Maria Galdi, Università degli Studi dell’Aquila
E-mail: mariagaldi22@outlook.it
doi:
10.14672/VDS20242PR5
(https://doi.org/10.14672/VDS20242PR5)
La dissociazione è la struttura delle strutture:
lo Sdoppiamento del personaggio in due personaggi
è la più grande delle invenzioni letterarie
Pier Paolo Pasolini, Bestia da stile, VII.
Abstract
L’elaborato che qui si presenta è il risultato di uno studio incentrato sul tema del doppio e sul suo legame con il concetto di falsificazione. Cos’è il doppio se non un tentativo di ricreare qualcosa che già c’è, in una sua forma altra, che mira ad essere copia identica, ma irrimediabilmente falsa? Nonostante la volontà, profondamente radicata nel doppio, di essere indistinguibile rispetto al reale, a diventarne un calco perfetto, quanto segue sarà volto alla decostruzione di tale punto di vista, rivelando la natura falsificatoria e illusoria propria del doppio. Nel trattare un tale vasto tema si è attinto agli studi comparatistici di Massimo Fusillo, docente di Letterature Comparate e Teoria della Letteratura presso l’Università degli Studi dell’Aquila. I suoi testi sono stati fondamentali per lo sviluppo di quanto segue.
Si è scelto, dunque, di intraprendere un percorso di stampo comparatistico e diacronico in letteratura, non solo limitatamente a questo ambito. Si è infatti ritenuto opportuno introdurre un ulteriore elemento: quello cinematografico. Il cinema costituisce l’anello di congiunzione perfetto tra il tema del doppio e la sua rappresentazione più compiuta, che già avveniva in letteratura. Il cinema, emblema di falsificazione dai suoi albori, quanto nel contemporaneo, fa da ponte e da amplificatore al tema del doppio, che trova un terreno fertile nel quale germogliare. Verranno allora indagati i legami tra doppio, letteratura, cinema e, non in ultimo, psicanalisi. Questo è infatti un ulteriore fattore che completa una fitta rete di rimandi e interscambi reciproci: il doppio si fa elemento teorico, filosofico, ma anche tangibile e studiabile dalla lente cinematografica, nonché da quella clinica. Testi fondamentali riguardanti la materia cinematografica sono derivati dalla personale formazione accademica di chi scrive, in particolare dai corsi del professor Mirko Lino, docente di Cinema e Media e Storia del Cinema.
Volgendo poi lo sguardo all’ambiente mediale contemporaneo, verrà indagato l’ambito della tecnologia e del digitale, in relazione all’effetto Uncanny Valley, comune nel cinema e non solo, e al fenomeno del deep fake, come esempi di falsificazione profonda, proponendo essi la creazione di un doppio che tenta la scalata all’indistinguibilità (con risultati, come si vedrà, altalenanti) accomunati dall’essere esempi di creazione di un surrogato che altro non è che illusione, gioco di prestigio che può ingannare persino il proprio sé. Proprio facendo riferimento anche ad esempi concreti e contemporanei si vorrà giungere a dimostrare quanto sia insito nella natura stessa del tema del doppio il concetto di falsificazione del reale, a scapito invece di una concezione che vede in esso una perfetta rappresentazione del proprio sé, nel quale ritrovarsi e rispecchiarsi.
Keywords: doppio, falsificazione, cinema, dualità, deep fake
The paper presented here is the result of a study focused on the theme of the double and its connection to the concept of falsification. What is the double if not an attempt to recreate something that already exists, in another form, aiming to be an identical copy? Despite the deeply rooted desire of the double to be indistinguishable from reality, to become a perfect replica, the following will be aimed at deconstructing such a perspective, revealing the falsifying and illusory nature inherent in the double.
In addressing such a broad theme, comparative studies by Massimo Fusillo, a professor of Comparative Literature and Literary Theory at the University of L’Aquila, have been drawn upon. His texts have been fundamental for the development of what follows.
It was chosen, therefore, to embark on a comparative literary path, but not solely limited to this field. It was deemed appropriate to introduce an additional element: the cinematic. Cinema constitutes the perfect link between the theme of the double and its most complete representation, already occurring in literature. Cinema, emblematic of falsification from its beginnings to the contemporary era, serves as a bridge and amplifier for the theme of the double, finding fertile ground in which to flourish. The connections between the double, literature, cinema, and, last but not least, psychoanalysis will be investigated. This is an additional factor that completes a network of references and mutual exchanges: the double becomes a theoretical and philosophical element, but also tangible and analyzable through the cinematic lens, as well as the clinical one. Fundamental texts regarding cinematic matters have been derived from the personal academic background of the author, particularly from the courses of Professor Mirko Lino, a lecturer in Cinema and Media and the History of Cinema.
Turning then to the contemporary media environment, the realm of technology and the digital will be explored in relation to the Uncanny Valley effect, common in cinema and beyond, and the phenomenon of deep fake, as examples of deep falsification, proposing the creation of a double that attempts indistinguishability (with results, as will be seen, fluctuating) united by being examples of creating a surrogate that is nothing more than an illusion, a sleight of hand that can deceive even one’s own self. By referring to concrete and contemporary examples, the aim is to demonstrate how deeply ingrained in the nature of the double is the concept of falsification of the real, as opposed to a conception that sees it as a perfect representation of oneself, in which to find oneself and mirror oneself.
Keywords: doppelganger, forgery, cinema, duality, deep fake
[la responsabilità per le immagini in seno all'articolo è dell'autrice]
Introduzione
Al centro del seguente studio vi è il solco lasciato dal tema del doppio, analizzato come emblema della falsificazione[1] nel campo specifico del cinema e della letteratura, nonché in riferimento alle influenze degli studi psicanalitici. A tal fine, si è scelto di intraprendere un percorso di stampo comparatistico, facendo spesso riferimenti alla letteratura, come campo nel quale il tema del doppio ha trovato fertile applicazione, non volendo tralasciare i numerosi intrecci esistenti tra questi due elementi, portando poi il discorso a svilupparsi sino ad arrivare alla contemporaneità. L’obiettivo di questo lavoro è l’individuazione di un punto di vista ben preciso: il tema del doppio come falsificazione, creazione di un simulacro, di altro da sé, nel quale sulle prime è possibile rispecchiarsi, con il quale è possibile confrontarsi, ma dal quale in definitiva si rimane nettamente alterità, nonostante tutti i tentativi, umani e tecnologici, che si possano portare avanti. Verrà, infatti, indagato anche l’ambito tecnologico, in relazione all’effetto Uncanny Valley, comune nel cinema e non solo, e al fenomeno del deep fake, come esempi di una falsificazione profonda, che propone un doppio che tenta la scalata all’indistinguibilità, con risultati talvolta fallimentari, talaltra sorprendenti, in ogni caso però esempi della creazione di un surrogato che altro non è che illusione, gioco di prestigio che può ingannare persino il proprio sé. Si è scelto il cinema, oltre alla letteratura, poiché si è ritenuto che doppio e falsificazione siano saldamente legati in ambito cinematografico, in ciò che si può definire una sinergia dell’illusione perfetta.
Partendo proprio dai concetti di tema, campo tematico e tematizzazione, analizzati nel contesto dell’identità sdoppiata, verrà individuata la connessione che lega doppio e falsificazione. La metodologia adottata è, dunque, in questo caso di tipo comparatistico e diacronico, al fine di creare un dialogo tra letteratura e cinema. Prima di addentrare la discussione nel suo vivo, in un confronto tra origini e contemporaneo, in quanto il cinema può essere considerato albore delle moderne tecniche di falsificazione che oggi lo pervadono (il cinema, infatti, non muore, ma si trasforma, si riloca, muta la sua pelle e la sua forma, in consonanza ai cambiamenti del suo tempo), sarà interessante notare come tali tematiche si collochino, nella sfera cinematografica e non solo, nel dominio di un’ontologia che vede il cinema non come calco del reale, riflesso della realtà privo di alterazioni, ma piuttosto come risultato di una lettura ben diversa, capace di coinvolgere molti più elementi. Studi molto utili in tale senso, dunque, per approfondire, sono quelli relativi al realismo ontologico di Andrè Bazin, il quale, appunto, concepisce il cinema come calco del reale, proibendo il montaggio ed ammettendo come unico modello a cui aspirare l’oggettività della fotografia, ma anche e soprattutto quelli in contrapposizione a questo punto di vista, ovvero la visione che viene proposta da Edgar Morin ne Il cinema o l’uomo immaginario, testo che tende a rovesciare alcune idee di Bazin, in favore di una visione del cinema come produttore di immaginario, attento, dunque, ad alimentare le proiezioni della soggettività e gli aspetti onirici che accomunano spettatore e sognatore. Un cinema, dunque, non più specchio del reale, ma capace, invece, di oltrepassare lo specchio volando alto, lontano dalla realtà. L’aspetto onirico, che risulta essere il tratto più caratterizzante di tanto cinema delle origini, è inoltre oggetto di approfondimento grazie agli studi provenienti dall’ambito psicanalitico e filmologico. Quelle dello spettatore e del sognatore, dunque, non sono solo due condizioni vagamente simili, ma presentano, invece, numerosi punti in comune, che le rendono quasi del tutto sovrapponibili; non solo, anche il film e il sogno presentano molti elementi di contatto: radici comuni e profonde che arrivano fino al mito della caverna di Platone.
La riflessione incentrata sulla falsificazione prosegue poi in un contesto mutato: il contemporaneo, partendo da un fenomeno non raro nel cinema degli ultimi decenni. Si tratta del forte e ricercato realismo negli effetti speciali, che non porta sempre a risultati apprezzabili, ma può anzi generare un senso di fastidio, straniamento, denominato dagli studiosi effetto Uncanny Valley. Quest’ultimo interessante risvolto mostra quanto il film, in particolare quando questo è pregno della dualità propria del tema del doppio, sia considerabile esso stesso come un vero e proprio strumento di falsificazione.
Il tema del doppio si ritrova, dunque, ad essere oggetto di un’attenta indagine, attraverso lo studio delle sue molteplici apparizioni su pellicola e su pagina, declinate nelle sue varie sfaccettature ed approfondite assumendo punti di vista plurali. Questo studio vuole infatti dimostrare quanto sia insito nella natura stessa del tema del doppio il concetto di falsificazione del reale, a scapito invece di una concezione che vede in esso una perfetta rappresentazione del proprio sé, nel quale ritrovarsi e rispecchiarsi. Tutto ciò è attuato alla luce del saldo e duraturo legame tra cinema, doppio e falsificazione, tanto alle origini quanto nella contemporaneità. Proprio tale legame e le corrispondenze tra passato e presente hanno rappresentato lo stimolo che ha dato il via a questa trattazione: ritrovare nella contemporaneità del digitale, seppur con indispensabili adattamenti, degli echi delle origini, vuol dire rendersi conto di quanto il progresso, per quanto distante dai suoi matriciali antecedenti, porti con sé tracce sempre vive di un passato che non svanisce.
Definizioni e campo tematico dell’identità sdoppiata
Quello del doppio è innanzitutto un tema, ed è dunque utile iniziare da questo concetto, in opposizione a quello di motivo. Il tema è un quadro di riferimento con il quale è possibile leggere un’opera e viene considerato esemplificante da quell’opera e da una serie di opere correlate[2]. Il motivo, invece, viene in genere considerato come una manifestazione concreta di un tema, che può dunque definirsi il suo corrispettivo. Infine, si definisce topos un tema standardizzato e ricorrente, ormai ben sedimentato. Una volta definiti gli strumenti necessari all’approccio alla nozione di tema, dalla quale si passerà poi più propriamente all’indagine del tema del doppio nello specifico, è necessario soffermarsi sulla tematizzazione, ovvero quel processo ermeneutico attraverso il quale il critico è in grado di individuare il quadro di riferimento concettuale, cioè il tema, e di analizzarne gli elementi strutturali, formali e semantici sia nel singolo testo sia nelle ricorrenze in un insieme di testi. Il processo di tematizzazione, però, può essere messo in moto anche dai singoli lettori, i quali di volta in volta evidenziano e privilegiano i vari nuclei tematici a seconda del proprio background culturale e della propria esperienza, organizzando la loro personale ricezione del testo.[3] Il caso specifico del tema del doppio presenta non pochi problemi teorici legati proprio alla tematizzazione, trattandosi di «una costante transculturale ricca di implicazioni antropologiche e psicanalitiche, e quindi particolarmente adatta a misurare la dialettica con le numerosissime varianti storiche»[4]. Il doppio, infatti, è un tema ben radicato nell’antichità classica[5], diramatosi attraverso le epoche successive e in svariate letterature nazionali, soprattutto nel barocco e nel romanticismo. Si tratta dunque di una materia estremamente prolifica, dalla quale sono scaturiti innumerevoli risultati valenti. La definizione stessa del tema del doppio rappresenta, quindi, un problema particolarmente spinoso, poiché il rischio di darne una troppo generica o troppo metaforica è effettivamente alto, portando alla perdita di specificità e concretezza. Volendo ripercorrere, attraverso gli scritti degli autori che hanno esposto il loro punto di vista sul tema, in maniera diacronica, le diverse definizioni di doppio, si proverà a delineare una definizione più ristretta di doppio. Gli anni ‘70 del Novecento sono scenario di pubblicazione di alcuni importanti contributi legati agli studi sul doppio, con evidenti rimandi all’ambiente psicanalitico, provenienti dal saggio freudiano sul perturbante[6], sulla scia dell’opera di Otto Rank[7]. Robert Rogers pubblica, infatti, nel 1970, negli Stati Uniti, un saggio[8] nel quale distingue due possibili definizioni di doppio: il “doppio manifesto”, ovvero una definizione asciutta e ristretta di doppio, svalutata dall’autore, e “doppio latente”[9], che verrà ripresa in seguito, ritenuta più adatta, che risulterebbe meglio corrispondere alle funzioni psichiche del lettore, in quanto garante di una maggiore identificazione. In questo modo, però, la nozione di doppio perde il suo valore euristico: in ogni caso, infatti, nel quale due personaggi si troveranno ad avere un minimo di specularità, ci si troverebbe in presenza di un caso di sdoppiamento. La proposta di Rogers risulta allora essere un esempio di tematizzazione troppo poco rigorosa, facendo emergere un problema anche di tipo metodologico. Pochi anni dopo, ancora una volta in un saggio proveniente dagli Stati Uniti, Carl Keppler[10] propone la sua visione sull’argomento. L’autore introduce la nozione di “Second Self”, ovvero una concezione di identità ridotta a dualità, né oggettiva né soggettiva, che vede il suo scopo nell’integrazione di più personalità e nell’espansione del sé nella società. Questa proposta risulta innovativa ed interessante, ma al tempo stesso lascia emergere problematiche legate alla sua ampiezza, che causa il coinvolgimento di molti testi, alcuni dei quali risultano essere lontani dalle dinamiche di sdoppiamento. Una visione, insomma, troppo allargata e dispersiva. Per poter arrivare a una definizione del tema del doppio soddisfacente è necessario, dunque, isolare bene il tema dal continuum dei referenti, mettendo a fuoco gli elementi costanti, al fine di far risaltare nella giusta maniera le varianti storiche e le specificità dei singoli testi. Volendo fornire una descrizione introduttiva e chiara di tema del doppio, verrà adottata la definizione derivante dagli studi condotti in ambito comparatistico:
si parla di doppio quando, in un contesto spaziotemporale unico, cioè in un unico mondo possibile creato dalla finzione letteraria, l’identità di un personaggio si duplica: uno diventa due; il personaggio ha dunque due incarnazioni: due corpi che rispondono alla stessa identità e allo stesso nome. [11]
Questa accezione ristretta e letterale di doppio può poi subire numerosi ampliamenti, ed è calzante tanto in ambito letterario, quanto in quello cinematografico.
Dopo aver circoscritto il tema del doppio e avendo vagliato varie proposte di definizione, fino ad arrivare a quella che maggiormente rispecchia il significato del termine, è opportuno soffermarsi sul concetto di campo tematico, dall’articolo di Lubomír Dolezel pubblicato nel 1985[12]. L’autore individua un campo tematico dell’identità sdoppiata, concependolo come un minisistema di temi imparentati, strutturato tramite livelli di opposizione. Si viene così a costituire una triangolarità che vede ai tre vertici rispettivamente:
- Il tema di Orlando[13]: noto anche come “tema della reincarnazione”, si ha quando un solo individuo esiste in due mondi finzionali alternativi.
- Il tema di Anfitrione[14]: due individui, le cui identità sono in realtà distinte, si rivelano “omomorfi”[15] nello stesso mondo finzionale, ovvero assumono per un delimitato lasso di tempo le stesse sembianze e la stessa identità.
- Il tema del doppio: si ha quando, in uno stesso mondo fittizio, due incarnazioni alternative di uno stesso individuo coesistono[16].
Questa tripartizione può avere delle interessanti variabili sintagmatiche quanto paradigmatiche, e contempla diverse tecniche di sdoppiamento, quali la fusione (di due in uno) o la metamorfosi (di uno in due o più); ma ha anche dei punti deboli: risulta infatti essere un sistema eccessivamente chiuso, non soffermandosi, inoltre, sugli aspetti diacronici. Partendo da questa concezione tripartita di campo tematico dell’identità sdoppiata, è possibile iniziare un’indagine più approfondita e di ampio respiro, che contempli quanti più possibili temi ad esso ascrivibili. Il doppio, cardine di questa trattazione, si viene, dunque, a trovare all’interno di una famiglia ben più ampia, in un campo tematico costituito da una grande, e potenzialmente sempre espandibile, parentela con altri temi e motivi, tutti legati al concetto di identità sdoppiata. Questo macro-insieme, contiene a sua volta dei sottoinsiemi, che possono essere utili nella differenziazione in un contesto così apparentemente affollato. In questo contesto si può tracciare una prima divisione tra temi che presuppongono uno sdoppiamento tra due persone umane e temi che vedono sdoppiarsi l’umano in un oggetto o in una qualche altra entità normalmente inanimata. Si procederà, allora, seguendo il solco tracciato dagli approfonditi studi di Fusillo, a percorrere una panoramica dei temi “parenti” del doppio, volendone individuare punti di contatto e sottili differenze, spaziando dalla letteratura al cinema, al fine di creare un continuo dialogo, tanto all’interno della grande famiglia di questo campo tematico, quanto all’interno di questo studio. Si può iniziare affrontando due motivi complessi e simili tra loro: i personaggi speculari e i personaggi complementari: i primi stanno ad indicare una coppia di personaggi nella quale l’opposizione dei caratteri è così marcata da suggerire l’esistenza, inizialmente celata, di un’unità latente tra i due; nei personaggi complementari, invece, si ha un’integrazione armonica tra i caratteri, con un’ancora più evidente fusione di identità. I due motivi, proprio per le loro similarità, possono sembrare difficili da distinguere, ma hanno, come descritto, le loro marcate differenze; essi sono molto vicini a quello che Rogerts ha chiamato “doppio latente”. Nel caso del “doppio apparente”, invece, si assiste ad uno sdoppiamento interno a una stessa persona, derivante ad esempio da una possessione demoniaca o da una dissociazione schizofrenica, in rimando ai temi psichiatrici della doppia personalità o della personalità multipla. È possibile a questo punto incontrare temi autonomi, ma molto vicini a quelli toccati finora, come il tema del travestimento o dello scambio d’identità. Una variante di questi temi, per i quali l’aspetto è un elemento centrale, è il “doppio onirico”, che riguarda tutti i casi nei quali lo sdoppiamento avviene unicamente in sogno; altra variante è anche il tema della reincarnazione, tra i più celebri esempi del quale si annovera l’opera della Woolf, poi trasposta al cinema, Orlando[17], e Vertigo[18], film del 1958 di Alfred Hitchcok. In entrambi i casi il personaggio si reincarna, o sembra farlo, superando la morte. Un tema molto vicino a quello del doppio, con il quale può facilmente essere confuso, è quello dei gemelli «il cui sdoppiamento ha una chiara spiegazione biologica, ben inscritta nel vissuto quotidiano, anche se non priva della sua intrinseca eccezionalità»[19]. I gemelli sono stati soggetto di racconti sin dall’antichità, basti pensare alle commedie plautine, come nel caso dei Menecmi[20], dove il mancato incontro tra i due gemelli genera tutta la serie di equivoci comici dell’opera, o ne I due gemelli veneziani[21] di Goldoni. Questo tema incontra l’elemento androgino in La Dodicesima Notte[22], arrivando al cinema, anch’esso attratto, come si vedrà, dalla duplicità, come nei casi hollywoodiani di A Stolen Life[23] (1946) e Dark Mirror[24](1946). Lo sdoppiamento tra due individui può però riguardare anche un essere umano e un oggetto, o una qualsivoglia entità inanimata. Un esempio di questa seconda fazione è il tema di antichissima tradizione del ritratto. Recuperando le materie di studio antropologico riguardanti il potere conferito in molte culture alle immagini, questo tema presuppone una duplicazione della persona, in maniera simile a quanto accade nei miti di Pigmalione e Narciso[25]. Questo tema è, infatti, espresso in opere come Il Ritratto di Dorian Gray[26], romanzo di Oscar Wilde, poi trasposto al cinema nei famosi rifacimenti del 1947[27] e del 2009[28]: la tela del ritratto, doppio dell’anima di Dorian, rappresenta un vero e proprio specchio interiore del protagonista. Lo specchio, infatti, costituisce un tema autonomo molto importante, legato anch’esso alle tradizioni e alle credenze folkloriche e magiche, così come accade per il tema dell’ombra, origine degli spettri e del “lato oscuro” di ogni persona. Un tema inoltre molto diffuso è il tema della maschera, strettamente legato a quello della creatura artificiale e dell’automa. Procedendo con ordine, in Ex Machina[29] (2014), film che tratta la tematica dell’interazione umano-artificiale, è presente una scena emblematica proprio per i suoi rimandi al tema della maschera: Ava, la protagonista, un’intelligenza artificiale, si specchia in una successione di maschere, dalla più arcaica, derivante probabilmente da un teatro antico, alla più recente, una sua copia perfetta: la scena, dunque, si organizza attorno allo sguardo verso le origini antiche di un dispositivo che, sin dalla sua primigenia creazione, vuole essere copertura, strumento di falsificazione che cela la realtà.
Fig 1: Ava e le maschere, in uno dei corridoi del centro di ricerca.
L’artificiale, nella sua veste ipertecnologica, incontra il suo doppio nella forma di una maschera, antesignano antico che svolge anche nella contemporaneità la medesima funzione: nascondere il reale, sia esso il volto dell’attore, o la freddezza dei circuiti del macchinico. Il tema della creatura artificiale, invece, può essere ben rappresentato dalla leggenda ebraica del Golem, approfondita, nella sua versione cinematografica di Paul Wegener[30]. Il mostro d’argilla creato dal rabbino di Praga rappresenta a tutti gli effetti la creazione magica ed esoterica di un simulacro dell’umano, in uno sdoppiamento tra personaggio e creazione artificiale. Allo stesso modo il tema dell’automa, anch’esso imparentato con quello appena trattato, può essere rintracciato nel capolavoro di Fritz Lang Metropolis[31] “in cui il robot sosia dell’operaia Maria, costruito da Rotwang, uno scienziato folle, rischia di far scatenare una violentissima rivolta degli operai della fabbrica contro Fredersen, il dittatore di Metropolis”[32]. Una variante recente, in questo ambito, è il tema della clonazione: qui il doppio diventa multiplo, in uno sdoppiamento al centro delle trame tanto della letteratura, quanto del cinema fantascientifico.
Tutti questi temi mettono in crisi il principio di identità, ma tre più di tutti sono capaci di scardinare la rigidità e la fissità dell’universo, contrapponendo al quotidiano una realtà fluida e sfuggente[33]: il tema della metamorfosi, del sosia e del doppio. Il primo di questi temi si configura come fortemente radicato nei secoli, divenendo intertestuale, grazie alle varie riprese attuate in diacronia da importanti autori come Ovidio, Dante, Petrarca, Marino e, progredendo ancora lungo la linea del tempo, Kafka, ma, trova spazio anche e soprattutto al cinema, basti pensare al genere fantasy o all’animazione.[34] I restanti due temi, quello del sosia e del doppio, appaiono fortemente interrelati: si basano, infatti, entrambi sulla duplicazione di un personaggio e delle sue marche identificative, ovvero il nome, le fattezze fisiche, ecc. Nel caso del tema del sosia, però, i due personaggi restano entità distinte, legati da una forte somiglianza fisica, ma con nome e vita diversi, mentre, per quanto riguarda il doppio, questa identificazione di due personaggi l’uno nell’altro è totale, tanto da portare all’indistinguibilità e a una sensazione definibile come “perturbante”[35]. Nel doppio la duplicazione è, pertanto, completa, sia essa umana o “concettuale”, ovvero sia nel caso in cui ci si trovi in presenza di due persone identiche, sia che si tratti di una realtà altra che vuole essere copia indistinguibile della “realtà reale”. Tanto la letteratura, quanto il cinema, sono da sempre state “ossessionate” dalle dinamiche di sdoppiamento, scissioni, rifrazioni e trasformazioni, modalità con le quali l’idea unitaria dell’io viene fortemente messa in crisi. Il tema del doppio si configura, allora, come il “culmine” di questo attacco perpetrato ai danni del principio d’identità, proveniente da una famiglia tematica assai ampia, che procede nella stessa direzione. È importante, infine, riflettere su come ciascuno di questi temi non sia presente, nella maggior parte dei casi, in maniera singola all’interno dell’opera, sia essa letteraria, teatrale o cinematografica. Questa grande famiglia di temi può vedere convivere più di un singolo componente all’interno di un’opera, non rispondendo a un qualche principio di esclusività: il tema del doppio può dunque trovarsi, in una determinata pellicola o opera letteraria, accanto al tema della creatura artificiale, o dell’automa, e così via, pur mantenendo la sua omogeneità tematica. Ciò che risulterà di volta in volta diverso è il peso specifico che il singolo tema andrà ad occupare nel prodotto, anche a seconda del punto di vista con il quale lo si vorrà analizzare.
Di seguito si riporta in forma schematica il campo semantico dell’identità sdoppiata, collocando, nei due sottoinsiemi creati, i temi analizzati. Vengono contrassegnati con un asterisco, e posizionati fuori dall’insieme, i temi autonomi che non fanno parte di quel dato campo semantico, ma che presentano delle affinità sostanziali con i temi incontrati. Il tema del doppio, del sosia e della metamorfosi, in quanto temi che maggiormente scardinano le logiche dell’identità, sono collocati in una zona interstiziale tra i due insiemi, in quanto temi estremamente vasti, concernenti passaggi di identità e trasformazioni tanto tra due esseri umani, quanto tra entità appartenenti a regimi differenti.
Schema 1: Schema proprio
Il doppio che falsifica: significati e logiche della falsificazione
Questo studio vuole indagare la pluralità dei significati e delle logiche della falsificazione in relazione al concetto capace più di tutti di incarnarla: il doppio, nel contesto letterario, psicanalitico e, forte degli importanti influssi che ha avuto da entrambi questi due primi elementi, quello cinematografico. Verranno analizzate, le relazioni tra due componenti che possiamo considerare cardini ai fini del nostro discorso: la falsificazione e il doppio, intrinsecamente legati e derivanti l’uno dall’altro, nel contesto specifico della rappresentazione cinematografica, capace di incarnare in sé la matrice letteraria e l’influenza psicanalitica. Per far ciò, si introdurrà il concetto stesso di falsificazione, approfondito tanto nel contesto delle origini, quanto nel contemporaneo, nell’ottica di un confronto atto a rintracciarne derivazioni e differenze, similarità e spartiacque divisori. La falsificazione si reifica, in ambito cinematografico, come anche nel campo letterario, nell’immagine del doppio: l’umano si duplica andando oltre la sua natura organica, collidendo con una doppiezza che mina la percezione del reale, creando una realtà altra, che è di fatto copia della prima. Volendo concludere questo primo, teorico, approccio al doppio, inquadrandolo come immagine di una falsificazione radicata, ci si concentrerà sui modi della percezione, approfondendo il ruolo delle teorizzazioni di stampo psicanalitico, e gli importanti legami esistenti tra cinema e sogno.
Il doppio come immagine della falsificazione
Per comprendere a fondo quanto il concetto di falsificazione e il tema del doppio siano uniti in uno stretto legame, fatto di interscambio e corrispondenze, è utile partire dal significato che la falsificazione assume nella sua più comune declinazione. La definizione da vocabolario rimanda ad aspetti inerenti alla contraffazione, la dolosa imitazione di qualcosa, che vuole esser reso qualcos’altro; nell’ambito di questo studio si vuole prendere in considerazione un ampliamento semantico del termine, ad indicare l’insieme dei meccanismi che conducono alla creazione di una alterità sostanziale, che differisce dal reale. Il mondo del digitale e delle nuove tecnologie, cui si farà cenno in seguito, sono utilizzate sempre più spesso in ambito cinematografico e sono strumenti assai utili in questo senso: permettono la creazione di interi mondi finzionali, genesi di personaggi interamente digitali, offrono la possibilità di ibridare reale e virtuale, creando scenari e modalità espressive nuove. Sin dalle sue origini, infatti, il cinema è stato terreno fertile per sperimentare le prassi dei processi della falsificazione: a soli tre anni dalla sua nascita, nel 1898, George Méliès, padre di quella che viene considerata la settima arte, diede il via a quella che si può definire la strada verso l’illusione artistica. Percorrendo ancor più a ritroso l’evoluzione della falsificazione al cinema, essa appare centrale anche nei suoi immediati antecedenti: lo spiritismo e la fantasmagoria. In entrambi i casi il fulcro dell’evento è la rappresentazione nella realtà di qualcosa che non esiste, creando un’illusione percettiva nello spettatore che crede di assistere a qualcosa di reale. Sin dagli albori, dunque, al cinema si è dinanzi a una falsificazione, a una manipolazione della realtà a scopo artistico e mostrativo. Esso, infatti, detiene nella sua stessa natura un nucleo di falsificazione, poiché rappresenta una versione finzionale della realtà, costruita per essere di volta in volta mimetica o surreale. La creazione stessa di una realtà altra genera l’esistenza di una copia del reale, di un suo simulacro, esistente unicamente nella finzione scenica. Gli attori che interpretano i personaggi delle pellicole si trovano ad essere dei doppi di loro stessi, in un rapporto sdoppiante nel quale il performer diviene simulacro del personaggio. Il cinema ha saputo cogliere questa sua intrinseca caratteristica, declinandola in pellicole che indagano per l’appunto temi quali il doppio, il simulacro, l’automa, tenendo conto delle ripercussioni che le dicotomie vero/falso e naturale/artificiale apportano al livello psichico e sociale.
Il cinema appare affascinato da sempre dal tema del doppio. […] l’enorme diffusione del tema in tutti i generi e tutte le cinematografie spinge a cercare un motivo più profondo, coinvolgendo la materia stessa del significante cinematografico. Lo schermo trasmette infatti al pubblico il “doppio” – o se si vuole il riflesso, lo spettro, l’ombra – di qualcosa avvenuto prima e altrove (così come il proiettore è il doppio della macchina da presa), con una eccezionale ricchezza percettiva, ma anche con una forte evanescenza[36].
Il tema del doppio, dalle radici antropologiche antichissime, emerge, dunque, come un’immagine estremamente calzante di falsificazione e risulta utile, a questo punto, indagarne ulteriormente le caratteristiche in relazione al suo legame con la psicanalisi.
La psicanalisi del doppio al cinema: film e sogno
Gli studi degli anni Settanta, di ispirazione psicanalitica, sono particolarmente utili a chiarire il legame esistente tra mente umana, sogno, espressione letteraria, dalla quale scaturisce spesso quella cinematografica. Le più importanti di queste riflessioni, anziché utilizzare il film come “materiale clinico”[37], lo analizzano in sé stesso, al fine di mettere in luce tratti di pertinenza della psicanalisi, infatti:
si analizzano le analogie tra il film e certi prodotti dell’inconscio come i sogni, per vedere se certi procedimenti all’opera nei secondi possono spiegare il funzionamento del primo. Dunque, più che l’autore attraverso la sua opera, è il cinema stesso attraverso le sue manifestazioni ad essere per così dire messo sul divano[38].
La somiglianza tra film e sogno ha da sempre affascinato gli studiosi, che hanno dedicato a questa relazione importanti opere, come nel caso dell’organica trattazione dello psichiatra e psicanalista francese, attivo anche nell’ambito della filmologia, Serge Lebovici: Psychanaliste et cinéma[39]. Scopo del saggio è proprio quello di dimostrare che “il film è un mezzo d’espressione assai vicino al pensiero onirico”[40], infatti i due elementi, sogno e cinema (e naturalmente i temi da quest’ultimo trattati), hanno molti punti di contatto:
- “il sogno è un insieme quasi esclusivamente visuale”[41], così come il cinema, con quale condivide, dunque, il carattere visivo;
- “come nel sogno, le immagini filmiche non sono unite né da legami temporali, né da legami spaziali solidi e forti”[42]: sia nel sogno che nel film, infatti, c’è un ampio “margine di manovra”, una libertà tanto spaziale, quanto temporale;
- in entrambi è assente uno stretto principio causale: come nelle immagini oniriche, anche nel cinema le sequenze, in questo caso, filmiche, “avanzano sulla base di rapporti di contiguità e di immaginazione”[43], non sempre, dunque, seguendo rapporti logici;
- entrambi ricorrono a una stessa “suggestività”: come nei sogni, infatti, anche nei film le immagini non rivelano sempre tutto, “nulla è esplicito; esse non fanno altro che susseguire”[44].
Gli studi di Lebovici vogliono altresì dimostrare una sovrapponibilità tra la figura dello spettatore e quella del sognatore, ponendo a favore di questa tesi numerosi punti di rilevante interesse:
- le condizioni di proiezione: l’oscurità della sala, l’isolamento del corpo dell’astante e il suo abbandono psicologico dinanzi all’irrealtà delle immagini sono tutti elementi che lo accomunano ad un sognatore, trattandosi di condizioni riscontrabili anche durante il sonno;
- l’adesione empatica: durante un film, lo spettatore non si trova in una condizione di mera passività, ed è, anzi, in un “certo stato di comunione rilassata”[45], che rimanda al grado di coinvolgimento che ha il sognatore nei confronti del suo sogno;
- uno stato di leggero stordimento: chi si trova a lasciare il cinema dopo aver guardato un film si troverebbe, infatti, in uno stato “analogo al semisonno del sognatore che rifiuta di lasciare il suo sogno e ama prolungare in una rêviere[46] i diversi episodi”[47];
- i processi di identificazione e proiezione: l’identificazione si ha quando lo spettatore si identifica in un personaggio della storia, mentre la proiezione consiste nel proiettare i problemi dell’individuo sulle entità viventi sullo schermo. Si è in presenza di veri e propri transfert nei confronti dello spettacolo filmico. Questo meccanismo è ciò che sta alla base della genesi dei sogni: un transfert proveniente dagli avvenimenti durante lo stato di veglia.
Dinanzi a questo insieme di corrispondenze non si può che tratte la conclusione che tra film e sogno ci sia effettivamente una parentela. Tra i due esisterebbe, allora, una sorta di continuità: “il modo in cui [il film] ci è solitamente offerto, il tipo di esperienza a cui ci invita, le dinamiche che scatena, ne fanno qualcosa che coinvolge direttamente la nostra vita psichica”[48]. Questa stessa linea di ricerca ha visto il contributo anche di altri importanti studiosi, come nel caso dello psicologo, psicanalista e filosofo Cesare Musatti[49], il quale riprende nei suoi scritti il confronto tra film e sogno, notando come le rappresentazioni elaborate in entrambi i casi possiedano un “carattere di realtà”[50] particolare, che rende sia l’uno che l’altro una copia e insieme qualcosa di diverso dalla vita. Questa distanza, ma al tempo stesso somiglianza, tra film, sogno e realtà spiegherebbe, almeno in parte, perché “tra film e sogni ci sia una così grande transitabilità di materiali: succede [infatti] assai spesso che brani cinematografici finiscano nelle nostre rielaborazioni notturne”[51]. Il cinema, dunque, appare come un prolungamento delle strutture e delle dinamiche studiate dalla psicanalisi, modellato sul nostro apparato psichico:
ecco che in certe figure ricorrenti nel cinema, come il doppio, lo specchio o la maschera, o come a livello stilistico il campo/controcampo, in cui si contrappongono un vedente e un visto, si scopre l’emergere di una sorta di inconscio del cinema stesso. Il risultato è che la psicanalisi non si pone più come lo studio di alcuni aspetti del fenomeno cinematografico, ma come la chiave di volta per capirne lo statuto e il funzionamento[52].
Gli anni Settanta, momento di grande sviluppo per gli studi psicanalitici, accolgono con grande entusiasmo questi temi, ponendoli al centro di dibattiti ed ulteriori riflessioni. Secondo questi studi, che hanno le loro basi nella rilettura di Freud operata dallo psicanalista Jaques Lacan, la struttura psichica umana, così come quella linguistica, trovano la loro cifra nell’opposizione e nella mancanza:
in Lacan […] l’inconscio è strutturato come un linguaggio, e […] questa struttura riposa su di un gioco di differenze e di sottrazioni: al pari di ogni struttura, è costituita da un insieme di relazioni, che portano ciascun elemento a definirsi per contrasto, come ciò che gli altri non sono; e al pari di ogni struttura di significazione, ha bisogno di una non presenza, visto che ciascun segno può assumere un proprio valore solo nella misura in cui “sta per”, “è un sostituto di” qualcosa che di fatto è assente.[53]
Nell’avviare questo approfondimento sull’intenso rapporto esistente tra film e sogno alla conclusione, è importante ricordare due importanti studi, che si concentrano sul ruolo che il cinema assegna allo spettatore, o, come direbbe Lebovici, al sognatore: si tratta degli interventi di Jean-Pierre Oudart e Jean-Louis Baudry. Oudart scrive La Suture, La Suture II e l’Effet de réel, tutti pubblicati in Cahiers du cinéma tra il 1969 e il 1971, nei quali affronta il tema dell’assenza, sostenendo che lo spettatore si collocherebbe proprio in un «campo dell’Assenza». Lo schermo, infatti, prolungandosi al di qua dell’ideale quarta parete, si protrae in uno spazio ipotetico invisibile, il campo dell’assenza per l’appunto, nel quale dovrebbe “risiedere” lo spettatore, poiché è proprio in rapporto all’assenza che «l’immagine accede all’ordine del significante»[54]. Si tratta di concetti complessi, che non si fermano alla filmologia e alla psicanalisi, ma si avvicinano alla filosofia e alla logica. Baudry[55], invece, approfondisce ancor più lo statuto di spettatore cinematografico, mettendolo in relazione al suo inconscio nel momento esatto della proiezione e nei modi in cui essa è organizzata:
lo schermo, la sala, le poltrone, sembrano infatti riproporre il dispositivo che sta alla base della fase dello specchio descritta da Lacan, e nella quale il bambino tra gli otto e i diciotto mesi produce un primo abbozzo dell’”io” come formazione immaginaria. La sala buia ripristina l’estrema concentrazione visiva; le poltrone nelle quali sprofondiamo ci riconducono ad uno stato di sotto-motricità; soprattutto lo schermo ci riporta allo specchio della nostra infanzia, nel quale abbiamo visto riflessi un corpo (il nostro) e ci siamo riconosciuti nelle fattezze di un altro-da-noi[56].
La proiezione causerebbe nello spettatore una sorta di regressione all’infanzia, attraverso la quale colui che guarda “scopre” e si identifica nell’io.
Lo spettatore si costituisce come soggetto […] perché il cinema riproduce una fase essenziale della formazione dell’”io”; guardando delle figure che si ricompongono man mano fino a presentarsi nella loro completezza, ripercorriamo quello snodo che ci ha portati a vederci per la prima volta interi, e fuori di noi. […] lo spettatore si identific[a] con chi agisce sullo schermo, proiezione del proprio io; ma anche con colui che gli dà vita, con quell’io di cui è la proiezione[57].
L’autore, infine, tornando sul tema del dispositivo cinematografico, estende il confronto coinvolgendo il mito, paragonando la proiezione cinematografica ed il concetto stesso di cinema al mito della caverna, di Platone. Le analogie tra il mito e il cinema sono evidenti, così come quelle tra mito e sogno, generando così una triade di analogie.
Nel caso delle corrispondenze tra il mito della caverna e contesto cinematografico si possono annoverare:
- i prigionieri incatenati al loro posto, così come gli spettatori siedono negli appositi spazi, seppur in una situazione di gran lunga più comoda;
- il fuoco alle loro spalle, che ricorda, come si vedrà nel prossimo capitolo, la fiamma della lanterna magica, ma anche il fascio di luce dei moderni proiettori;
- le sagome che riproducono i contorni delle cose, ovvero le figure che vivono e si muovono sullo schermo;
- il fondo della caverna su cui si stampano le ombre delle sagome, perfetta corrispondenza dello schermo cinematografico.
Tra le analogie che invece riguardano anche il contesto del sogno, è inderogabile il far riferimento allo statuto di realtà delle immagini oniriche, perfettamente sovrapponibile a quello delle immagini proiettate e a quello delle ombre della caverna.
Fig. 2: Immagine da https://www.shotstudio.it/la-nascita-della-fotografia/
Utilizzo ai soli fini di studio e di citazione dell’articolo
Ciò che il sogno procura in maniera fisiologica e ciò che Platone esprime in forma mitica, il cinema lo acquisisce in un modo ben più concreto: attraverso una rappresentazione, che diventa percezione[58]. “In questo senso il cinema è un vero e proprio dispositivo psichico ausiliario: è una “macchina simulatoria” che ci costituisce come soggetti e che fa fronte ai nostri desideri più radicati”[59].
La psicanalisi, dunque, non si limita ad indagare le somiglianze e le corrispondenze tra dimensione onirica e cinematografica, ma scava ancora più a fondo, al fine di chiarire come, attraverso il cinema, siamo in grado di autodeterminarci ed arrivare alle origini del nostro io.
Tecnologie dello sdoppiamento digitale: genesi dei fantasmi digitali
Il doppio attraversa i media, attraversa il tempo, approdando al digitale: grazie al tema del doppio è possibile infatti attraversare più piattaforme mediali, da quelle analogiche, a quelle elettroniche, fino ad arrivare a quelle digitali, innescando una forte transmedialità; questo “viaggio” non riguarda solo il supporto o le modalità con le quali è possibile fruire di opere che incarnano il tema, ma riguarda anche l’epoca nella quale sono state realizzate, in relazione alla potenza diacronica del doppio, che è giunto fin nella nostra contemporaneità, con produzioni sempre nuove, che possono avvalersi anche dell’apporto delle moderne tecnologie. Il cinema si rivela il terreno ideale per il germogliare di questo dualismo: il doppio digitale, l’avatar. Ancora una volta, è il cinema che permette allo spettatore di accedere ad un mondo altro, dove tutto è rappresentabile ed il reale diviene base sulla quale innestare stimoli onirici, fantastici, perturbanti. Con l’avvento del digitale le possibilità rappresentative proprie del cinema si incrementano notevolmente: si passa dai trucchi “meccanici” di Méliès e quelli successivamente ottenuti con più evoluti sistemi elettronici, agli effetti speciali propri dei media digitali, che oggi pervadono le pellicole. Il cinema ingloba, attraverso i film, gli argomenti della post-medialità, utilizzando lo strumento che diventa medium per eccellenza, nel quale innumerevoli funzioni convergono: il computer. Si assiste ad una vera e propria evoluzione del panorama mediale, che comprende la vaporizzazione del sistema mediale precedente, in un contesto di naturalizzazione dell’esperienza tecnologica. L’ubiquità del digitale è oggi fenomeno sedimentato e strumento attraverso il quale le istanze visive, narrative e rappresentative del cinema compiono un decisivo passo in avanti. La realtà viene modificata seguendo le volontà rappresentative, in un sistema che potenzialmente raccoglie infinite possibilità ricombinatorie, offerte dai media digitali.
Due realtà a confronto: il doppio tra VR e AR
Il tema del doppio trova ampia applicazione anche grazie all’ausilio delle tecnologie digitali, che oggi dominano il panorama mediale. Esso è inoltre un importante elemento nella distinzione di due interessanti sviluppi che riguardano il reale: la realtà virtuale (VR) e la realtà aumentata (AR). Proprio la realtà virtuale, immersiva e totalizzante, si configura come un ottimo modello di doppio: viene creata, digitalmente, una nuova e completamente altra dimensione del reale, tutta virtuale, appunto. Diverso è il discorso relativo alla realtà aumentata, arricchente e multiforme, che non può definirsi un vero e proprio doppio quanto il suo corrispondente virtuale. In questo breve excursus verranno prese in esame entrambe, al fine di esplorarne le caratteristiche e, ove presenti, i legami esistenti con il tema del doppio.
L’era elettronica, ovvero la decade che per eccellenza ha assistito alla comparsa di nuove medialità e concetti sorprendenti, quale quello di realtà virtuale, sono gli anni ’80 del ‘900. Proprio in questo decennio, infatti, i mondi virtuali precedentemente abbozzati e immaginati, hanno iniziato a reificarsi in quello che può essere considerato un doppio della realtà, del mondo reale che è possibile esperire nella quotidianità umana. Negli anni ’80, dunque, inizia a prender forma un immaginario già esistente, che prefigura il digitale e quello che solo successivamente sarebbe stato il virtuale, oggi ben radicato, talvolta in maniera quasi profetica, talaltra con risultati curiosi quanto sorprendenti. Le tecnologie di oggi, infatti, venivano rappresentate in chiave futuristica. È possibile tenere traccia ti tale rappresentazione nella produzione cinematografica di fantascienza, ma anche nella letteratura cyberpunk, come in campi diversi, ad esempio i videogame o i comics (Blade Runner, di Harrison Ford, Neuromante, di William Gibson, Mirrorshades, di Bruce Sterling). Il panorama mediale di quegli anni si arricchisce e si moltiplica, attingendo a nuove storie e a nuove tecnologie. Ogni campo ne è investito, ma la sperimentazione postmoderna vede la sua più compiuta prolificità nel formato video, rizoma della realtà virtuale e della realtà aumentata. La tecnologia, nella sua veste elettronica, emerge innanzitutto nel nuovo genere del videoclip, che mescola musica e cinema, in un prodotto che sposta la musica dalla radio, facendola approdare alla televisione e che spettacolarizza le sottoculture musicali, mettendo in movimento corpi elettronici (esempio di questo fenomeno è il brano e il videoclip di Video Killed the Radio Star, dei Buggles). Anche la musica, dunque, diventa elettronica. I media iniziano a divenire pervasivi e a diffondersi nella realtà tutta. Nascono i sintetizzatori musicali, che riproducono elettronicamente i suoni degli altri strumenti musicali, o ne generano di nuovi, creando dei veri e propri doppi rispetto agli strumenti suonati in maniera “analogica”. Anche la voce umana diviene artificiale, con lo sviluppo di sempre più sistemi per riprodurla o migliorarla. Non solo la musica della macchina, doppio della musica umana, ma anche una voce automatizzata, doppio dell’umano[60]. Tracciare questo percorso verso la realtà virtuale, includendo l’elemento musicale, si rivela particolarmente fruttuoso, perché permette di soffermare la riflessione sull’aspetto corporeo, che è cardine nel virtuale: anche i corpi, infatti, nei videoclip musicali si fanno elettronici, mutano e divengono sintetici, proprio come il suono (si veda: Take on me, A-ha). Saranno questi corpi e questi suoni, in questi video, a generare la concretizzazione di un mondo virtuale, altro rispetto a quello reale, una sua copia alterata, per quanto aderente. Il film Tron, regia di Steven Lisberger, del 1982, rappresenta un punto importante di non ritorno. Non solo l’estetica del virtuale, ma la sua rappresentazione, è compiuta. Si crea nella pellicola il dualismo: mondo simulato virtuale – mondo reale, il tutto intriso della cultura del videogame. Vengono introdotti temi quali quello del software senziente, che è ciò che oggi potremmo ricondurre all’intelligenza artificiale, ma non solo, compaiono gli avatar, dei programmatori, che divengono parte attiva all’interno della realtà virtuale come users. Il videogame è infatti un formato ibrido e interattivo, che fornisce una prima idealizzazione dei mondi virtuali e chiede al giocatore di interagire e svolgere azioni e compiti nella realtà sintetica del gioco. Avatar diviene allora una parola chiave importanze: è il collegamento tra realtà virtuale e “realtà reale”, doppio dell’umano, suo ricodificatore nello spazio virtuale. Grazie all’avatar avviene la duplicazione del mondo reale nella sua copia virtuale[61]. Con il passare dei decenni, gli sviluppi legati a queste tecnologie e alla realizzazione della realtà virtuale, fuori dagli schermi televisivi e cinematografici, non si sono fermati e hanno anzi avuto interessanti esiti, per quanto non ci sia mai un punto di arrivo in questi campi, una destinazione, quanto piuttosto ci si trovi in un percorso, in un viaggio, che vede come unica meta il progresso.
Discutere di realtà virtuale senza far riferimento alla corporeità vorrebbe dire trattare l’argomento in maniera troppo superficiale. La realtà virtuale è, infatti, fatta di tecnologie della corporeità, in quanto, per avere un’esperienza quanto più completa e totalizzante possibile, è necessario trasfigurare il corpo e la sua architettura sensoriale all’interno dell’ambiente virtuale, ed è possibile farlo solo attraverso sofisticate apparecchiature tecnologiche, che oggi divengono sempre più accessibili. È necessario ridefinire i confini sensoriali del corpo umano, la sua malleabilità e inscriverlo in una dimensione nuova, appunto, virtuale. Il primo di questi strumenti è il visore, che catapulta nella “realtà altra”. L’esperienza corporea viene riconfigurata in un ambiente simulativo ricreato grazie alla computer graphic; si entra così corporeamente (con il corpo dell’avatar) in un altro regime ontologico. Il visore è il primo degli ausili necessari per addentrarsi nella realtà virtuale, ma non necessariamente il solo: esistono oggi infatti molti altri device accessori, come tute (bodysuits), guanti o apparecchiature più ampie (cyberith treadmill virtualizer), che permettono l’andare oltre il solo paradigma visivo, rendendo l’esperienza più profonda, immersiva, multisensoriale. Dal paradigma del corpo si passa al paradigma del corpo intero, creandosi così nuove relazioni tra i contenuti mediali e il corpo dell’utente, debitamente “vestito” e accessoriato per accedere alla realtà virtuale.
I media, dunque, riproducono le sensazioni fisiche all’interno di ambienti simulativi, che vengono trasmesse a strumenti che incrementano le interazioni tra virtuale e reale, creando un importante punto di contatto tra la realtà nella quale si è immersi e il suo doppio, tutto virtuale.
Un discorso a parte è necessario in relazione alla realtà aumentata.
In questo caso, infatti, non si è dinanzi a una nuova dimensione ontologica e dunque a un doppio della realtà, quanto piuttosto a un suo incremento. Si è in presenza di una versione altra della realtà, sovrapposta ad essa, aumentata in quanto arricchita di informazioni, di immagini, di suoni o di servizi. I due livelli vengono esperiti simultaneamente e non si è insomma completamente immersi in quello che di primo acchito potrebbe sembrare un mondo altro, quanto si è ben saldi nella realtà, quella quotidiana e ben nota ad ognuno, che però presenta tratti digitali. È possibile, anche in questo caso, accedere a quello che si potrebbe definire il livello aumentato della realtà, attraverso specifici device, ormai alla portata di tutti. Lo strumento principale è lo smartphone, grazie al quale si può fruire in tempo reale dei servizi di geolocalizzazione, inquadrando ad esempi un locale e, attraverso la specifica applicazione, visualizzare sullo schermo gli orari di apertura, il menù, il nome della strada e molto altro. Questo è solo un esempio delle infinite potenzialità del web, unito alla computer graphic, ai dispositivi mobili e alle app di AR. La realtà aumentata, infatti, produce “triggers”, ovvero immagini digitali che emergono da spazi, oggetti, superfici e oggetti, accessibili attraverso specifici devices come occhiali o schermi (di smartphone o tablet, dotati di apposite app). I tre esempi più lampanti di realtà aumentata che mostrano quanto questa sia uno strumento dalle innumerevoli potenzialità e dalle più disparate applicazioni sono:
- AR Sirurgical Table e i suoi interessanti risvolti in ambito medico;
- Augmenteted journalism, dicitura che raggruppa i contenuti digitali aggiuntivi, fruibili solo online a partire dalla pagina del quotidiano;
- Brand Oriented Contents, ovvero contenuti relativi alla pubblicità di prodotti in vendita che si avvalgono della realtà aumentata.
Queste tecnologie permettono di estendere le capacità comunicative umane[62] oltre ogni aspettativa: l’AR, infatti, genera un augmented space, ovvero uno spazio fisico nel quale elementi virtuali e reali si sovrappongono e convivono, uno spazio nel quale le relazioni tra l’umano e il mediale si fanno fitte, intime, fluide. Indispensabile è infatti il medium, che permette di accedere alle informazioni, come lo smartphone, nel caso dei sempre più comuni QR code, o gli occhiali, che tra alti e bassi si confermano uno dei media più diffusi per accedere alla realtà aumentata. Come nel caso del visore per la realtà virtuale, i vari modelli di “occhiali aumentati” mettono al centro della percezione la dimensione visiva, che nel caso della realtà aumentata è ancor più importante. Molti sono stati i modelli proposti da varie case produttrici: i Google Lens, i Sony Eyeglass, i Microsoft Hololens. Non si è ancora raggiunto l’obiettivo della pervasività: rimangono prodotti costosi, molto più degli smartphone, ma decisamente meno diffusi di questi ultimi, nonostante continui tentativi di miglioramento e di ampliamento dell’offerta. I più recenti sono i Ray-Ban Meta Smart Glasses Wayfarer, che, grazie all’ausilio di un’applicazione, permettono di filmare e condividere contenuti, effettuare chiamate e accedere ad altre funzioni tipiche di uno smartphone, solo attraverso lo sguardo, il tutto “in diretta dai tuoi occhi”, come recita la pubblicità. Più che un device di realtà aumentata, sembra di essere una presenza di un medium indossabile, che ha in nuce però il meccanismo dei suoi predecessori: indossare il medium, renderlo filtro della visione e della realtà. Il legame con il mondo dei social network potrebbe più facilmente portare a una più larga diffusione e dunque a un suo implemento nell’uso orientato all’AR. Attualmente, dunque, sono gli schermi ad essere la superficie di contatto tra realtà e realtà aumentata, in particolare quelli dello smartphone e quelli urbani, dove reale e virtuale collidono e si mescidano. Attraverso lo schermo “nomade” di un utente “rabdomante” immagini reali si sovrascrivono a immagini virtuali, in un processo in cui il virtuale risemantizza lo spazio fisico. La città, infatti, è scenario ideale per la realtà aumentata: può ospitare diversi spazi che, se inquadrati, danno vita a contenuti e informazioni, ma non solo, è teatro del fenomeno, sempre più diffuso, dello urban screen, che consiste nella rilocazione delle esperienze cinematografiche (e non solo) al di fuori dei loro luoghi di riferimento e disseminate negli spazi sociali e individuali[63]. Si fa riferimento anche a fenomeni come media facede, mediatecture, media building, video mapping, esperienze accomunate dall’apparizione, visibile tramite apposito device, sullo spazio urbano di contenuti che ne mutano i connotati (solo virtualmente) e li “animano” rendendoli a tutti gli effetti uno schermo.
In conclusione, entrambi i casi -VR e AR- rendono chiaro quanto sia necessaria una riflessione approfondita riguardante il concetto di realtà nella nostra epoca, in presenza di media che procedono verso un sempre più rapido sviluppo, rivelando le infinite potenzialità del digitale. Quali saranno i risvolti di queste realtà così distanti, ma anche così vicine, al reale, sarà tema centrale e quotidiano dei prossimi anni. In questa sede si è voluto fornire un approfondimento in relazione a due realtà, la realtà virtuale, profondamente legata al tema del doppio e la realtà aumentata, che spesso viene sovrapposta alla prima ed erroneamente accomunata a questo legame.
Il doppio digitale: i suoi lati oscuri. Gli effetti sullo spettatore e l’Uncanny Valley
Stupore, fascinazione, meraviglia, sono solo alcuni dei sentimenti provati dallo spettatore davanti ai risultati sempre più accurati e strabilianti della tecnologia. Accanto a queste emozioni positive, però, studi legati agli ambiti della psicologia cognitiva e della semiotica indagano sulle reazioni opposte. Risulta rilevante ai fini di questo studio approfondire il fenomeno dell’Uncanny Valley, espressione coniata nel 1970 da Masahiro Mori nell’articolo “Bukimi no Tani Genshõ”[64]. Il fenomeno è stato a lungo oggetto di controversia, ma sta tornando ad essere studiato ed approfondito proprio in virtù dell’implementazione delle tecnologie negli scorsi decenni, sempre più improntate alla creazione e alla rappresentazione di soggetti antropomorfi. Una prima spiegazione del concetto viene fornita da Tinwell, che scrive: “Masahiro Mori recognised that as a robot’s appearance became more human-like it was perceived as familiar to the viewer, until finer nuances from human norms caused them to appear creepy, evoking a negative effect for the viewer”[65]. Per comprendere a fondo questo fenomeno di repulsione per un artificiale troppo reale, è necessario chiarire il concetto cardine di “Uncanny”, introdotta come categoria psicologica da Ernst Jentsch nel 1906, nell’articolo “Zur Psychologie des Unheimlichen”, nel quale scrive “[…] physical uncertanities can be the causes of the uncanny. The answers to the questions such as “Are the objects, which we usually perceive alive, really alive?” or “Are the objects, which we perceive non-living, really non-living?” create a doubt in mind”[66]. Secondo l’autore, dalle cui teorie si svilupperà l’Unheimliche di Freud (1919), in italiano il “perturbante” nasce a partire dal dubbio, le cui strategie di eliminazione constano in prima battuta nell’individuazione degli elementi che lo generano. L’Uncanny Valley, allora, trova le sue basi in un contesto di dubbio, e si caratterizza per la creazione nell’individuo di un disorientamento gnoseologico, una vera e propria sensazione di incertezza, che può poi sfociare in un definitivo stato patemico. Studi successivi si sono concentrati su una possibile “semantica della creepyness”, veicolando l’idea di una sorta di crasi tra l’unpleseant e il confiusing, il tutto “accompanied by phycal syntomps such as feeling cold or chilly”[67]. McAndrew e Koehnke scrivono a riguardo:
It is our belief that creepiness is anxiety aroused by the ambiguity of whether there is something to fear or not and/or by the ambiguity of the precise nature of the threat (e.g., sexual, physical violence, contamination, etc) that might be present. […] Creepiness may be related to the agency-detection mechanisms proposed by evolotionary psychologists[68].
È proprio questa agency-detection, in un contesto di incertezza e disorientamento, a portare all’assenza di un chiaro pattern di decodifica, pur in presenza di un testo visivo, e ad essere causa prima dell’Uncanny Valley. È possibile a questo punto fornire una definizione più precisa del fenomeno:
L’Uncanny Valley […] [è] quella sensazione di disagio, profondo e in qualche modo addirittura fisico, che si prova quando [si è] messi di fronte a un corpo, ma innanzitutto a un volto, artificiale, di sembianze più antropomorfiche che macchiniche, ma con alcuni tratti non ancora del tutto definiti come propriamente umani[69].
Lo studio di Bruno Surace si concentra su una parte specifica della struttura corporea: il volto, come “dispositivo distopico, che si guarda”[70]. L’aspetto perturbante del fenomeno sarebbe dunque strettamente riferibile al volto, come elemento primario che mette in relazione il sé con l’altro, comune denominatore di questo tipo di dinamica. Il viso avrebbe già inscritta nella sua essenza una doppiezza del perturbante: non lo è solo il volto altrui, che può generare reazioni di confusione e spavento, ma è perturbante anche qualcosa che si avvicina, ma non completamente al nostro stesso volto, come accade nel caso dei sosia, somiglianti, ma non perfettamente identici. Questo disagio scaturente dal perturbante sfocia allora in dilemmi dalla difficile risoluzione, come: il volto che si osserva è vero o finto? Morto o vivo? Il perturbante facciale apre allora la strada a molte riflessioni e approfondimenti, nell’alveo di un fenomeno complesso e stratificato.
Le cause scatenanti dell’Uncanny Valley sono allora da rintracciare in specifiche caratteristiche dell’immagine che si osserva. Esistono delle pertinenze facciali che possono fungere da linee guida per distinguere un volto artificiale Uncanny da uno no, tra le quali soprattutto la presenza di marche espressive, in particolar modo attorno alla zona degli occhi, capaci di rilevare un’agentività che confermi o smentisca l’ambiguo antropomorfismo del volto: “The Uncanny Valley conjecture then follows his long lineage of mechanical relationships, and it symbolizes the current state-of-the-art in technology alongside the cultural anxiety of transferred agentcies”[71]. L’eziologia dell’Uncanny Valley non è unicamente fisiologica, o determinata biologicamente, ma lo è anche “culturologicamente”[72]. Esempio di ciò è l’Uncanny Valley del tutto cognitivo e retroattivo del caso del sito thispersondoesnotexist.com. Questo sito Internet appare come una semplice monopagina, che ad ogni refresh mostra un differente volto in primo piano, senza caratteristiche di particolare deformità o perturbanza. Questi volti, però, non esistono. Il sito infatti informa che ogni immagine è creata da un algoritmo: “Imagined by a GAN (generative adversarial network)”[73], come argomenta in nota Surace:
Una rete generativa avversaria è una rete neutrale che, dato un dataset di apprendimento, composto ad esempio da immagini di volti, è in grado di apprendere l’aspetto di questi volti per generarne di nuovi, realistici, senza mai replicare quelli già presenti nel primo dataset (operazione che considererebbe come un errore)[74].
Fig. 3: Volto generato artificialmente da
thipersondoenotexist.com. Questa persona non esiste.
La falsificazione dell’umano è totale: il volto che si osserva, così realistico, è in realtà una costruzione del tutto artificiale, nata dall’applicazione di una complessa struttura algoritmica. Una volta conscio di ciò, lo sguardo e l’approccio di chi osserva cambia, si innesca l’Uncanny Valley: “Il sapere che un volto che ci sembra “vero” è “finto” ci getta in un’Uncanny Valley molto simile a quella in cui cadiamo quando invece non lo sappiamo, come nei casi “classici””[75]. A conclusione di questo approfondimento sulle dinamiche che il rapporto reale-artificiale innesca nella mente umana, nel momento in cui questi due estremi si incontrano, viene presentato un ultimo riferimento alle due reazioni opposte che l’artificiale induce: spavento e disorientamento versus curiosità quasi morbosa.
Questa duplice e contestuale sensibilità può esser rintracciata nella visione di Sophia, chatbot provvisto di volto e sviluppato dalla Hanson Robotics Limied di Hong Kong[76]:
Fig. 4: Sophia.
Antropomorfa, perturbante, capace di incutere timore e curiosità al tempo stesso: il futuro.
Ultimi cenni contemporanei: l’Uncanny Valley è tutt’attorno a noi
Volgendo lo sguardo ancor più settorialmente all’immediata contemporaneità, è possibile notare come l’Uncanny Valley sia divenuto pervasivo, sempre più presente, pullulante nei media, dai social network, come TikTok[77], nel quale spopola il trend di truccarsi come simulacri di sé stessi, evocando l’effetto disturbante dell’umano che interpreta il falso umano in un vero e proprio corto circuito, alla satira televisiva, che finisce per andare oltre l’Uncanny, come accade nei video trasmessi da Striscia la Notizia[78], nei quali il deep fake è portato sugli schermi agli estremi, con risultati sorprendenti. Quest’ultimo tipo di falsificazione, ancor più realistica e perturbante, è oggetto di interessanti studi riguardanti il deep fake, un tema oramai assai attuale: non solo si possono produrre fotografie partendo soltanto da un volto, ricreando così immagini precedentemente inesistenti, ampliando lo spettro delle fake news e rendendole sempre più confondibili con notizie realmente accreditate, ma, grazie all’apporto dell’intelligenza artificiale, è ormai possibile creare filmati totalmente digitali, nei quali si “indossa” l’identità di qualcuno, il suo volto, il suo corpo, persino la sua voce e si può manipolare questo simulacro a piacimento, creando spesso un prodotto che smarca il problema dell’effetto Uncanny Valley e che si cimenta nella creazione di una vera e propria duplicazione digitale. Sempre più spesso, infatti, è necessario apporre banner appositi nei quali si specifica che ciò che si sta guardando non è reale, ma creato digitalmente. L’Uncanny Valley è dunque un campanello d’allarme importante, un disclaimer che avverte che qualcosa non va, ma che di fatto pare essere sulla strada dello scomparire, grazie agli sviluppi del digitale. Gli attuali, costanti, miglioramenti della tecnologia fanno, quindi, i conti con questo fenomeno e sembrano andar oltre, surclassando le capacità di discernimento umane.
È lecito domandarsi fino a che punto questo tipo di rappresentazione possa essere accettabile: qual è il limite oltre il quale è possibile spingersi lungo il confine dell’indistinguibilità? In una realtà fatta di doppi e simulacri, nella quale il digitale è chiave di volta per la costruzione di luoghi inesistenti e risorsa quasi sovrannaturale capace, ad esempio, di “riportare in vita” attraverso una sorta di resurrezione virtuale attori e personaggi pubblici, purtroppo deceduti, o facendo dire e fare a politici o esponenti della vita pubblica cose che non avrebbero mai detto o fatto, è ancora possibile distinguere cosa è reale da cosa non lo è? Gli sviluppi delle nuove tecnologie, ancora una volta in ambito digitale, possono effettivamente essere fonte di preoccupanti risvolti negativi? I punti di vista in risposta a queste domande sono fondamentalmente due: da un lato sono lecite le forti preoccupazioni riguardanti, ad esempio, i sempre più pericolosi sviluppi del deep fake, in una visione, quindi, negativa riguardo l’avanzare delle tecniche di falsificazione; dall’altro è però importante ricordare l’inarrestabilità dello sviluppo tecnologico: il progresso non può e non deve avere freni. Se, infatti, il deep fake, letteralmente il “falso profondo”, non è altro che un ulteriore passo verso la disinformazione, che può però portare ad esiti ben più gravi (basti pensare a casi come video e fotografie ritoccate a fini diffamatori, con un tasso di realismo talmente alto da non lasciar dubbi circa l’originalità del file in oggetto), è necessario volgere lo sguardo anche e soprattutto ai tanti aspetti positivi dello sviluppo tecnologico. Splendido e recente esempio delle possibilità offerte dalle innovazioni del digitale riguarda lo sviluppo delle intelligenze artificiali capaci, tra gli altri innumerevoli utilizzi, come ad esempio gli importanti apporti in campo medico, di far “prendere vita” alle fotografie, anche quando queste sono state scattate diversi decenni prima. I volti delle istantanee iniziano a muoversi con un realismo impressionante, che emoziona profondamente chi le guarda; basti pensare al caso di una foto di un familiare che non c’è più, del quale purtroppo non si conservano filmati: ecco che con pochi click, grazie alla tecnologia del deep learning si può ottenere un’animazione davvero vicina alla realtà. I risvolti etici legati a questi temi sono molteplici e complessi, tanto che non è possibile per ora fornire una risposta davvero esatta a questi quesiti. Solo il futuro potrà far luce su quanto in là ci si possa sporgere lungo il confine del falsificabile, senza cadere nel baratro dell’indistinguibilità. La costante di questo lungo, inarrestabile e produttivo sviluppo dovrà, dunque, essere il continuo arricchimento culturale, poiché solo grazie all’istruzione, rimanendo nell’ambito di un continuo ampliamento delle proprie conoscenze, è possibile comprendere le modalità con le quali utilizzare la pluralità delle possibilità offerte dal digitale, in un’ottica evolutiva sempre volta ad un domani migliore, nel quale considerare la tecnologia una risorsa preziosa e non un’apocalittica minaccia.
Conclusioni
A conclusione di questo contributo si vuole dunque rimarcare il concetto fulcro della trattazione: la dimostrazione di come il tema del doppio sia sinonimo di falsificazione e di quanto il suo legame ad essa sia indissolubile, tanto nella letteratura, quanto nel cinema, dagli albori di queste arti, alla contemporaneità. La stretta tra questi elementi risulta allora totale, profonda. Anche alla luce del punto di vista psicanalitico, si confermano le istanze relative al dualismo doppio-falsificazione, a scapito della tesi che vede nel doppio uno strumento nel quale specchiarsi, ritrovarsi, comprendersi. Si è visto, attraverso il doppio filtro letterario e cinematografico, con l’apporto anche di importanti studi in ambito psicanalitico, quanto le varie sfumature del tema del doppio siano sempre sinonimo della creazione di una realtà altra, di un surrogato del reale, di un piano illusorio che tende a volersi mescidare alla “vera realtà”, tentando di mimetizzarsi in essa, per poi finire, però, irrimediabilmente svelato.
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Sitografia
www.thispersondoesentexist.com, ultima visita 26 novembre 2023.
[1]È bene specificare l’utilizzo di due termini, che più volte compariranno nel corso della trattazione: falsificazione e finzione. Questo lavoro intende mostrare il tema del doppio come immagine di falsificazione nella sua rappresentazione e pertanto prende le mosse dal significato più conosciuto del termine: contraffazione, imitazione dolosa; più specificatamente, è da intendersi come creazione di falsità. Sotto questa lente, quindi, il doppio, nelle sue più disparate rappresentazioni, nelle varie epoche, si fa sempre portatore in nuce di un elemento falsificatore, capace di generare intrighi ed equivoci, scambi e sovrapposizioni, interpolando elementi falsi nella realtà. Questa azione falsificatoria crea una nuova dimensione intenzionalmente distorta e manipolata, per un fine o per delle particolari circostanze, rispetto alla situazione di partenza. Il termine finzione rimanda a qualcosa di artefatto, posticcio e contiene all’interno del suo spettro semantico anche il significato di falso. La finzione, nella rappresentazione scenica (sia essa teatrale o cinematografica), implica appunto una falsificazione, nella sua attuazione tramite le più disparate tecnologie. Si è voluto in questo contesto guardare al tema del doppio e alle sue rappresentazioni, attraverso questo duplice filtro: la finzione scenica, in determinati contesti, implica una falsificazione, data dalle tecnologie di volta in volta, anche a seconda del contesto spazio-temporale, messe in atto. Si vuole far riferimento, ad esempio, ai trucchi di George Méliès, nell’ambito del cinema delle origini: in Il ritratto misterioso, 1899, finge di essere un mago, capace di fare incantesimi, e poi, attraverso tecniche avanguardistiche per l’epoca, duplica la sua immagine, creando un suo doppio. Nella storia è davvero un mago, nella rappresentazione è mago solo per finta, nelle tecniche che utilizza, per creare l’illusione scenica dell’essere mago, crea una falsificazione. Il termine falsificazione, pertanto, si riferisce alle tecniche messe in atto per mimetizzare e rendere quasi invisibile agli occhi dello spettatore la finzione, messa in atto nella rappresentazione. Nei discorsi che seguiranno, i due termini saranno spesso accostati, in riferimento a livelli differenti dell’opera alla quale si stara facendo riferimento in quel frangente: il finto in relazione al contenuto, alla realtà nella quale è calata l’azione, alle azioni stesse svolte dai personaggi, che si trovano in una struttura drammatica, artistica; il falso, in relazione alle tecniche che vengono messe in atto nella rappresentazione fisica del doppio (la maschera, i trucchi analogici, poi elettronici, poi digitali).
[2] M. Fusillo, L’altro e lo Stesso. Teoria e storia del doppio, 23, Mucchi editore, Modena, 2012.
[3] Fusillo, 23.
[4] Fusillo, 24.
[5] Il primo, più illustre riferimento non può che essere Omero e l’Iliade. Nel libro V, infatti, assistiamo alla duplicazione di Enea: quello originale viene tirato fuori, per atto divino, dal campo di battaglia, per sfuggire alla morte, mentre il suo doppio, creato ad hoc da Apollo, del tutto simile ad Enea anche nelle armi, affronta i pericoli al suo posto. Non solo nei poemi omerici, ma anche e soprattutto nel teatro classico, tanto nella tragedia quanto nella commedia, il doppio rappresenta un tema prolifico, capace di essere motore di azioni articolate ed avvincenti. Ne sono un esempio l’Elena di Euripide, per rimanere nel mondo greco, in particolare nel filone della tragedia, nella quale il personaggio di Elena viene sdoppiato: sulla scena c’è l’Elena traditrice, che incarna il lato negativo, seducente e distruttivo della donna, ma anche l’Elena fedele e speranzosa, che attende il ritorno del marito. Elena, che in altre opere, a partire da quella omerica, viene costruita attingendo solo ed unicamente alla sua componente negativa, qui appare sdoppiata, pur non essendoci mai un incontro tra le due. Muovendo il passo dalla tragedia greca alla commedia latina, si farà qui riferimento a quella che viene definita la più originale tra le commedie plautine: l’Anfitrione. In questa opera si dispiega un fitto intreccio che vede la presenza di doppi e sosia, che proprio dal loro incontro generano l’azione e l’elemento comico, arricchito anche da quello divino, in quanto anche le divinità prendono parte agli scambi d’identità, agli sdoppiamenti, agli equivoci che da essi vengono generati. Omero, Euripide, Plauto, il poema omerico, la tragedia greca, la commedia latina, hanno voluto in questo contesto rappresentare i capisaldi per esemplificare a grandi linee la ricchezza della brulicante produzione nell’antichità classica legata al tema del doppio e al suo campo tematico.
[6]S. Freud, Das Unheimliche, in G. W. XII 1919; trad. it. Il Perturbante, 24, in Opere, vol.9, Bollati Boringhieri, Torino, 1989, in M. Fusillo, L’altro e lo stesso. Teoria e storia del doppio.
[7]O. Rank, Der Doppelgänger. Eine Psychoanalytische Studie, «Imago», 3 1914; poi Leipzig-Wien-Zürich, Internationaler Psychoanalisticher Verlag 1925; trad. it. Il doppio, Sugarco, Milano, 1979, in M. Fusillo, L’altro e lo stesso. Teoria e storia del doppio, 24.
[8]R. Rogers, A Psychoanalistic Study of the Double in Literature, Detroit, Wayne State University Press, 1970, in M. Fusillo, L’altro e lo stesso. Teoria e storia del doppio, 24.
[9]Per un approfondimento sul “doppio latente”, si vedano, più avanti, le definizioni di personaggi speculari e complementari.
[10]C. F. Keppler, The Literature of the Second Self, University of Arizona Press, Phoenix, 1972, in M. Fusillo, L’altro e lo stesso. Teoria e storia del doppio, 25.
[11]M. Fusillo, L’altro e lo stesso. Teoria e storia del doppio, 24.
[12]L. Dolezel, Le triangle du duoble, in AA. VV. Du thème en littérature, «Poétique», 64 1985, pp. 463-472, in M. Fusillo, L’altro e lo stesso. Teoria e storia del doppio, 26.
[13]Dal famoso romanzo: V. Woolf, Orlando. A biography (Orlando), Harper UK, 1933; dal quale è tratto l’omonimo film: Potter Sally, Orlando (Id), 1992, Regno Unito, Russia, Francia, Paesi Bassi, Italia.
[14]Anfitrione, personaggio derivante dalla mitologia greca, è in questo contesto ripreso in virtù del suo ruolo nella commedia Amphitruo (Anfitrione), databile III secolo a. C., opera dell’autore latino Plauto. La vicenda si sviluppa in cinque atti, nei quali agiscono uomini, donne e divinità, in un fitto intreccio di doppi, sosia ed equivoci.
[15]M. Fusillo, L’altro e lo stesso. Teoria e storia del doppio, 26.
[16]Viene fatto riferimento in questo caso a racconto di E. A. Poe, William Wilson, pubblicato nel 1840, nel quale il protagonista racconta la sua vita, costellata da incontri e controversie con un suo misterioso omonimo, William Wilson appunto, che si scoprirà poi avere un aspetto del tutto uguale al primo. Il finale del racconto è particolarmente emblematico e riporta a una sintesi univoca lo sdoppiamento verificatosi nella storia.
[17]V. Woolf, Orlando, 1928. S. Potter, Orlando, 1992, Regno Unito, Russia, Paesi Bassi, Italia.
[18]Hitchcock, Alfred, Vertigo (La donna che visse due volte), 1958, U.S.A.
[19]M. Fusillo, L’altro e lo stesso. Teoria e storia del doppio, 31.
[20]T. M. Plauto, Menaechmi (Menecmi), commedia latina, III secolo a.C.
[21]C. Goldoni, I due gemelli veneziani, commedia, 1747.
[22]W. Shakespeare, Twelfth Nigth, or What You Will (La dodicesima note), commedia pubblicata nel 1623.
[23]Curtis Bernhardt, A stolen life (L’anima e il volto), 1946, U.S.A.
[24]Sidodmask Robert, Dark Mirror (Lo specchio scuro), 1946, U.S.A.
[25]Nel primo caso, nella versione di Ovidio, lo scultore Pigmalione si innamora di una creatura inanimata: una statua da lui stesso creata, la quale prende vita. Nel secondo, l’immagine riflessa di Narciso diviene oggetto del suo stesso amore e causa della sua morte. Tanto la statua quanto il riflesso sono leggibili attraverso il filtro metaforico del ritratto, verificandosi uno sdoppiamento delle sembianze umane che sfocia in un simulacro della sua natura organica.
[26]O. Wilde, The picture of Dorian Gray (Il ritratto di Dorian Gray), Inghilterra, 1890.
[27]Lewin, Albert, The picture of Dorian Gray (Il ritratto di Dorian Gray), 1947, U.S.A.
[28]Parker, Oliver, Dorian Gray (Id), 2009, Regno Unito.
[29]Garland, Alex, Ex Machina (Id), 2014, Regno Unito.
[30] Wegener, Paul, Der Golem, wie er in die welt kam (Il Golem, come vene al mondo), 1920, Germania.
[31] Lang, Fritz, Metropolis (Id), 1927, Germania. Anch’esso oggetto di approfondimento nel secondo capitolo.
[32] M. Fusillo, L’immaginario Polimorfico. Fra letteratura, teatro e cinema, 222.
[33] M. Fusillo, L’altro e lo stesso. Teoria e storia del doppio, 31-34.
[34] A titolo di esempio si vogliono citare due pellicole, capolavori dello Studio Ghibli: Miyazaki Hayao, Kurenai no buta (Porco rosso), 1992, Giappone; e Miyazaki Hayao, Hauru no ugoku shiro (Il castello errante di Howl), 2004, Giappone. In entrambi si assiste a una qualche metamorfosi, tanto del protagonista, quanto dei personaggi attorno ad esso: l’aviatore Marco Pagot, nel rimo caso, ha il volto di maiale, ma il corpo da uomo, in seguito ad avvenimenti legati alla Prima Guerra Mondiale. Nel secondo caso invece, molti dei personaggi coinvolti nella storia subiscono una metamorfosi: la strega, Howl stesso, Sophie e svariati altri.
[35] M. Fusillo, L’altro e lo stesso. Teoria e storia del doppio, 35.
[36] M. Fusillo, L’immaginario Polimorfico. Fra letteratura, teatro, cinema, 217, Luigi Pellegrini editore, Cosenza, 2018.
[37] F. Casetti, Teorie del cinema 1945-1990, 172.
[38] Casetti, 172.
[39] S. Lebovici, Psychanaliste et cinéma, in Revue Int. De Filmologie, 2, 1949, in F. Casetti, Teorie del cinema 1945-1990, 172.
[40] Casetti 172.
[41] S. Lebovici, Psychanaliste et cinéma, 50.
[42] Lebovici, 50.
[43] F. Casetti, Teorie del cinema 1945-1990, 173.
[44] S. Lebovici, Psychanaliste et cinéma, 50.
[45] Lebovici, 53.
[46] Fantasticheria.
[47] S. Lebovici, Psychanaliste et cinéma, 54.
[48] F. Casetti, Teorie del cinema 1945-1990, 174.
[49] C. Musatti, Le cinéma et la psychanalise, in Revue Int. de Filmologie, 6, 1949.
[50] F. Casetti, Teorie del cinema 1945-1990, 174.
[51] Casetti, 174.
[52] F. Casetti, Teorie del cinema 1945-1990, 174-175.
[53] Casetti, 175.
[54] J. P. Oudart, La suture, in Cahiers du cinéma, 211, 1969.
[55] L. Baudry, The World in a Frame, Anchor Press-Doubleday, New York, 1976.
[56] F. Casetti, Teorie del cinema 1945-1990, 178.
[57] Casetti, 178.
[58] F. Casetti, Teorie del cinema 1945-1990, 179.
[59] Casetti, 179.
[60]Il cinema indaga e prefigura quello che potrebbe succedere, con analoghe modalità, nell’ambiente attoriale: se è possibile creare voce e musica in maniera elettronica, oggi digitale, sarà presto possibile sostituire la figura dell’attore, umana interpretazione di un copione, grazie all’ausilio di un suo doppio digitale? Il cinema indaga riguardo questo interrogativo, profondamente metacinematografico, nel film The Congress, regia di Ari Folman, 2013. Una parziale risposta oggi è rintracciabile nel crescente utilizzo di influencer digitali, creati dai brand, ma anche da organi istituzionali, con risultati altalenanti e discutibili, ma comunque esistenti. Dietro questi doppi dell’umano, per ora, c’è comunque un’ulteriore “mano umana”, che li manovra, “anima”, gestisce. Sarà sempre così? L’intelligenza artificiale avrà un ruolo nello sviluppo di simulacri di questo tipo?
[61]È ancora una volta il cinema a farsi precursore dei tempi e a suggerire varie modalità con cui questo collegamento corpo umano-corpo virtuale (avatar) possa avere luogo. Verranno in questa sede citati due soli esempi, diversi per data di uscita e contenuto: Il Tagliaerbe, film del 1992, di Brett Leonard, nel quale viene messo in scena il sistema del “mind uploading”, ovvero una connessione tra la mente del personaggio nella realtà e il suo avatar nella realtà virtuale, e Avatar, Di James Cameron, 2009, dove questo collegamento avviene tramite elettrodi e una sorta di sedazione profonda.
[62]G. Youngblood, Expanded Cinema, 41, CLUEB, Bologna, 1970.
[63]F. Casetti, La galassia Lunière. Sette parole chiave per il cinema che viene, 208, Bompiani, Milano, 2015.
[64]B. Surace, Semiotica dell’Uncanny Valley, 2021, in Lexia. Rivista di semiotica, 37-38. Volti artificiali, 359, marzo 2021.
[65]A. Tinwell, Uncanny as Usability Obstacle, 2009, in A.A. Ozok, P. Zaphiris (a cura di), Online Communities and Social Computing, Third International Conference, OCSC, Springer, Berlino, p.622-31, in B. Surace, Semiotica dell’Uncanny Valley, 2021, in Lexia. Rivista di semiotica, 37-38. Volti artificiali, 360, marzo 2021.
[66]E. Jentsch, Zur Psychologie Des Unheimlichen, Psychiatrisch-Neu-rologische Wochenschrift, 1906, VIII, 22: 195-8 e 23: 203-5, in B. Surace, Semiotica dell’Uncanny Valley, 2021, in Lexia. Rivista di semiotica, 37-38. Volti artificiali, 360, marzo 2021.
[67] Cfr Leander, Chartand, e Bargh 2012, in B. Surace, Semiotica dell’Uncanny Valley, 2021, in Lexia. Rivista di semiotica, 37-38. Volti artificiali, 362, marzo 2021.
[68] F. T. McAndrew, S. Koehnke, On the Nature of Creepines, “New Ideas in Psychology”, 2016, 43: 10-15, in B. Surace, Semiotica dell’Uncanny Valley, 2021, in Lexia. Rivista di semiotica, 37-38. Volti artificiali, 362-363, marzo 2021.
[69] B. Surace, Semiotica dell’Uncanny Valley, 2021, in Lexia. Rivista di semiotica, 37-38. Volti artificiali, 363, marzo 2021.
[70] Surace, 362.
[71] L. Demers, Machine Performers: Neither Agentic nor Automatic. Unleashed Technical Objects: Human-Art-Technology, 2010, in W.D. Smart, A. Pileggi, L. Takayama (a cura di), What Do Collaborations with the Arts Have to Say About Human-Robot Interaction?, atti del Work-shop HRI 2020, Washington University in St. Louis, 30-40, in B. Surace, Semiotica dell’Uncanny Valley, 2021, in Lexia. Rivista di semiotica, 37-38. Volti artificiali, 373, marzo 2021.
[72] B. Surace, Semiotica dell’Uncanny Valley, 2021, in Lexia. Rivista di semiotica, 37-38. Volti artificiali, 373, marzo 2021.
[73] I. Goodfellow et al., Generative Adversarial Nets, 2014, in Z. Ghahramani et al. (a cura di) Advances in Neutral Information Processing Systems, 27, 2672-80, in B. Surace, Semiotica dell’Uncanny Valley, 2021, in Lexia. Rivista di semiotica, 37-38. Volti artificiali, 365, marzo 2021.
[74] B. Surace, Semiotica dell’Uncanny Valley, 2021, in Lexia. Rivista di semiotica, 37-38. Volti artificiali, 365, marzo 2021.
[75] Surace, 366.
[76]B. Surace, Semiotica dell’Uncanny Valley, 2021, in Lexia. Rivista di semiotica, 37-38. Volti artificiali, 376, marzo 2021.
[77]In relazione a questo social network, nato in Cina e poi arrivato in Europa nel 2020, è possibile soffermarsi su un’interessante quanto curiosa osservazione. È infatti in atto, da alcuni mesi, un vero e proprio corto circuito: il trend delle live Npc. Trend lanciato oltreoceano e arrivato Italia di recente (2023), consiste nell’interpretare durante dei video in diretta un Npc, ovvero un non playble caracter, personaggio tipico dei videogiochi che appunto non è giocabile e interagisce con chi detiene i comandi solo tramite frasi e movimenti standardizzati in risposta a un certo input. Questo impersonare un elemento del videogioco, che esiste solo nel mondo virtuale della rete o della console, costituisce una gamification della realtà a tutti gli effetti. L’umano attinge dal digitale e ne prende le sembianze, pretendendo di diventare egli stesso il suo doppio virtuale, in maniera antitetica rispetto a quanto accade più spesso. È un andare controcorrente, ribaltare le regole del gioco, per quanto si tratti di una forma di intrattenimento controversa, ancora troppo poco compresa e, d’altronde, troppo poco spiegata, soprattutto ad un pubblico che ha poca familiarità con il settore specifico. Resta interessante la porosità tra reale e virtuale, che in questo caso non solo si mescitano, si confondono, ma si scambiano anche i ruoli solitamente assegnatigli, in un giro di valzer che può portare ad interessanti riflessioni.
[78] Si noti come il montaggio di questi video nel programma televisivo viene fatto ad hoc. Non solo l’intento satirico, ma anche la volontà di non creare confusione nello spettatore – che finirebbe per non riuscire più a comprendere quando è in presenza di un video vero e quando di uno falso, generato digitalmente – hanno portato gli autori a creare video per lo più comici, nei quali personaggi politici e di spicco cantano canzoni in rima su base pop, con movimenti molto ampi delle braccia (a richiamare appunto un elemento macchinico che può risultare quasi macchiettistico, ma che è fortemente necessario). Senza la canzoncina leggera e in rima, lo sfondo con luci colorate e il balletto quasi grottesco, il volto, la voce, l’identità di chi è inquadrato sono totalmente create digitalmente, copia di qualcuno che esiste davvero e che sarebbe molto facilmente confondibile con quella che oramai è necessario definire “vera realtà” in opposizione a una realtà altra che si va sempre più diffondendo: una realtà non solo virtuale, ma digitale.