestai compare in una varietà di espressioni in cui in generale si fa riferimento a un certo modo di agire o di essere in relazione con qualcosa. Foucault ricorda, ad esempio, espressioni come ubrischos chrestai (usare violenza), o theois chrestai, che non indica certamente un uso strumentale degli dèi, ma un certo modo corretto di essere con loro in relazione, ad esempio mediante il culto. Sulla scorta di simili considerazioni linguistiche Foucault giunge a concludere che “Platone non ha assolutamente scoperto l’anima-sostanza. Quel che ha scoperto è piuttosto l’anima-soggetto”[6]. Ciò di cui Alcibiade dovrà prendersi cura sarà, dunque, la propria anima in quanto modalità di rapportarsi al corpo, al mondo, agli altri e a sé. Quest’ultimo tipo di attività, quella appunto mediante la quale ci si rapporta a sé, sarà non solo il campo privilegiato della cura di sé, ma anche lo spazio entro il quale si situa il rapporto tra maestro e discepolo. Ciò di cui Socrate si prende cura, prendendosi cura di Alcibiade, è il suo rapporto con sé stesso e dunque, in ultimo, la sua cura di sé.
Dopo aver chiarito che ciò di cui ci si deve prendere cura è la propria anima, si tratterà di comprendere quale sia la natura di tale cura. La risposta, osserva Foucault, è immediata. Prendersi cura della propria anima vorrà dire conoscerla. Ma come potrà l’anima conoscere sé stessa? È a questo punto che interviene la metafora del rispecchiamento. Come l’occhio ha bisogno di un altro occhio nel quale guardarsi come in uno specchio, così l’anima, per vedere sé stessa, avrà bisogno di rispecchiarsi in un’altra anima. Dato che il luogo esatto del rispecchiamento dell’occhio nell’occhio dell’altro è la pupilla, ovvero il punto che racchiude in sé la natura dell’occhio in quanto capace di vedere, anche l’anima dovrà cercare nell’anima dell’altro il principio della sua stessa natura. Tale principio si identifica con la facoltà di conoscere che troviamo nell’anima dell’altro, ma, in sommo grado, nel divino[7]. Il rapporto con l’altro diviene in questo modo occasione per il riconoscimento del divino presente in noi. Il percorso della cura e della conoscenza di sé sembra iniziare con una conversione dal mondo esterno alla propria anima; tuttavia, questa conversione richiede la relazione con l’anima di un altro uomo, mediante la quale potremo trovare non già la nostra identità, ma il divino in noi. Questo complesso percorso conduce ad una dimensione anteriore a quella della memoria individuale, ad una memoria intemporale. La traccia del divino presente nell’anima, riattivata dal complesso gioco di rimandi tra il dentro e il fuori, dà accesso ad una memoria altrimenti inaccessibile, alla memoria come anamnesi. La cura di sé, in questa prospettiva, si rivela cura di una memoria capace di risalire oltre il sé per attingere alla dimensione universale delle verità eterne.
Come abbiamo anticipato, Foucault rintraccia in Platone non solo un modello di cura di sé incentrato sul primato dell’istanza conoscitiva, ma anche un modello alternativo che intende la cura nei termini di una pratica volta a mettere alla prova la coerenza tra le verità professate e il modo in cui si è capaci di incarnare queste stesse verità. Questo secondo modello, che nella nostra ricezione contemporanea passa spesso in secondo piano, avrebbe trovato invece maggior fortuna nelle filosofie di età ellenistica e romana. Se il primo trova il suo testo paradigmatico nell’Alcibiade, il secondo emerge in modo particolare dal Lachete. In questo dialogo Nicia e Lachete dibattono sull’utilità dell’arte della guerra nell’educazione dei giovani, ma si trovano in totale disaccordo. Socrate interviene sostenendo che il vero problema sia quello di comprendere come si debbano educare i giovani, ovvero come ci si debba prendere cura della loro anima. Fingendo di non essere esperto in tale arte, propone di sottoporre ad esame Lachete e Nicia, allo scopo di individuare chi, tra i due contendenti, possa essere ritenuto più attendibile. Le parole con le quali Nicia manifesta la propria entusiastica adesione a tale proposta sono per Foucault particolarmente rivelative. L’immagine che Nicia offre di Socrate non è quella del sapiente e nemmeno quella del maestro che, mediante l’ironia e la maieutica, conduca alla conoscenza, ma quello di un interlocutore capace di costringere a dire la verità su sé stessi[8]. Questo resoconto, tuttavia, non deve essere inteso come una sorta di narrazione autobiografica o di confessione. Si tratta invece, come rileva Foucault, di un resoconto razionale volto a valutare l’armonia tra logos e bios, tra i propri discorsi e il modo in cui si conduce la propria vita[9]. Socrate può svolgere una simile indagine sugli altri in quanto rappresenta ai loro occhi una sorta di pietra di paragone. Egli, infatti, incarna quel rapporto armonico tra logos e bios rispetto al quale i suoi interlocutori sono costretti a rendere conto. Ciò fa di Socrate un mousikòs anér, un individuo in grado di accordare la propria vita come il musicista accorda la lira[10]. L’arte di cui Socrate dà qui prova, tuttavia, non è altro che l’arte di vivere. Non c’è nemmeno bisogno che egli renda conto della sua vita mediante il discorso, in quanto è la sua stessa vita, il suo stile di vita, a testimoniare per lui.
Nelle pagine del Lachete la conoscenza di sé “non ha la forma dell’autocontemplazione dell’anima nello specchio della sua stessa divinità”, ma “prende la forma della prova […] dell’esame, dell’esercizio che riguarda il modo di comportarsi. E determina un modo di dire-il-vero che non definisce il luogo di un possibile discorso metafisico; determina un modo di dire il vero che ha il ruolo e il fine di dare a questo bios (a questa vita, a questa esistenza) una certa forma”[11]. Si delinea qui, in ultima analisi, un modello alternativo della cura di sé che troverà la sua piena realizzazione nella cultura filosofica ellenistica e romana, quando il nesso tra cura, verità e memoria subirà una profonda riorganizzazione.
Arti della memoria e creazione di sé nell’età ellenistico-romana
Nell’Alcibiade – ma il discorso vale in larga misura per tutto il platonismo e per il neoplatonismo, che fa proprio dell’Alcibiade uno dei suoi testi di riferimento imprescindibili[12] – il tema della conoscenza di sé si poneva in un rapporto strettissimo con quello della conoscenza della verità. Tale verità, inoltre, si presentava come una verità assoluta, universale, metastorica e il ritorno a sé costitutiva una tappa del processo di elevazione al piano del divino e del mondo iperuranio. Per le filosofie di età ellenistica e romana non si tratterà più di riportare alla luce una verità sepolta nell’anima mediante la reminiscenza, ma di imprimere nella memoria una verità proveniente dall’esterno e capace di produrre una trasformazione nel soggetto[13].
Qui abbiamo un movimento molto diverso da quello prescritto da Platone quando chiede all’anima di rivolgersi a sé stessa per ritrovare la sua vera natura. Ciò che Plutarco o Seneca suggeriscono, è invece l’assorbimento di una verità data da un insegnamento, da una lettura, o da un consiglio; e la si assimila fino a farne una parte di sé stessi, fino a farne un principio interno, permanente e sempre attivo di azione. In una pratica come questa, non si ritrova più una verità nascosta nel fondo di sé stessi attraverso il movimento della reminiscenza; ma si interiorizzano delle verità ricevute attraverso un’appropriazione sempre più profonda[14].
Con l’espressione verità ricevute Foucault si riferisce ai principi ai quali si è deciso liberamente di aderire e non a delle idées reçues assimilate, indipendentemente dalla propria volontà, mediante l’educazione o attraverso altre forme di condizionamento culturale. Rispetto a queste idee ricevute, ma non scelte, occorre anzi svolgere un lavoro di decostruzione, nella misura in cui esse si sono radicate profondamente nel soggetto prima che questi potesse esercitare il proprio vaglio critico. Si profila qui un lavoro negativo sulla memoria che procede per via di levare, ma che non è orientato a rinvenire al di sotto delle tracce che i dispositivi di sapere-potere hanno lasciato impresse nel soggetto, costituendolo dall’esterno, una qualche soggettività autentica. “La pratica di sé si impone, ora, a partire da un fondo fatto di errori, di cattive abitudini, nonché di deformazioni e di dipendenze, ormai cristallizzatesi e incrostatesi, che occorre scrollarsi di dosso”[15]. Foucault rileva come Seneca nella lettera 50 a Lucilio, riportando in auge una nozione cinica, affermi che “virtutes discere significa innanzitutto vitia dediscere”[16].
Il momento decostruttivo non è tuttavia sufficiente. E non basta nemmeno scoprire nuove verità. Si tratta invece di farsi tutt’uno con la verità. A tale scopo diventa ora necessario che i discorsi appresi vengano assimilati mediante una serie di pratiche e di esercizi continui. Entra qui in gioco uno strato profondo della memoria che viene fatto oggetto non di uno scavo volto a trarne verità nascoste, ma di uno sforzo plastico volto a imprimere alla memoria la forma della verità. La cura di sé non potrà ridursi alla conoscenza di sé, ma diventerà áskesis, esercizio. Il gnóthi seautón, in questa pratica ascetica, assume un significato nuovo, quello di un esame costante di sé finalizzato a sincerarsi che le verità apprese siano entrate a far parte del soggetto, che lo costituiscano, che lo plasmino a tal punto da orientare la sua condotta[17].
Per dire le cose in maniera schematica: in Platone l’esercizio, la áskesis era uno strumento utile per aiutare la reminiscenza che scopriva la parentela tra l’anima e le essenze. Nelle tecniche filosofiche di cui sto parlando, l’apprendimento e la memorizzazione sono degli strumenti utili per questa áskesis il cui obiettivo è far sì che la verità parli in noi e agisca continuamente in noi[18].
Le tecniche volte ad assicurare una simile appropriazione della verità sono vere e proprie arti della memoria. Il ritorno a sé (anachóresis eis heautón) di cui parla Marco Aurelio non è più la scoperta di una verità trascendente che riposa nella propria anima, ma “l’esame delle ricchezze che vi si sono deposte: si deve avere in sé stessi una sorta di libro che si rilegge di tanto in tanto. Qui si incrocia la pratica delle arti della memoria che [Frances] Yates ha studiato”[19]. Lo scopo di queste arti della memoria non è né quello di “scoprire una verità nel soggetto, né di fare dell’anima il luogo in cui risiede la verità per mezzo di una parentela essenziale o un diritto originario”, ma è quello di “armare il soggetto di una verità che non conosceva e che non risiedeva in lui” di “legare la verità al soggetto”[20].
Da questa diversa concezione della memoria deriva anche un modo diverso di intendere la relazione tra maestro e allievo. Se Socrate spronava i suoi interlocutori a parlare e impiegava l’ironia, la confutazione e la maieutica, allo scopo di trarre dalle loro anime ciò che sapevano senza sapere di saperlo, “per gli stoici o gli epicurei (così come nelle sette pitagoriche), il discepolo deve innanzitutto tacere e ascoltare. In Plutarco o in Filone di Alessandria troviamo tutta una regolamentazione del buon ascolto (attitudine fisica da assumere, maniera di dirigere la propria attenzione, maniera di trattenere ciò che è stato detto)”[21].
Anche la scrittura riveste ora un ruolo del tutto nuovo. Se per Platone era un veleno per la memoria, ora fiorisce una pratica della scrittura volta a preservare dall’oblio e tener sempre sottomano quanto si è appreso, non solo da un maestro, ma anche da una lettura o da una conversazione o da una propria riflessione. Si tratta dei cosiddetti hypomnémata, una sorta di quaderni da tenere a portata di mano per poter riportare alla memoria le verità apprese ritenute importanti. Essi non erano, tuttavia, dei semplici supporti esterni per la rammemorazione, ma dovevano costituire un archivio sempre a portata di mano “per esercizi da effettuare frequentemente: leggere, rileggere, meditare, discorrere con sé stessi e con gli altri”[22]. Seneca vede nella scrittura una pratica complementare alla lettura. Leggere troppi libri è dispersivo e questa dispersione rende fragili e instabili, incapaci di affrontare le mutevoli circostanze della vita. La scrittura, invece, aiuta a “raccogliere la lettura” e a “raccogliersi in essa”[23]. Il molteplice così raccolto mediante la scrittura non deve trovare la sua sintesi nella scrittura medesima, ma nello scrittore. “Seneca paragona questa sintesi, secondo metafore molto tradizionali, al bottinare dell’ape o alla digestione degli alimenti o anche all’addizione delle cifre che formano una somma”[24]. Secondo questa metafora la scrittura assume il valore di un processo di incorporazione, mediante il quale le verità scelte entrano a costituire il soggetto e diventano un principio di azione. La scrittura di sé propria degli hypomémata non ha nulla a che vedere con l’oggettivazione della verità interiore del soggetto, tipica di quel paradigma autobiografico che trova verosimilmente la sua origine nella pratica della confessione cristiana; si tratta, al contrario, di un processo di soggettivazione di una verità appresa dall’esterno.
Per quanto possano essere personali, gli upomnήmata non vanno considerati come dei diari intimi o come quei racconti di esperienza spirituali […] che si potranno trovare nella letteratura cristiana posteriore. Non costituiscono un “racconto di sé stessi”; non hanno l’obiettivo di illuminare gli “arcana conscientiae”, la cui confessione – orale o scritta – ha valore di purificazione. Il movimento che cercano di effettuare è inverso: non si tratta di perseguire l’indicibile, di svelare il nascosto, di dire il non detto, ma di conquistare il già detto, di riunire quello che si è potuto ascoltare o leggere, e questo nientemeno che per la costituzione di sé[25].
I filosofi di età ellenistica e romana si sottoponevano a continue prove volte a testare ed allenare la propria paraskeué, ovvero la propria preparazione alla vita. Queste prove assumevano spesso la forma di esperienze mentali che agivano sulla memoria, in modo tale che questa diventasse la matrice della condotta. Si tratta di ciò che i greci chiamavano meléte e che il latino traduce meditatio.
Il senso un po’ vago che oggi diamo a questo termine non ci deve far dimenticare che si trattava di un termine tecnico. Era attinto dalla retorica: designava il lavoro a cui ci si dedicava per preparare un’improvvisazione; si ripassavano mentalmente i temi principali, gli argomenti efficaci, in maniera da rispondere alle obiezioni possibili. […] La meditazione filosofica è dello stesso genere. Essa comporta una parte di memorizzazione e di riattivazione di ciò che si sa; ma anche una maniera di porsi con l’immaginazione in una situazione possibile[26].
Si trattava in primo luogo di richiamare alla memoria i principi appresi e in secondo luogo di immaginare situazioni concrete capaci di mettere alla prova il grado di assimilazione di quegli stessi principi. Tra questi esercizi bisogna ricordare la praemeditatio malorum, praticata soprattutto dagli stoici[27], che consisteva nell’immaginare che fosse in procinto di realizzarsi o che si fosse già realizzata, tra tutte, la peggiore delle eventualità[28]. Persino la morte era oggetto di simili esercizi, nella cosiddetta mélete thanátou. Come rileva Foucault la meditazione della morte permette “di gettare, per così dire in anticipo, uno sguardo retrospettivo sulla propria vita”[29], per commisurare ciascuna delle nostre azioni alle verità che abbiamo provato ad incarnare. Così scrive Seneca a Lucilio:
Per conoscere i miei veri progressi mi affiderò alla morte. Perciò mi preparo senza timore a quel giorno in cui, tolti di mezzo raggiri e finzioni, potrò giudicare se la virtù è da me sentita nell’intimo, o se l’ho solo sulle labbra[30].
La meléte thánatou si presenta dunque come un’anticipazione della morte che offriva l’occasione di guardare alla vita dalla prospettiva della fine della vita, per valutare la coerenza tra i discorsi assunti come veri e la propria condotta. Si trattava di una pratica non dissimile dal cosiddetto esame di coscienza, che consisteva nel ripercorrere nella memoria gli eventi della giornata appena trascorsa per valutare il grado di radicamento nella memoria dei discorsi appresi. Giocano qui due diversi livelli della memoria, un primo livello, più superficiale, rappresentato dalla memoria dei fatti della giornata appena trascorsa, il secondo livello, più profondo, che conserva i principi ai quali si vuole conformare la propria condotta. Più le azioni del giorno risulteranno conformi ai principi, più si dovrà ritenere che questi siano sedimentati nella memoria al punto da costituire la matrice delle proprie azioni. Ciò che è in gioco in quest’arte della memoria è la costituzione del soggetto, la trasformazione del sé. L’attività che, mediante questi esercizi, il soggetto compie su sé stesso è paragonabile, secondo un’immagine alla quale ricorre anche Plutarco[31], a quella di un artista che, nel corso del suo lavoro, faccia una pausa per controllare che la sua opera corrisponda al progetto, al modello, che sia realizzata secondo le regole dell’arte così come esse sono state apprese.
Questi esercizi appartengono a quella che potremmo definire una “estetica del sé”. Poiché il problema non è di prendere partito o posizione rispetto a sé stessi come un giudice che debba pronunciare un verdetto. Ci si può comportare con sé stessi come un tecnico, o un artigiano, o un artista che – di tanto in tanto – si ferma, esamina quello che sta facendo, si ripete le regole dell’arte e le rapporta al lavoro fin qui compiuto[32].
Conclusioni
Come si diceva in apertura, delle due linee di sviluppo che si dipartono dal momento socratico-platonico, ha finito per prevalere quella che ha come esito la fondazione di una metafisica dell’anima e che trova nell’Alcibiade il suo primo paradigma. L’altra tradizione, invece, dopo il periodo di splendore dell’età ellenistica e romana, ha finito per inabissarsi, senza tuttavia scomparire del tutto. Secondo Foucault, la stessa istanza della cura di sé, che ancora nel platonismo rappresentava la cornice entro cui si inscriveva il conosci te stesso, sembra essere stata accantonata a favore di quella della conoscenza. Sebbene l’analisi proposta da Foucault sia molto complessa ed articolata, possiamo dire che, nella sua interpretazione, un simile esito sia da ricondurre all’affermarsi del cristianesimo. In primo luogo, ciò che avrebbe determinato la perdita di rilevanza della cura di sé sarebbe stato un certo clima morale che perdura fino ai nostri giorni e che porta a vedere con sospetto qualunque atteggiamento di attenzione e ripiegamento verso sé stessi. Prendersi cura di sé, in questa prospettiva, significherebbe attuare una scelta egoistica ed edonistica a cui la morale cristiana contrapporrebbe una logica della rinuncia e del sacrificio di sé.
Un secondo ordine di considerazioni concerne il progressivo imporsi della conoscenza di sé come fondamento di ogni altra conoscenza. Se questo processo trova agli occhi di Foucault il suo compimento nella filosofia moderna e, segnatamente, in Cartesio, il suo inizio va cercato non dal lato della scienza, ma da quello della teologia cristiana, che ha istituito “il principio di un soggetto conoscente in generale, un soggetto cioè che trova in Dio il suo modello, il suo punto di compimento assoluto”[33]. Sebbene con argomenti diversi, anche Pierre Hadot attribuisce al pensiero cristiano la responsabilità di aver teoretizzato la filosofia antica per metterla al servizio della teologia, isolandola così dalle forme di vita in cui concretamente trovava attuazione[34].
Il terzo dei motivi che avrebbero determinato l’inabissarsi della cura di sé è infine legato all’affermarsi di una nuova forma di vita che, pur avvalendosi di alcune pratiche ascetiche mutuate dalla filosofia antica, ne trasformava profondamente il significato. Un completo rovesciamento della cultura classica del sé “si è prodotto quando il cristianesimo ha sostituito l’idea di un sé al quale si doveva rinunciare (poiché avvinghiarsi a sé stessi significa opporsi alla volontà di Dio) all’idea di un sé che doveva essere creato come un’opera d’arte”[35]. La cura di sé cessava così di essere un’estetica dell’esistenza per diventare un’ermeneutica del sé volta a far emergere la verità del soggetto per liberarsene in vista di un avvicinamento a Dio. Risulta significativa, in tal senso, la trasformazione della pratica della scrittura di sé. I taccuini impiegati dai filosofi antichi non erano in alcun modo assimilabili a forme di scrittura autobiografica. In essi veniva piuttosto raccolto un sapere, per lo più tradizionale o appreso all’interno di una scuola o ricavato da letture significative, che doveva servire ad orientare e informare la propria vita. Con il cristianesimo le cose cambiano radicalmente. Assistiamo a una vera e propria inversione del rapporto con la verità. Non si tratta più di imprimere nella memoria una verità capace di trasformare il soggetto, ma di estrarre dall’anima la sua verità profonda. L’esercizio della scrittura assume sempre più i tratti di una oggettivazione del sé capace di far emergere e di dare corpo al fondo oscuro dell’anima. Ma portare in luce l’ombra vuol dire dissolverla e, dunque, liberarsene.
La forma di vita monastica implica una profonda trasformazione anche nella direzione di coscienza. Mentre il rapporto tra maestro e discepolo mirava all’autonomia del secondo, ora la regola dell’obbedienza e l’obbligo di dire la verità su sé stessi informano una relazione che si configura come un rapporto permanente di subordinazione.
Giovanni Crisostomo ripete un antico principio della tradizione orientale: “Qualsiasi cosa un monaco faccia senza il permesso del proprio maestro costituisce un furto”. La pratica dell’obbedienza significa dunque sottomissione completa del proprio comportamento al controllo del maestro, e non prevede alcuna situazione finale di autonomia del discepolo. Si tratta di un sacrificio di sé, che si realizza nella rinuncia alla volontà propria del soggetto: in questo, dunque, consiste la nuova tecnologia del sé. […] Il sé si costituisce attraverso l’obbedienza[36].
È in virtù della regola dell’obbedienza che le tecnologie del sé possono essere poste al servizio delle tecnologie volte a governare gli uomini. Il fine da perseguire non è più quello di mettere il soggetto nella condizione di costituire sé stesso in modo autonomo, ma di renderlo oggetto di un processo di assoggettamento.
Questo profondo cambiamento di prospettiva si è sedimentato nella cultura occidentale ed è arrivato fino ai nostri giorni.
“A partire dal Settecento le cosiddette scienze umane hanno recuperato le antiche tecniche di verbalizzazione”[37], ma le hanno inserite all’interno di un contesto che non è più quello della rinuncia al proprio sé, ma quello della costituzione di un nuovo sé. Foucault individua una continuità tra la tecnologia del sé cristiana, con il suo obbligo di dire il vero su stessi, e le tecniche psicologiche e psicoanalitiche. Sebbene Foucault riconosca nella psicoanalisi uno dei luoghi della riemersione dell’esigenza antica della cura di sé, essa non può configurarsi come un ritorno all’estetica dell’esistenza che aveva caratterizzato la filosofia antica proprio nella misura in cui il tipo di rapporto che il soggetto sembra intrattenere con sé stesso in queste pratiche non è di tipo etopoietico, bensì ermeneutico-conoscitivo. L’obbligo di confessare a un altro la verità su sé stessi, sui propri pensieri e desideri, sui propri ricordi consapevoli, ma anche su quelli inconsci, sembra essere arrivato intatto fino al divano di Freud. Persino i movimenti di liberazione sembrano aver conservato l’idea, ereditata dall’ermeneutica cristiana del sé, dell’esistenza di un vero sé che debba essere riscoperto e liberato. Ma, domanda retoricamente Foucault, «abbiamo davvero ancora bisogno di questa ermeneutica del sé»? E subito risponde:
Forse il problema che riguarda il sé non è scoprire cosa esso sia nella sua positività, non è scoprire un sé positivo o il fondamento positivo del sé. Forse il nostro problema, oggi, è scoprire che il sé non è nient’altro che il correlato storico [delle tecnologie] che abbiamo costruito nella nostra storia. Forse il problema, oggi, è cambiare queste tecnologie, [o sbarazzarcene, sbarazzandoci così del sacrificio ad esso connesso]. In questo caso, uno dei principali problemi politici dei nostri giorni sarebbe, alla lettera, la politica di noi stessi[38].
Solo trasformando profondamente le tecnologie del sé, sostituendole o, addirittura sbarazzandocene, sarà possibile, secondo Foucault, fondare una simile politica di sé stessi, ovvero un’arte di autogovernarci o, per lo meno, per usare un’espressione con la quale Foucault designa la critica, un’arte di non essere eccessivamente governati[39]. L’estetica dell’esistenza assurge così a prassi politica in quanto l’arte di costituire sé stessi arriva a configurarsi come il luogo strategico di ogni possibile resistenza al potere.
In questa prospettiva, come si diceva all’inizio, il lavoro condotto da Foucault sulla filosofia antica ha una funzione prospettica e trasformativa. Serve a mostrare come sia stata possibile, e dunque possa essere possibile ancora una volta, una forma di rapporto a sé che non sia fondato sull’obbligo di dire la verità su stessi, di far emergere alla luce della coscienza il segreto nascosto e inconfessabile, ma sulla forza di imprimere nella memoria e, attraverso questa, nelle nostre condotte, una verità appresa e alla quale si è scelto di aderire. Abbandonare il paradigma dell’ermeneutica del sé per quello dell’estetica dell’esistenza significherà concepire il sé non più come un testo oscuro da decifrare e da tradurre, ma come un testo ancora da scrivere, come una materia a cui dar forma sottraendola ai meccanismi di sapere-potere entro cui una lunga tradizione la costringe ancora. È chiaro, tuttavia, che un semplice ritorno al passato non è possibile e che gli strumenti offerti dalla filosofia antica rischiano di risultare inefficaci e spuntati se non facciamo uno sforzo per adeguarli al presente e se non ci facciamo carico di quello spazio dell’interiorità che l’ermeneutica del sé ha aperto e che non può essere richiuso con un semplice atto della volontà. Come rapportarsi a questo spazio interiore in un modo che non sia quello dell’interpretazione e della messa a nudo della verità latente, ma quello dell’esercizio, della prova e, in ultimo, dell’arte di vivere?
[1]Deleuze, Gilles. Pourparler, 108. Macerata: Quodlibet, 1999. Foucault, Michael. Tecnologie del sé, 10. Torino: Bollati Boringhieri, 1992.
[2]Paradigma, è appena il caso di ricordarlo, che se valorizza e fa emergere la verità del singolo, non per questo trascura la dimensione universale e trascendente della verità eterna. Come nel platonismo, anche in Agostino, il ritorno a sé, la conversione dello sguardo dal mondo esterno all’interiorità, prepara l’elevazione al divino.
[3]Platone. Fedro, 275a. Tradotto da Fulvia De Luise. Bologna: Zanichelli, 1997.
[4]Platone, 275 d.
[5]Come ha rilevato Fulvia De Luise, qui la contrapposizione non è semplicemente quella tra scrittura e oralità, ma tra una parola fatta oggetto di acritica appropriazione e una parola interiorizzata, accolta perché si presenta ben fondata razionalmente (De Luise, Fulvia. Commentario, 227. Bologna: Zanichelli, 1997).
[6]Foucault, Michel. L’ermeneutica del soggetto, 51. Tradotto da Mauro Bertani. Milano: Feltrinelli, 2011.
Su questa interpretazione della nozione di uso si veda anche Agamben, Giorgio. L’uso dei corpi. Vicenza: Neri Pozza, 2014.
[7]Platone. Alcibiade primo, 132d – 133c. Tradotto da Giovanni Reale. Milano: Bompiani, 2015.
[8]Platone. Lachete, 159. Tradotto da Giovanni Reale. Milano: Bompiani, 2015.
[9]Foucault, Michel. Discorso e verità nella Grecia antica, 63. Tradotto da Adelina Galeotti. Roma: Donzelli, 2005.
[10]Platone. Lachete, 159-161. Tradotto da Giovanni Reale. Milano: Bompiani, 2015.
[11]Foucault, Michel. Il coraggio della verità. Corso al Collège de France (1984), 159-160. Tradotto da Mauro Galzigna. Milano: Feltrinelli, 2016.
[12]“Albino, un autore del II secolo, diceva che ogni uomo “naturalmente dotato” e giunto all’età di filosofare, se voleva tenersi al riparo dalle agitazioni politiche e praticare la virtù, doveva cominciare con lo studio dell’Alcibiade, e ciò al fine di “rivolgersi verso sé stesso” e di determinare quale deve essere “l’oggetto delle sue cure”. Più tardi, Proclo diceva che questo testo doveva essere considerato “arkhé apáses philosophias”, principio e cominciamento di tutta la filosofia. Olimpiodoro, paragonando l’insieme del pensiero platonico a un recinto sacro, faceva dell’Alcibiade i “propilei” del tempio, il cui áduton sarebbe stato il Parmenide”. Foucault, Michel. Dir vero su stessi. Conferenze all’Università Victoria. Toronto, 1982, 41. Napoli-Salerno: Orthotes, 2020. Si veda anche, Foucault, 60.
[13]Foucault, Michel. Dir vero su se stessi. Conferenze all’Università Victoria. Toronto, 1982, 44. Traduzione italiana di Filippo Domenicali. Napoli-Salerno: Orthotes, 2020.
[14]Foucault, 84.
[15]Foucault, Michel. L’ermeneutica del soggetto, 85. Tradotto da Mauro Bertani. Milano: Feltrinelli, 2011.
[16]Foucault, 86.
[17]Foucault, Michel. Dir vero su se stessi. Conferenze all’Università Victoria. Toronto, 1982, 107. Traduzione italiana di Filippo Domenicali. Napoli-Salerno: Orthotes, 2020.
[18]Foucault, 85.
[19]Foucault.
[20]Foucault.
[21]Foucault, 84-85.
[22]Foucault, Michel. “La scrittura di sé”. In Foucault, Michel. Estetica dell’esistenza, 205. Tradotto da Sabrina Loriga. Milano: Feltrinelli, 2020.
[23]Foucault, 207.
[24]Foucault, 208.
[25]Foucault, 205-206.
[26]Foucault, Michel. Dir vero su se stessi. Conferenze all’Università Victoria. Toronto, 1982, 86. Traduzione italiana di Filippo Domenicali. Napoli-Salerno: Orthotes, 2020.
[27]Gli epicurei respingevano tale pratica, alla quale preferivano l’evocazione di piaceri esperiti in passato (revocatio) o di cui si sarebbe potuto far esperienza in futuro (avocatio). In Foucault, L’ermeneutica del soggetto, 419-420.
[28]Per quanto riguarda la praemeditatio malorum si veda Foucault, L’ermeneutica del soggetto, 414-424.
[29]Foucault, Michel. Dir vero su se stessi. Conferenze all’Università Victoria. Toronto, 1982, 90. Traduzione italiana di Filippo Domenicali. Napoli-Salerno: Orthotes, 2020.
[30]Seneca, Lucius Annaeus. Lettere a Lucilio, 201-203. Tradotto da Giuseppe Monti. Milano: Rizzoli, 2018.
[31]Plutarco. Sul controllo dell’ira, 452f-452n. Tradotto da Renato Laurenti. Napoli: M. D’Auria, 1988.
[32]Foucault, Michel. Discorso e verità nella Grecia antica, 110. Tradotto da Adelina Galeotti. Roma: Donzelli, 2005.
[33]Foucault, Michel. L’ermeneutica del soggetto, 23. Tradotto da Mauro Bertani. Milano: Feltrinelli, 2011.
[34]Hadot, Pierre. Che cos’è la filosofia antica, 243. Tradotto da Elena Giovanelli. Torino: Einaudi, 2010.
[35]Foucault, Michel. “Sulla genealogia dell’etica: compendio di un work in progress (1983)”. In Dreyfus, Hubert Lederer, e Paul Rabinow. La ricerca di Michel Foucault (1983), 274. Firenze: Ponte alle Grazie, 1989.
[36]Foucault, Michael. Tecnologie del sé, 42-43. Tradotto da Saverio Marchignoli. Torino: Bollati Boringhieri, 1992.
[37]Foucault, 47.
[38]Foucault, Michel. Sull’origine dell’ermeneutica del sé, 92. Napoli: Cronopio, 2012.
[39]Foucault, Michel. Illuminismo e critica, 37-38. Tradotto da Paolo Napoli. Roma: Donzelli, 1997.
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