Francesco Coniglione, Università degli Studi di Catania
E-mail: f.coniglione@unict.it
doi:
10.14672/VDS20242IP8
(https://doi.org/10.14672/VDS20242IP8)
Abstract
Il pensiero moderno è stato segnato profondamente dall’idea di razionalità ereditata dal logos greco, nato in contrapposizione e negazione del suo Altro, ovvero dell’approccio sapienziale al reale tipico delle religioni misteriche ed iniziatiche. Con la nascita della scienza moderna a seguito della rivoluzione scientifica, l’uomo occidentale ha edificato la propria identità nella contrapposizione al mondo magico ed esoterico degli antichi, che è stato visto come il deposito di ogni superstizione e sintomo di arretratezza di pensiero. Tuttavia, la sua pervasività nelle varie epoche storiche e la sua persistenza anche nell’età contemporanea, persino in uomini di scienza e pensatori legati alla tradizione razionalistica dell’occidente, pone la necessità di intenderne in modo non riduttivo e liquidatorio il suo significato nell’economia del pensiero umano.
Keywords: razionalità, esoterismo, pensiero occidentale, scienza.
Modern thought has been profoundly influenced by the concept of rationality inherited from the Greek logos. This notion emerged in contrast and negation to its counterpart—the sapiential approach to reality characteristic of Mysteries and initiatic religions. With the advent of modern science during the scientific revolution, Western man forged his identity in opposition to the magical and esoteric realm of the ancients. This realm was viewed as the repository of superstition and indicative of the backwardness of thought. Despite this opposition, the pervasiveness of the magical and esoteric worldview persisted through various historical epochs. It continues to endure even in the contemporary age, among both scientists and thinkers adhering to the rationalist tradition of the West. This persistence necessitates a nuanced and non-reductive understanding of its significance within the framework of human thought – one that avoids dismissal or oversimplification.
Keywords: Rationality, esotericism, Western thought, science.
Il pensiero moderno è stato segnato profondamente dall’idea di razionalità ereditata dal logos greco, poi ereditato dalla scienza moderna. Come è stato affermato efficacemente,
l’immagine ufficiale della scienza di noi uomini dell’Occidente risale al tempo della nostra infanzia in cui parlavamo greco. Ci fu allora insegnato che la scienza è conoscenza vera, alethès logos, perché dice come è fatto il mondo; è conoscenza razionale, logos epistemonikòs, perché prova ciò che dice; è conoscenza necessaria, syllogismòs ex anankaion, perché obbliga tutti alle sue prove[1].
A partire dall’eredità classica, dal suo concetto di ragione o logos, i protagonisti dell’età moderna che hanno guardato alla scienza come modello da imitare hanno sperato così di edificare un nuovo ideale di sapere, quasi fossero – secondo l’espressione di Bernardo di Chartres – “nani sulle spalle dei giganti” (quasi nanos gigantium humeris insidentes): con i nuovi strumenti elaborati – dal cannocchiale alla nuova matematica, che veniva a sostituire la vecchia e sterile logica sillogistica – essi ormai potevano guardare più lontano dei grandi maestri del passato, verso un futuro il cui nuovo sole – la scienza – irradiava un paesaggio fatto di mirabili aspettative e conquiste.
La scienza nata dalla rivoluzione secentesca è finita così per divenire un costante punto di riferimento per la riflessione filosofica successiva, sia in senso positivo, per ispirarsi ad essa, sia negativo, per contestarne il predominio. Nel primo caso la scienza ha avuto per molti pensatori una funzione paradigmatica per ogni altra attività umana di tipo cognitivo (ma anche pratico ed etico): per Cartesio, che voleva edificare un nuovo metodo conoscitivo a partire da quello che costituiva il nocciolo duro dell’impresa scientifica, la matematica, e a tale scopo dettava le sue quattro “regole”; per Spinoza, che intendeva costruire la sua filosofia ispirandosi alla geometria euclidea (Ethica ordine geometrico demonstrata, tale il titolo della sua opera principale), intesa come esempio per eccellenza di procedura razionale; per Hume, che pensava di fare per le scienze dell’uomo quanto fatto da Newton per quelle della natura, trovando anche per esse il principio cardine intorno al quale edificarle; per Leibniz che, pur lasciando alla metafisica un suo ruolo autonomo, tuttavia cercava di costruire una logica che potesse costituire il modello procedurale delle discipline filosofiche, permettendo a queste di pervenire alla medesima scientificità delle scienze naturali e di risolvere così ogni questione con un semplice “calculemus”; infine per Kant che, prendendo a modello la scienza newtoniana, si preoccupava di carpirne il segreto e di conseguenza condannava a morte la metafisica quale disciplina cognitiva in grado di farci pervenire ad una conoscenza della realtà competitiva con quella delle scienze naturali. Non sono che alcuni degli esempi più notevoli, sufficienti però a far intendere come gran parte del “moderno” sia stato segnato dalla presenza ingombrante della scienza e della sua razionalità da intendere, differenziare, esaltare o delimitare; in ogni caso con cui bisogna fare i conti.
Il trionfo del logos e la sconfitta della sapienza
Ma il trionfo del logos ha finito per ricacciare ogni altro tipo di esperienza cognitiva o pretesa di accesso al reale nel dominio dell’irrazionale, nel regno oscuro di un’alterità cui non si assegnava alcun ruolo positivo nell’edificazione della società umana. L’Altro del logos ha così avuto una vita in chiaroscuro, finendo per essere oggetto di discipline alternative, di solito screditate dal logos trionfante come residui superstiziosi di una fase primitiva dell’umanità.
Era infatti caratteristica della “sapienza” prefilosofica della Grecia arcaica quella di presentarsi con una fulminea autoevidenza, tale da sfuggire sia alla necessità di una giustificazione discorsiva, come anche alla possibilità di darne una esplicitazione nei termini di un ragionamento articolato ed articolabile. La “manìa” dionisiaca, l’ekstasis come uscire da sé, nel senso letterale della parola, è strumento di liberazione conoscitiva e di accesso ad una realtà che sfugge ogni forma di mediazione concettuale e discorsiva, per configurarsi come “partecipazione” e quindi identificazione intima e panica. Essa ha carattere concreto, come di cosa che si tocca e si percepisce senza interposizione, senza la necessità di una riflessione. Aristotele si riferisce proprio a questo tipo di accesso al vero quando sostiene, nella testimonianza di Plutarco:
Il pensiero dell’intellegibile, puro e semplice, attraversa l’anima balenando come un lampo, offrendo talora per una sola volta l’opportunità di toccare e di contemplare. Perciò Platone e Aristotele chiamano “epoptica” [intuitiva] questa parte della filosofia, perché chi … ha davvero toccato la pura verità di esso (cioè il principio semplice e immateriale), ritiene di possedere, come in una iniziazione, il fine ultimo della filosofia[2].
Ma ciò che per Platone ed Aristotele è solo una “parte” della filosofia, e pertanto viene considerata o sua componente propedeutica o sbocco finale, invece per gli antichi sapienti – anteriormente alla nascita del sapere filosofico – è l’espressione di una dimensione dell’essere non riducibile alla razionalità, ed anzi con quest’ultima in antitesi; almeno fintanto che si intenda la ratio come il potere di articolare logoi, “discorsi”.
I riti misterici dell’antica Grecia, come quello celebrato ad Eleusi, nel corso dei quali avviene l’iniziazione dell’adepto, hanno carattere esoterico, una segretezza e indicibilità che ne impedisce la divulgazione e la rivelazione al volgo “profano”; essi “in nessun modo è lecito profanare, indagare, o palesare”[3], in quanto la loro realtà è estranea alla parola. Ed in ciò non può che essere notato l’evidente punto di contatto con quel tipico misticismo conoscitivo che si è manifestato in ogni civiltà, sia occidentale che orientale, in momenti diversi, quale fiume carsico che di tanto in tanto torna alla superficie portando con sé il fondo oscuro (o numinoso) di un sapere sapienziale mai pienamente sconfitto dai “lumi” razionali, dei quali la filosofia s’è fatta interprete. Ma questa è appunto “filo-sofia”, “amore della sapienza” o saggezza, non suo possesso immediato, come nella esperienza misterica ed iniziatica; sua ricerca, quale di un bene perduto ed agognato, che non può essere più recuperato se non passando sotto il giogo, necessario, della mediazione discorsiva.
La sapienza, infatti si configurava come un’esperienza, un “vedere con meraviglia e sgomento”[4], cui si giunge alla fine di un percorso iniziatico e che trasforma integralmente il soggetto col metterlo di fronte a una verità nuda e indefettibile. Nel pensiero arcaico greco il vero sapere, inteso come conoscenza diretta e totalizzante, fa uso di voci del verbo òida (vedere) per esprimere l’immediata presenza del Vero che è possesso solo degli dèi o di chi sia da loro posseduto, come ad es. accade ai poeti. Al di là di esso v’è un’abilità cognitiva specificamente umana, congetturale e limitata all’opinione, sugli dèi e sul tutto[5]. Come dice Pindaro, per il quale tutto proviene dagli dèi, “i fisiologi [τοὺς φυσιολογοῦντας] colgono un frutto acerbo di sapienza”[6]: è una svalutazione della sofia umana per la sua inadeguatezza a cogliere le intenzioni degli dèi e quindi a varcare la dimensione del sapere profano:
Che cosa mai immagini che sia la sapienza, che un poco
solleva un uomo al di sopra di un altro?
Non c’è modo che tu possa indagare i disegni
degli dèi con la tua mente di uomo:
essa è figlia di madre mortale.
Cieche le menti degli uomini
se uno senza le Eliconie cerca […]
la via profonda della saggezza [σοφίας].[7]
Dalla prigione del linguaggio umano e dell’episteme cui si può giungere suo tramite si può fuggire solo grazie alla ispirazione divina (della quale si sono fatti interpreti Pitagora, Parmenide ed Empedocle, per limitarsi ai “maggiori” del canone filosofico occidentale), oppure alle esperienze estatiche che gli antichi greci sperimentavano nei misteri, nelle celebrazioni dionisiache e nella sua manìa, nell’ékstasis intesa come un uscire da sé, nel senso letterale del termine, quando avviene una “rottura contemplativa, artistica, visionaria, […] un distacco conoscitivo”[8] che scioglie dai vincoli l’individuo, abbatte le barriere tra l’umano e il divino e permette di stabilire un contatto più diretto col soprannaturale[9]: sono questi strumenti di liberazione conoscitiva e di accesso ad una realtà che sfugge a ogni forma di mediazione concettuale e argomentativa. All’estasi, strumento per tale liberazione conoscitiva, si giunge mediante l’enthousiasmòs: le menadi sono èntheoi, cioè hanno il dio al proprio interno, sono da esso “invasate”, “possedute”[10], per cui l’accesso al divino si realizza come “partecipazione” e quindi identificazione intima e panica[11] nella quale si fa esperienza della fondamentale condizione di fusione nel tutto, di “unitive event”[12], di unità degli opposti, presente in ogni manifestazione religiosa, in qualsivoglia atteggiamento “magico”[13], ad ogni latitudine e in ogni tempo[14]. È anche un sollevarsi oltre e al di là della vita quotidiana, delle sue offese e dolori:
[…] la danza dionisiaca offre all’uomo la possibilità di obliare i mali e di superare i limiti imposti dalla ragione e dalla civiltà, confondendosi con le forze oscure e primordiali della natura. Stringere i legami tra sé e il mondo, scavalcare la barriera degli anni e provare l’illusione inebriante di essere sottratti al fluire del tempo, sentirsi parte di un unico corpo collettivo in cui la propria identità svanisce e si confonde: ecco il richiamo che il culto di Dioniso propone a chi vi si abbandona[15].
Viceversa, la necessità del discorso in favore di un punto di vista, di una dottrina, di una concezione, nasce solo se questa non è dotata di una evidenza “immediata”, che si impone da sé, alla quale non si può che assentire; la sua verità non può essere riconosciuta al primo sguardo, come avviene all’iniziato che giunga all’epoptèia, ma deve essere faticosamente conquistata nel discorso, grazie alla ragione e con argomenti che non possano essere rifiutati. Da qui nasce la dialettica e quel tipico argomentare che costituisce il dato più originario e caratteristico del modo di intendere il sapere nel mondo greco[16], il cui potere è tutto affidato alla potenza delle sue astrazioni che hanno finito per ricreare un reale dal quale la concretezza dell’individuo e dei suoi mondi vitali sono stati espulsi e la cui ricchezza e “abbondanza” è stata immiserita in semplicistici ed astratti concetti[17]. La “sapienza” è così ricacciata dalla filosofia nel crepuscolare regno dell’esoterismo, che percorrerà tutta la cultura occidentale come una sorta di sotterranea corrente; essa è sempre presente come l’Altro della trionfante ragione, tramortita ma mai vinta, pronta a esercitare, quando l’occasione propizia si presenti, quel fascino numinoso incarnato nel canto delle sirene, resistendo al quale Odisseo[18] ha potuto dare inizio a quel mondo di “virtude e canoscenza” che ha rappresentato e ancora per molti rappresenta il più bel sogno dell’Occidente.
Con l’avvento del cosiddetto “razionalismo illuministico”, che si incarna nel V secolo con i grandi filosofi presocratici e poi sfocia nei sistemi platonici e aristotelici, viene a crearsi nella cultura greca classica una frattura tra il cosiddetto “conglomerato ereditario”[19] – fatto di superstizioni, religione tradizionale, miti e leggende, ovvero le credenze popolari – e le convinzioni di quel circolo di intellettuali che si raccoglie intorno alla figura di Pericle e che vede nei sofisti, in alcuni rappresentanti della filosofia naturalista e in Socrate (per limitarci solo alla parte filosofica) i propri principali rappresentanti.
Si viene così a consolidare progressivamente una visione che divarica nettamente razionalità e irrazionalità, intese come parti contrapposte e inconciliabili dell’anima: la parte razionale finisce per assumere l’egemonia sull’altra, la quale è invece considerata il ricettacolo del male, da tenere sotto controllo, punto di degrado a cui si giunge quando si allentano i freni della ragione e che quindi allontana dalla vera e propria umanità. Una conseguenza di questa linea di tendenza è la sempre maggiore assimilazione della mania e delle estasi iniziatiche, appartenenti alla cultura tradizionale e di cui si facevano ancora interpreti i filosofi/sapienti insieme ad altre figure di saggi e veggenti, alla follia individuale, al crollo psicologico che porta al vaneggiamento e che si configura come una vera e propria patologia dell’anima (intesa ormai come principio unitario posto all’interno dell’uomo e distinta dal corpo), da trattare mediante terapie mediche, così come fa in prospettiva laica e naturalistica la scuola ippocratica. La definizione aristotelica dell’uomo come “animale razionale” finisce per sancire e chiudere questo iter di espulsione della sapienza e della “follia” dalla natura sana o “normale” dell’uomo, per consegnarla alla psicologia e alla patologia individuale. Ormai il logos ha un suo Altro, col quale non ha e non vuole avere nulla da spartire, in complice sintonia con il rifiuto dell’Altro che si esplica a livello politico, sociale e religioso, dando origine a infinite e tragiche vicende di violenza ed esclusione.
Un chiaro sintomo del processo di delegittimazione della verità non discorsiva è fornito dall’evidente cambiamento della funzione attribuita alla poesia all’epoca di Platone, a seguito della democratizzazione della vita politica greca e della grande epoca dell’Illuminismo. La figura del poeta appare ormai desueta e sempre meno posto v’è per la parola magico-religiosa. Non è più il tempo dei “maestri di verità” e del loro parlare assertorio, annunciatore di una alḕtheia (ἀλήθεια) non umana. L’unica funzione che rimane ed è riconosciuta al poeta è quella – assai più legata al mondo degli eroi e alle loro imprese – di combattere contro lēthe (λήθη) e di perpetuare la memoria, ovvero una verità terrena, che altrimenti svanirebbe, fugace come la vita[20]. La condanna platonica[21] non è che il segno di questa perduta eccellenza e il presupposto affinché alla fascinazione irrazionale della poesia e alla sua capacità persuasiva venga sostituita una via puramente razionale di accesso al Vero, in cui ha un posto decisivo la discussione ragionata: dialettica e matematica, ovvero filosofia. Ormai non è più necessaria alcuna speciale disposizione e nessun tipo particolare di uomo, in quanto l’accesso al sapere è nella piena disponibilità della normale umanità (persino delle donne e degli schiavi), anche se vi si può pervenire laboriosamente e con fatica, grazie a un lungo e opportuno itinerario di elevazione intellettuale. E se in fin dei conti ciascuno porta con sé, sin dalla nascita, i contenuti del Vero, sicché bisogna tirarli fuori, riportarli alla coscienza, ciò può esser realizzato ora solo con le tecniche razionali della filosofia, innanzi tutto la matematica e poi la dialettica; e anche se ciò avviene grazie a un cammino che sembra simile – come viene splendidamente mostrato nel Simposio – a una vera e propria iniziazione, a una sorta di ascesa mistica che porta ad una finale contemplazione, tuttavia questo iter è ormai molto diverso da quello dei Mysteria: è profano, pubblico, aperto alla discussione nella comunità e non racchiuso nella conventicola di pochi eletti[22].
La filosofia nasce così in contrapposizione alla sapienza misterica e sacerdotale, al mito ed alla religione tradizionale. È nel logos che viene racchiuso il destino dell’Occidente, il cui cammino viene definitivamente segnato dalla razionalità greca e dal suo modo di intendere la conoscenza come mediazione ed articolazione di discorsi; come necessità della giustificazione razionale; come pensiero simbolico ed intersoggettivo. In ciò v’è l’idea che sia possibile far sì che il proprio discorso, fatto di parole, frasi e loro concatenazioni, sia in grado di mostrare la propria “bontà” rispetto a quello altrui, di esser “più forte” senza far ricorso a requisiti ad esso esterni, giacché anche l’esperienza spesso invocata a sostegno è fruibile solo all’interno della tramatura linguistica, solo nella misura in cui va in favore o contro una certa tesi o argomentazione. Ciò implica la convinzione che un punto di vista non possa reggersi per sé stesso, ovvero per il solo fatto di essere enunciato, ma abbisogna di un sostegno che solo una argomentazione può fornire. La necessità del discorso in favore di una dottrina, di una concezione, nasce solo se queste non sono riconosciute spontaneamente, ovvero non sono accettate dall’interlocutore per il fatto stesso di essere profferite. Bisogna farne vedere la plausibilità, appunto perché esse non sono dotate di una evidenza “immediata”, che si impone da sé, alla quale non si può che assentire.
Ed appunto l’esigenza di argomentare, e quindi di bene argomentare, è l’essenza di tale logos. Infatti, la logica può nascere solo supponendo che si diano argomentazioni, il cui scopo sia quello di “dimostrare” o “provare” una certa tesi. A sua volta ciò presuppone che esistano ambiti in cui sia possibile adoperare tali argomentazioni (non ogni discorso è infatti suscettibile di “analisi logica”; come abbiamo visto, sfugge alla possibilità dell’articolazione linguistica la conoscenza iniziatica o quella mistica), nei quali esse hanno piena legittimità ed assoluta autonomia, senza che siano imposti vincoli di tipo religioso che preservino dalla ricerca profana sacri e invalicabili recinti, in nome una “superiore dignità” del loro oggetto o di chi se ne fa portatore. Ne segue che in tali ambiti deve essere attribuito all’argomentazione un potere superiore ad ogni altra autorità precedentemente riconosciuta (tradizionale, religiosa ecc.).
La scienza moderna è erede di tale logos; di esso ne privilegia e sviluppa ulteriormente il carattere di razionalità astratta e disincarnata, per la prima volta applicata da Galileo nell’ambito dello studio del mondo fisico e poi fatta propria dalla filosofia dei secoli successivi, rimanendo un punto di riferimento imprescindibile per ogni caratterizzazione del pensiero scientifico. Su questa base s’è edificata la convinzione che non v’è altra conoscenza se non quella che si edifica nella trama del linguaggio, nella comunicazione intersoggettiva, nell’esigenza di convincere e persuadere, nella capacità di portare discorsi contro altri discorsi.
Una crepuscolare e disprezzata sopravvivenza
L’affermazione del logos e la sconfitta della sapienza porta alla creazione di un ampio serbatoio in cui vanno a confluire tutti i saperi che si contrappongono alla astratta razionalità filosofica e che sono state ricomprese sotto l’etichetta dell’esoterismo (come astrologia, alchimia, magia, ma anche tutte le esperienze riconducibili ad un approccio mistico al reale). Esso ha finito così per rappresentare il contraltare della ragione, il suo Altro, che mai si è rassegnato al proprio deperimento e che percorre come un fiume carsico tutta la cultura occidentale, a volte emergendo con maggior visibilità, altre volte conducendo una vita sotterranea.
È questo uno sterminato territorio, uno sconfinato universo che riempie biblioteche intere, vede scaffali zeppi nelle librerie, più di ogni altra disciplina “scientifica”, con legioni di uomini che lo hanno praticato e che continuano a credere in esso; persone che nella vita normale di ogni giorno esercitano pienamente il loro intelletto, si occupano di questioni del tutto razionali, professano persino attività di ricerca scientifica in campi in cui il logos occidentale ha dato le migliori prove di sé, come le scienze fisiche, la logica o la matematica[23]. È quell’ambito di interesse che una consolidata storiografia della cultura e della filosofia europea, ha concepito come il “cestino dell’immondizia della conoscenza rifiutata”[24], in cui vengono collocate tutte le superstizioni e le idee balzane che l’umanità ha prodotto nel corso del suo lungo cammino verso il rischiarimento razionale. A volte questa “conoscenza rifiutata” (come è stata efficacemente definita per primo da James Webb[25]), questo deposito dove “abbiamo accatastato tutto ciò che non vogliamo accettare perché troppo differente dall’immagine ideale che abbiamo di noi stessi e dai nostri adorati valori”[26], tutto ciò che fa parte dei “sotterranei dell’Occidente”[27], si è mimetizzato in nobili e raffinate elaborazioni teoretiche che ingannano e affascinano tutt’oggi pensosi studiosi accademici e raffinati teoreti, come a mio avviso è avvenuto nel caso di Heidegger.
Questo atteggiamento si è riverberato con particolare evidenza nello studio della storia della cultura e della filosofia, che è stata intesa essenzialmente come “occidentale” e retta da una comune e ben identificabile linea di continuità, alimentando il “mito della omogeneità culturale”: ad una ben chiara “essenza” della filosofia occidentale – ottenuta espungendo tutto ciò che è sembrato eterogeno ad essa – ha fatto da contraltare una analoga ed assimilante essenza per la filosofia indiana, o addirittura orientale, con l’idea che fosse possibile costruire una storia lineare e priva di sostanziali rotture[28]. Salvo poi a includere o escludere di volta in volta – a seconda delle prospettive personali, delle tradizioni culturali o delle mode dominanti – questo o quel “filosofo”, “riscoprendo” personaggi prima ritenuti “minori” o sommergendo in uno sfondo di scarsa rilevanza autori che hanno avuto grande influenza e notorietà in certe stagioni del pensiero. Così, se per certi aspetti ha ragione Richard Rorty nel sostenere la scarsa pregnanza definitoria di un concetto quale quello di “filosofia occidentale”[29], è anche senza dubbio vero che la filosofia – o l’immagine che di essa ci si è fatti in vari momenti storici – ha definito la stessa identità dell’umanità europea ed occidentale in contrapposizione a quelle di altri popoli e per contrasto con tutto ciò che si è ritenuto “altro”, con ciò stesso edificando un modello di razionalità considerato la pietra di paragone per ogni altra forma di riflessione o concettualizzazione sul mondo; anche qui, come accade nel processi identitari che si manifestano nello scontro/incontro tra popoli e culture diverse, il rigetto dell’altro, confinato nell’esoterico e nell’occulto, è stato funzionale alla costruzione della nostra identità di uomini occidentali, razionali e moderni[30]. E, data la circostanza che gran parte di questa immagine di “ratio” è stata edificata nel mondo classico, ne è conseguita una sorta di tacita censura verso tutto ciò che è fuoriuscito dai confini segnati dal logos greco e dal modo in cui è stata intesa la filosofia dai suoi padri fondatori. Ne hanno fatto le spese le culture “altre”, appartenenti a civiltà estranee all’ecumene occidentale, come quelle orientali o dei cosiddetti popoli “primitivi”, le cui elaborazioni concettuali sono state considerate di minor pregio e persino appartenenti a una fase ancora infantile di sviluppo del pensiero. Ma è proprio nel confronto con l’Altro che il logos occidentale può diventare consapevole delle proprie limitazioni, dei punti ciechi prima invisibili, sicché, ad es., “frequentare il pensiero cinese rende più sensibili alle tensioni interne del pensiero europeo […]”[31], in quanto il dialogo tra opere e autori di culture diverse serve
per gettare luce su quanto resta alla base del pensiero filosofico occidentale e proprio rimanendovi alla base, non viene indagato ma è assunto in modo acritico, inconsapevole. Penetrare nelle maglie del pensiero cinese mira cioè a pensare l’impensato della tradizione filosofica occidentale […] Nello “specchio” del pensiero cinese il pensiero europeo guadagna un nuovo accesso a se stesso, scoprendosi a sua volta non assoluto, ma l’effetto di una specifica piega assunta dallo spirito umano[32].
Si è così operato un sistematico, tacito e spesso involontario oblio di tutti quegli aspetti che, alla luce dei modelli di conoscenza dominanti, sono stati giudicati sprovvisti di qualsivoglia validità e legittimazione, sia scientifica che filosofica, ritenuti afferenti alla superstizione, al folklore, alla cultura popolare, alla mitologia; insomma, ogni forma di pensiero avente una forma espressiva di tipo narrativo piuttosto che argomentativo. Il passato della filosofia e della scienza dell’Occidente (ma lo stesso discorso potrebbe essere fatto per le altre culture del mondo) è stato costantemente visto alla luce dei riflettori di ciò che si è consolidato come legittima, rispettabile e consolidata conoscenza, trascurando gli altri aspetti da essa divergenti: Pitagora come matematico, Empedocle filosofo naturalista, Platone dialettico e fondatore della dottrina delle idee, la medicina ippocratica come scientifica, l’astronomia di Tolomeo come indagine razionale della natura, Marsilio Ficino filosofo neoplatonico, John Dee, matematico e astronomo, Copernico l’iniziatore della scienza moderna con la teoria eliocentrica, Giordano Bruno difensore dell’eliocentrismo contro l’oscurantismo medievale, Newton creatore della scienza della meccanica moderna, e così via.
Non è questa una faccenda che riguardi il tempo passato, ancora avvolto da superstizioni poi dissipate dall’illuminismo; non concerne solo l’antichità o i tempi moderni, quando la scienza e la sua razionalità non avevano ancora dispiegato la loro potenza. È un affare che interessa anche l’età contemporanea: quanti rispettabili scienziati e matematici non sarebbero pronti a giurare sui miracoli di padre Pio o sull’esistenza di angeli e démoni? Non concerne solo le persone e la cultura alta, ma anche vere e proprie pratiche culturali e cognitive diffuse in ampi strati della popolazione: in quanti non sono pronti ad affidarsi alla medicina popolare, all’omeopatia o ad altre pratiche spesso messe in atto da guaritori e ciarlatani, a preferenza della medicina scientifica, oggi come ai tempi in cui quest’ultima è stata fondata da Ippocrate?
Questo sistematico occultamento ha fatto derubricare tutto questo campo di interesse a mera e inevitabile scoria prodotta dalla conoscenza nel suo avanzare, a inevitabile attrito e dissipazione di energia generati dal progresso. Il razionalismo conseguente alla rivoluzione scientifica dell’età moderna ha poi contribuito a precipitare un intero settore di pratiche conoscitive e sapienziali in un una sorta di oscuro sotterraneo della coscienza europea, in una corrente carsica che a volte si manifesta in superficie contestando la cultura ufficiale, a volte si rivela e si esprime all’interno di pensatori e scienziati “rispettabili” come una sorta di tic della ragione, immediatamente e opportunamente isolato e messo in quarantena dalla storiografia ufficiale, che lo ha sempre inteso come frutto di debolezze umane, come la conseguenza di cedimenti psicologici.
Ma non sono eludibili le domande sul senso e la consistenza di tale enorme patrimonio di sapere, pratiche, tradizioni, modi alternativi di vedere e concettualizzare il mondo. Come è possibile che si vengano a realizzare di fatto due approcci cognitivi molto diversi nella stessa specie umana, quello razionalistico e quello esoterico? Come mai nell’uomo come specie e spesse volte anche nel singolo studioso, coesistono tali due tipologie di atteggiamenti nei confronti del mondo? A quali esigenze esse rispondono, forse a quelle consuete della “ragione” e del “cuore”? Oppure hanno un significato più profondo, che si insedia nella stessa storia evolutiva dell’uomo e può costituire una chiave per spiegare alcuni aspetti della cultura e della esperienza umana in tempi e luoghi diversi[33]?
A queste domande è ormai necessario rispondere senza rimanere prigionieri, come spesso è avvenuto in passato, di un approccio riduttivo, nel solco della consueta narrativa polemica. Ormai il panorama degli studi degli ultimi decenni sta a testimoniare, come afferma Arthur Versluis, che “siamo sulla soglia di una nuova era per lo studio dell’esoterismo”[34]. Non è più possibile proporre risposte evasive o riduttive su questo argomento ed è bene che anche il mondo accademico italiano si renda conto di ciò.
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[6] Secondo la testimonianza di Giovanni Stobeo, in Ferrari, Franco. “La sapienza acerba e il Dio-tutto: Pindaro e Senofane”, 139. In Prometheus, 30, 2004, 139-147.
[7] Pindaro fr. 61 M e Pae. 7b 18-20, cit. in Ferrari, 140.
[8] Colli, Giorgio. La sapienza greca, 19. Milano: Adelphi, 1990, vol. I.
[9] Vernant, Jean-Pierre. Mythe et sociétéen Grèce ancienne, 747-748. In: Id., Oeuvres. Religions, Rationalités, Politique, vol. I. Paris: Éditions du Seuil, 2007.
[10] Sofocle, Antigone, v. 963.
[11] Sulla differenza tra estasi e trance panica v. Guidorizzi, Giulio. Ai confini dell’anima. I Greci e la follia, 167-173. Milano, Raffaele Cortina Editore, 2010.
[12] Bellah, Robert N. Religion in Human Evolution. From the Paleolithic to the Axial Age, 12-3. London, The Belknap Press of Harvard U.P., 2011.
[13] Sul concetto di “partecipazione” come chiave fondamentale per intendere il pensiero magico si veda Greenwood, Susan. The Anthropology of Magic, 29-43. Oxford-New York, Berg, 2009.
[14] È quanto mette in luce Bellah, 14-18, e che è sottolineato anche da Seaford, Richard. Dionysos, 26-38, 55, 146-147 e passim. Abington & New York: Routledge, 2006. Un tipo di esperienza che era stata già al centro dell’attenzione di Durkheim, Èmile. Les formes élémentaires de la vie religieuse (1912). Paris: PUF, 1990.
[15] Guidorizzi, Giulio, cur., Il mito greco, I: Gli dèi., 530. Milano: Mondadori, 2009. Ma vedi anche Eliade, Mircea. Storia delle credenze e delle idee religiose, 395-6. Milano: BUR Rizzoli, 2006.
[16] Burkert, Walter. “The Logic of Cosmogony”, 104-106. In Buxton, Richard, cur., From Myth to Reason? Studies in the Development of Greek Thought. Oxford: Oxford University Press, 1999.
[17] Feyerabend, Paul K. Conquest of Abundance. A Tale of Abstraction versus the Richness of Being. Chicago and London: The University of Chicago Press, 1999.
[18] Horkheimer, Max e Theodor W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, 51-86. Torino: Einaudi, 2010.
[19] Ovviamente tali espressioni sono dovute alla fondamentale opera di Dodds, Eric R. The Greeks and the Irrational. Berkeley: University of California Press 1951, 1973 printing, chap. VI, “Rationalism And Reaction In The Classical Age”.
[20] Detienne, Marcel. I maestri di verità nella Grecia arcaica (1967), 14-6. Milano, Mondadori, 1992.
[21] Si veda ad es. Platone, Repubblica, 606e-608b.
[22] Eliade, Mircea. Cosmos and History. The Myth of the Eternal Return (1949), 27-35. New York, Harper Torchbooks, 1959.
[23] Non possiamo qui dilungarci su questo argomento, ma sono assai numerosi gli scienziati e i matematici che hanno affiancato alla loro attività di ricercatori in linea con i criteri di scientificità anche un aspetto “notturno”, in cui hanno mostrato quanto meno delle curiosità verso il campo delle scienze esoteriche, se non addirittura la loro coltivazione, vedendo in esse una via privilegiata per accedere a una sapienza non scientifica.
[24] W.J. Hanegraaff, Wouter J. “Western Esotericism: the Next Generation”, 127. In Mystic and esoteric movements in theory and practice, Fifth International Conference, History and Discourse, Historical and Philosophical Aspects of the Study of Esotericism and Mysticism, December 2-5, 2011 St. Petersburg, Russian Christian Academy for Humanities, St. Petersburg, 2012.
[25] Webb, James. The Occult Underground (1974). Chicago and La Salle (Ill.): Open Court, 1990; Id., Il sistema occulto. La fuga dalla ragione nella politica e nella società del XX secolo (1976), Milano: SugarCo Edizioni, 1989. Il termine è stato poi ripreso da Hanegraaff, “Forbidden Knowledge: Anti-Esoteric Polemics and Academic Research”, 226. Aries, Vol. 5, no. 2, 2005, pp.225-54.
[26] Hanegraaff, “Foreword. Bringing Light to the Underground”, vii. In Bogdan, Henrik, Starr, Martin P., cur., Aleister Crowley and Western Esotericism. Oxford – New York: Oxford University Press, 2012.
[27] Möller, Helmut, Howe, Ellic. Merlin Peregrinus: Vom Untergrund des Abendlandes. Würzburg Königshausen & Neumann, 1986.
[28] King, Richard Indian Philosophy. An Introduction to Hindu and Buddhist Thought, 8. Washington: Georgetown Univ. Press, 1999.
[29] Rorty, Richard. “The historiography of philosophy: four genres”. In R. Rorty, J.B. Schneewind, Q. Skinner, cur., Philosophy in History. Essays on the historiography of philosophy. Cambridge: Cambridge Univ. Press, 1984.
[30] Hanegraaff, Wouter J., Esotericism and the Academy. Rejected Knowledge in Western Culture, 3. Cambridge: Cambridge University Press, 2012.
[31] Jullien, François. Contro la comparazione. Lo “scarto” e il “tra”. Un altro accesso all’alterità, 51. Milano-Udine: Mimesis, 2014.
[32] Ghilardi, Marcello. “Postfazione. Filosofare come pensare altrimenti”, § 1. In Jullien, op. cit.
[33] Ho cercato di proporre qualche ipotesi esplicativa per rispondere a queste domande nel mio “‘Rejected Knowledge’ and the Tradition of Reason. A few Hints on their Necessary and Inextricable Link”. In Cardullo, Loredana R. e Francesco Coniglione, cur. Reason and no-reason from ancient philosophy to neurosciences, 211-231. Sankt Augustin: Academia Verlag, 2017.
[34] Versluis, Arthur. Magic and Mysticism. An Introduction to Western Esotericism, 8. Lanham et al.: Rowman & Littlefield Publishers, 2007. Non è possibile dare qui un ragguaglio degli studi che negli ultimi decenni hanno rinnovato tale campo di studi, a partire dal grande classico di Frances A. Yates, su Giordano Bruno e la tradizione ermetica (Bari: Laterza, 1969). Mi limito pertanto a rinviare all’ottimo volume di uno dei maggiori protagonisti contemporanei di tale rinnovamento, Hanegraaff, Esotericism.