Fabiola Falappa, Università degli Studi di Macerata
E-mail: fabiola.falappa@unimc.it
doi: 10.14672/VDS20242IP7
(https://doi.org/10.14672/VDS20242IP7)
Ora, proprio “riconoscere”, per Hegel, è “amare”,
e l’amore è la forza vitale che rende vivente
la relazione dell’uomo con l’altro da sé,
ricostituendo la comunione con esso.
Mario Signore[1]
Abstract
Lo scopo della presente riflessione è quello di porre in luce come l’intero cammino della Fenomenologia dello spirito di Hegel sia caratterizzato da un continuo tendere ad una riconciliazione che scaturisce da un paritario riconoscimento, presupposto affinché possa offrirsi l’autentico perdono. Dopo l’analisi delle figure hegeliane in cui il riconoscimento è solamente unilaterale, come ad esempio nella dialettica Herr–Knecht, acquista un valore ancor più particolare la dialettica tra coscienza agente e coscienza giudicante. La riconciliazione è qui il momento specifico e supremo del riconoscimento dell’uguaglianza reciproca tra le due coscienze. Dall’esperienza hegeliana del giungere al perdono possiamo trarre un prezioso insegnamento per le nostre esistenze: solo riconoscendo noi stessi e perdonandoci possiamo perdonare l’altro, senza stabilire più gerarchie, giudizi o forme di dominio discriminatorie, proprio perché siamo così in grado di riconoscere ciò che realmente siamo e di ricomprendere ogni aspetto del nostro io, inserendolo in una visione d’interezza verso l’unità.
Keyworks: Riconoscimento, disuguaglianza, riconciliazione, relazione, reciprocità.
The aim of the present reflection is to highlight how the entire course of Hegel’s Phenomenology of Spirit is characterised by a continuous attempt at reconciliation that stems from and equal recognition, a prerequisite for the offer of authentic forgiveness. After analysing Hegelian figures in which recognition is only one-sided, such as in the Herr-Knecht dialectic, the dialectic between acting and judging consciousness takes on an even more particular value. Reconciliation is here the specific and supreme moment of the recognition of the mutual equality between the two consciences. From the Hegelian experience of arriving at forgiveness, we can draw a valuable lesson for our own existences: only by recognising and forgiving each other can we forgive the other, without establishing hierarchies, judgements, or discriminatory forms of domination, precisely because we are able to recognise what we really are and recompose every aspect of our selves, placing them in a vision of completeness towards unity.
Keyworks: Recognition, inequality, reconciliation, relationship, reciprocity.
La lotta per il riconoscimento
Dall’analisi ermeneutica di una tra le opere più importanti della storia della filosofia, mi è sembrato di poter rilevare, anche in ascolto dei suoi numerosissimi studi interpretativi[2], che nella Fenomenologia dello spirito di Hegel l’Assoluto e l’intero processo atto a perseguirlo scaturiscono da una conciliazione frutto di un “travagliato periodo di trasformazione”[3], insieme storico ed esistenziale, i cui diversi momenti sono tutti ugualmente necessari ed ognuno singolarmente fondamentale. In un tale processo trasformativo acquista un ruolo centralissimo proprio la questione del riconoscimento.
Dopo il tentativo di conciliazione avviato nei suoi scritti giovanili e la successiva constatazione del fallimento legato alla predicazione di Gesù[4], a Jena Hegel avverte l’esigenza di intraprendere un cammino riconciliativo superiore che gli permetta di superare le scissioni presenti in un’epoca in cui lo Spirito sembra aver abbandonato la natura e il dolore umano essere giunto a profondissimi livelli. Non mi sembra casuale il fatto che il perdonare, in queste pagine, appaia strettamente legato alla crescita maggiore dell’attenzione di Hegel verso la tematica del riconoscimento[5]. Il perdono, in effetti, torna ad essere esplicitato nella dialettica dell’eguaglianza, che presuppone un autentico e paritario riconoscimento. La lotta tra due autocoscienze, che Hegel tratta nel capitolo dell’Autocoscienza, nasce dal desiderio (Begierde) insito in esse, in base al quale “l’autocoscienza raggiunge il suo appagamento solo in un’altra autocoscienza”[6]. Il bisogno di riconoscimento, pertanto, spinge gli uomini in un primo momento a cercarsi e poi a combattersi per testimoniare il loro essere indipendenti e liberi, in un’ottica profondamente asimmetrica; il cammino verso una forma di equilibrio all’interno della lotta per il riconoscimentoè assai lungo e si dovrà percorrere una ardua strada per giungere, a tutti gli effetti, ad uno Spirito che è “Io che è Noi, e Noi che è Io”[7].
Importante è sottolineare il paradigma che lega desiderio-lotta per il riconoscimento-perdono. In questa dialettica, destinata a realizzare l’unione tra certezza e verità nel Sapere Assoluto, Hegel compie un grande passo in avanti rispetto alla filosofia moderna: contro una verità intuita come comando, imbrigliata entro categorie monologiche e statiche egli sostiene che «il vero (Wahre) (va inteso ed espresso) non come sostanza (Substanz), ma altrettanto decisamente come soggetto (Subjekt)»[8]. Per lui la sostanza va in effetti considerata come l’astratta, vuota e immota uguaglianza con sé, in cui non può esserci, quindi, né verità, né realtà; essa appare come un cattivo modo di intendere il rapporto tra l’universale e il particolare. Se invece la sostanza si mostra compiutamente come soggetto vuol dire che l’unità della sostanza non è quella immediata e astratta, ma un’unità mediata, risultante dal farsi altro restando sé stessa, è non solo l’in sé, ma l’in sé che diviene per sé[9].
In questa dinamica relazionale è possibile scorgere anche l’autentico riconoscimento che si spinge fino al reciproco riconciliarsi, in quanto appartenente a realtà bisognose, allo stesso modo, di perdono. Concordo, per un verso, con Hyppolite sull’osservazione che egli propone circa la lotta tra le autocoscienze:
l’amore (negli scritti giovanili) è il miracolo per cui ciò che è due, diviene uno senza per altro sfociare nell’eliminazione completa della dualità. […] Ma nella Fenomenologia Hegel ha scelto un’altra strada. L’amore non insiste abbastanza sul carattere tragico della separazione […]. Perciò in quest’opera l’incontro delle autocoscienze si manifesta come la lotta delle autocoscienze per farsi riconoscere[10].
D’altra parte, però, tale dinamica esclusivamente conflittuale credo possa valere per il rapporto signore-servo, in cui vi è un riconoscimento solo unilaterale; mentre non va dimenticato che nella relazione tra la coscienza agente e quella giudicante, nel momento in cui il riconoscimento diviene paritario, è possibile rintracciare alcuni elementi essenziali di una logica dell’amore, seppure non sempre esplicitati da Hegel. Finora ho preferito anticipare quanto la tematica del riconoscimento sia strettamente legata a quella della riconciliazione, ora occorre procedere per gradi attraverso le principali figure fenomenologiche hegeliane.
Il riconoscimento unilaterale tra servo e signore
L’autocoscienza singola e determinata inizialmente fa esperienza dell’altra autocoscienza come di qualcosa che a lei è opposto; il rapporto speculare, pertanto, non è da subito guadagnato, ma si rivela come disuguaglianza dell’una rispetto all’altra: “l’un estremo è solo ciò che è riconosciuto, mentre l’altro è solo ciò che riconosce”[11], per cui le autocoscienze non riescono a mediarsi e permangono in una situazione di lotta. Il conflitto per il riconoscimento, che da qui scaturisce, sembra non poter pervenire ad una conciliazione perché l’autocoscienza, per confermare la propria esistenza, deve o sopprimere l’altra autocoscienza o sottomettersi[12]. Questi momenti della lotta sfociano nelle due note figure del signore (Herr) e del servo (Knecht).
La prima è “la coscienza indipendente alla quale è essenza l’esser-per-sé”, il signore considera tutto ciò che lo circonda soltanto come un mezzo e inserisce tra l’oggetto del desiderio e sé stesso il lavoro del servo. Mentre la seconda è “la coscienza dipendente alla quale è essenza la vita o l’essere per un altro”[13], il servo è infatti assoggettato al mondo naturale e viene considerato come una cosa, avente la figura della cosalità (Dingheit). Il signore ha invece dimostrato di innalzarsi al di sopra della cosalità, non temendo per la sua vita, preferendo essere riconosciuto fino in fondo come autocoscienza. Questa rete di rapporti tra signore, servo e cosalità permette all’autocoscienza del signore di essere riconosciuta dall’autocoscienza del servo che pertanto è riconoscente, dal momento che scorge di essere inessenziale agli occhi del signore e comprende l’esser-per-sé del primo; ma il momento del riconoscimento è tuttavia ancora unilaterale e ineguale[14]. La coscienza servile, d’altra parte, bloccata dalla paura della morte, è in sé “qualcosa di monco e di parziale che non può né sa offrire che un riconoscimento altrettanto parziale e del tutto inadeguato a soddisfare l’autocoscienza vincente”[15]. Ed è proprio la certezza del signore di essere indipendente e assolutamente per-sé che lo spinge a sfruttare il servo e il suo lavoro.
Se si considera però la servitù, sciogliendola dal suo rapporto con la signoria, si scopre che proprio la paura della morte ha permesso al servo di sperimentare il suo esser-per-sé, che inizialmente gli sembrava negato, egli infatti “non è stato in ansia per questa o quella cosa e neppure durante questo o quell’istante, bensì per l’intera sua essenza”[16]. Tale paura si concretizza nel servizio,che il servo rende al signore. Attraverso l’obbedienza egli si educa alla rinuncia e scopre di non essere più così incatenato all’elemento della cosalità. Ultimo gradino, grazie al quale il servo può giungere a conoscere la sua essenza, è dunque il lavoro, dal momento che “è desiderio (Begierde) tenuto a freno, è un dileguare trattenuto; ovvero: il lavoro forma”[17]. Il servo con il lavoro nega dunque la realtà a lui estranea, non nel senso che ne gode immediatamente, distruggendola, come fa il signore, ma nel senso che la trasforma ed è così che, formando e coltivando le cose, non solo compie un’opera di formazione di sé, ma riesce anche ad imprimere il proprio sé nella sua opera.
È interessante ricordare che in queste pagine Hegel mette sì in risalto l’aspetto attivo e formativo del lavoro, ma non si deve dimenticare che tale momento è pur sempre il risultato di un rapporto di dominio e di gerarchia tra signore e servo. Il lavoro forma ed educa il servo, ma non riesce certamente a fargli riottenere la libertà e a restituirgli la totalità di sé stesso[18]; anche perché il signore non è consapevole di questa dinamica e permane nella sua certezza d’essere la verità. Tra i due non c’è riconoscimento paritario, armonia o conciliazione, ma continua contrapposizione e discriminazione; nonostante il passaggio del servo attraverso le esperienze della paura, del servizio e del lavoro egli resta sempre subalterno, mai riconosciuto in modo diretto ed immediato dal signore. Quest’ultimo nega l’indipendenza del servo, non la propria, e di pari passo il servo nega l’indipendenza propria, non quella del signore.
Il signore è riconosciuto come l’essenziale, sia da sé sia dal servo, ma il riconoscimento non è reciproco in quanto il servo non è riconosciuto autonomo, libero e avente valore in sé. Quindi non si ha unità dei due momenti dell’autocoscienza che proclamano l’uno il valore della vita, l’altro quello della pura autocoscienza, proprio come riconosce Gadamer: “colui che sopravvive nella lotta raggiunge il suo scopo tanto poco come colui che soccombe”[19]. Il vero riconoscimento reciproco si attuerà nelle tappe successive del cammino dell’esperienza della coscienza; Labarrière esplicita chiaramente quest’evoluzione in modo sintetico ed efficace:
l’affrontarsi delle due autocoscienze individuali, nella dialettica di signoria e servitù, e la prima forma di riconoscimento a cui esse pervengono, costituiscono la tappa iniziale nella lenta ascesa verso la pienezza della realtà spirituale: gli Io opposti stanno per cominciare ora ad unirsi nella effettività di un Noi[20].
Per il momento la gerarchia tra signore e servo si mantiene proprio perché non possono essere esperienze quali la paura della morte o il lavoro a condurci ad una piena riconciliazione. La paura deriva dalla volontà delle autocoscienze di dar prova di sé, mediante la lotta per la vita e per la morte, come se davvero “soltanto mettendo in gioco la vita si conserva la libertà”[21]; in queste condizioni non può darsi alcun riconoscimento, a causa del clima di inumano terrore. Al contrario ritengo che solamente dalla cura, dall’attenzione, dall’ascolto dell’altro e da un confronto paritario, in cui nessuno senta la necessità di dover dar prova di sé a chi ha di fronte, ci si possa aprire ad una relazione di reale riconoscimento, dove non si deve correre alcun rischio e dove si sceglie di investire tutta la propria libertà. Solo in un tale scenario è allora possibile fondare l’esperienza del riconoscimento riconciliativo.
Per di più anche nella dinamica del lavoro non assistiamo ad un rapporto paritario: il servo agisce e trasforma la realtà ed il signore usufruisce di tale opera, senza intervenire o partecipare alla realizzazione. Fin quando si avrà una parte attiva ed un’altra totalmente passiva, che sfrutta l’operato altrui senza arricchirlo con la propria impronta personale, non si darà nessun riconoscimento, poiché è indispensabile, al contrario, che i poli in tensione cooperino nel desiderio comune di andare oltre la personale individualità per scoprirsi realmente parti di un Intero.
Il riconoscimento reciproco tra coscienza agente e coscienza giudicante
Un punto di svolta determinante, nel travagliato percorso di trasformazione hegeliano verso il riconoscimento reciproco e il conseguente perdono, si incontra ne Il Male e il suo perdono, al termine dello Spirito. L’anima bella rappresenta, all’interno dello Spirito, l’universalità dello Spirito certo di sé e si rifiuta di agire per salvaguardare la sua purezza teorica:
manca la forza dell’alienazione, la forza di farsi cosa e di sopportare l’essere. La coscienza vive l’ansia di macchiare con l’azione e con l’esserci la gloria del suo interno; e, per conservare la purezza del suo cuore, fugge il contatto dell’effettualità e s’impunta nella pervicace impotenza di rinunciare al proprio Sé affinato fino all’ultima astrazione e di darsi sostanzialità, ovvero di mutare il suo pensiero in essere e di affidarsi alla differenza assoluta[22].
Tale coscienza non osa minimamente agire o scendere a contatto con la realtà. Di contro a lei si trova la coscienza agente che, all’opposto, non si ritrae da nessuna azione singola e pone in luce il lato della singolarità, presentandosi come “questo Sé”[23] opposto agli altri singoli. Sicura della rettitudine morale connessa al suo operare, questa coscienza cerca di difendersi dal giudizio della prima, dell’anima bella. In effetti l’unica azione che quest’ultima compie è quella di giudicare la coscienza agente come male (Böse) e ipocrisia.
Com’è possibile, pertanto, che in questa dialettica si possa raggiungere un momento riconciliativo, frutto di un paritario riconoscimento? Secondo Hegel la Versöhnung non si può ottenere né attraverso l’insistenza ostinata e unilaterale della “coscienza cattiva” sulla propria posizione, né mediante la perseveranza del giudizio della “coscienza universale”. Solo se ci sarà il riconoscimento della reciproca uguaglianza nell’essere entrambe parzialità dello stesso Spirito, che si dà sia come spirito universale sia come spirito particolare, potrà verificarsi un’autentica riconciliazione. E la trasformazione, in tale direzione, viene descritta da Hegel con queste chiare parole:
mentre la coscienza universale denuncia l’ipocrisia come cattiva, spregevole ecc., in tale giudizio si richiama alla propria legge, come la coscienza cattiva si richiama alla propria. Quella, infatti, si mette in opposizione con questa e si mostra così come una legge determinata; essa non ha dunque alcuna preminenza sull’altra, ché anzi la legittima; e simile zelo fa proprio il contrario di ciò che esso reputa di fare, vale a dire mostra ciò che esso chiama vero dovere e che deve essere universalmente riconosciuto come qualcosa di non-riconosciuto, e conferisce quindi all’altro l’egual diritto dell’esser-per-sé[24].
Il ripetersi del sein enfatizza la convinzione, che accomuna sia la coscienza giudicante sia la coscienza agente, di essere nella verità solo riferendosi alla propria legge, ma è da qui che nasce l’incomprensione: nessuna delle due, infatti, può vantare un diritto sull’altra. Una relazione di questo tipo ci riporta alla dialettica che caratterizza tanto il rapporto signore-servo, quanto numerose dinamiche alla base delle relazioni umane, o dovremmo meglio dire delle irrelazioni, che sussistono nella nostra contemporaneità. Qual è l’elemento che avvicina tutte queste figure? Sicuramente la loro incapacità di riconoscersi come momenti di un Intero, il che rende ogni parte ugualmente ipocrita e vieta così ogni Versöhnung, in quanto manca una totale reciprocità solidale, unica esperienza che può condurre ad una doppia rinuncia all’unilaterale per aprirsi alla nascita della bi-lateralità e quindi ad un autentico riconoscersi[25]. Hegel può, pertanto, aiutarci ancora oggi ad illuminare le dinamiche dell’irrelazione, che avrebbero al contrario un bisogno incessante di sperimentare conversioni, così da passare dal continuo discriminare il valore di qualsiasi alterità, rispetto a ciò che è per noi unilateralmente noto e conosciuto, al riconoscere che ciascuna personale prospettiva non è se non una unica e parziale prospettiva rispetto alla verità intera. Riconoscere questa parzialità, legata inevitabilmente al personale punto di vista, anziché spingerci all’isolamento della irrelazione, potrebbe aprirci all’incontro con le ulteriori prospettive, nella consapevolezza che l’ascolto dell’alterità accompagna verso l’uscita da ogni forma di giudizio. Non esiste, in effetti, prospettiva che possa essere così definitiva e totalizzante da bastare a sé stessa.
Se, conseguentemente alla discriminazione associata all’essere giudicati, poniamo una chiusura tra noi e l’altro siamo destinati all’irrelazione, al non senso, al rifiuto, al misconoscimento dell’incontro e neghiamo così ogni possibile relazione con la verità. L’apertura alla relazione e l’accoglienza dell’altro dischiudono, al contrario, modi sempre nuovi di rapporto, che scaturiscono dal confronto reciproco.
Il farsi parola del riconoscimento: la confessione di sé
È a partire dalla loro chiusura unilaterale, dalla discriminazione dell’una rispetto all’altra, che la coscienza universale si avvia a risultare identica alla coscienza agente, che lei pretende di giudicare. Nelle pagine seguenti Hegel evidenzia come la stessa anima bella sia cattiva e particolare. Ad accorgersi di ciò è la coscienza agente che, dopo aver intuito la simmetria che le lega, giunge alla propria confessione e si apre così all’altra, consapevole della sua finitudine, e attende una risposta da parte della coscienza giudicante, che esprima un riconoscimento effettivo.
A questo punto ci aspetteremmo la medesima confessione da parte della coscienza universale, ma questa tarda a giungere perché ella rimane ostinata e ferma nel suo giudizio e respinge, con “cuore duro” (harte Herz), la sua uguaglianza con la coscienza che reputa cattiva:
di conseguenza tale coscienza giudicante è essa stessa spregevole perché divide l’azione, e produce e fissa la diseguaglianza dell’azione con l’azione medesima. Inoltre, quella coscienza è ipocrisia perché non spaccia siffatto giudicare per un’altra maniera di essere cattivi, ma per la giusta consapevolezza dell’azione, esaltando sé, – in questa sua ineffettualità e vanità del sapere bene e meglio -, al di sopra dei fatti svalutati, mentre pretende che il suo inoperoso discorrere sia preso per un’eccellente effettualità[26].
Il rifiuto ad accogliere la confessione dell’altro, il negare la possibilità di un’effettiva riconciliazione tra i due, diviene un elemento così grave che ribalta l’intero movimento dialettico. L’anima bella testimonia ormai la malvagità, perché, in opposizione alla coscienza agente che ha avuto il coraggio di mettersi in discussione, lei ha preferito condannarsi ad un assoluto isolamento, sconfessando ogni gesto riconciliativo e richiudendosi nell’assoluta irrelazione. Accettando il confronto avrebbe potuto ricongiungersi all’essere; rifiutandolo, invece, non le rimane che una profonda solitudine. In realtà l’eguaglianza è comunque istituita: “il rompersi del duro cuore e il suo innalzarsi ad universalità è lo stesso movimento già espresso nella coscienza che faceva confessione di sé”[27]. L’anima bella assiste alla frantumazione del suo giudizio unilaterale e intuisce sé stessa nella coscienza agente che, grazie alla sua confessione, si è presentata come particolarità tolta e superata, ossia come “continuità con l’altro, cioè come universale”[28].
Il sì del perdono che da qui scaturisce è la parola della riconciliazione, il riconoscimento dell’Io nell’Io posto di fronte, ed in questa reciprocità solidale si manifesta lo Spirito Assoluto. Dopo l’opposizione tra anima bella e coscienza agente si dischiude una realtà che è stata preparata e ricercata da ogni figura che ha preceduto questo momento: ogni persistenza a mantenersi in una logica di dominio, di gerarchia o di supremazia appare ora interamente riconciliata in questo sì, che ha la forza di sanare ogni scissione e di riscattare le sofferenze passate “senza lasciare cicatrici”, perché il sì “è il Dio apparente in mezzo a loro che si sanno come il puro sapere”[29]. Concedere il sì del perdono può essere interpretato come il permettere a Dio di unirsi e rendere solida la riconciliazione tra Io assolutamente opposti. In questo Hyppolite percepisce la volontà di Hegel di pensare l’immanenza dell’infinito nel finito, ossia Dio dimostra di non ignorare la finitezza e la sofferenza umana, così come lo spirito finito di “non essere un semplice al di qua”[30], ma un essere che va oltre sé stesso e si spinge oltre la sua stessa finitezza.
Hegel rivolgendosi all’anima bella sembra condannarla non tanto per il suo astenersi dall’azione, per il suo voler custodire al di sopra di ogni altra cosa la sua purezza, ma quanto per la sua ostinazione e superiorità nel giudizio contro la coscienza agente, per il suo voler dominare sull’altro, senza esserne autorizzata. Il perdono sorge, quindi, nel momento in cui la coscienza universale smette di giudicare l’avversario, proprio perché comprende di non essere, in realtà, così differente da lui e di non potersi porre come misura della verità[31]. Egli considera l’astenersi dal giudicare l’unico metodo in grado di realizzare un’autentica μετάνοια, una trasformazione che permette alla dualità di riconoscersi e sentirsi accomunata all’altro, un’evoluzione in cui “i due Io si spogliano della loro esistenza opposta”.
Tale dinamica può caratterizzare, a mio avviso, il perdono inserito non solo in una relazione intersoggettiva, ma anche nel rapporto intrapersonale che instauriamo con il nostro volto interiore, con il nostro intimo io. Così l’immagine conflittuale che lega coscienza giudicante e coscienza agente può essere interpretata come la medesima realtà che crea una lacerante scissione al nostro io interno. Prima di riuscire a perdonare gli altri, è fondamentale infatti riconoscere la totalità del nostro essere ed imparare ad accettare quelle parti di noi che tenderemmo a rifiutare e rigettare senza esitazione, giudicandole come colpa o male. L’esperienza dell’anima bella può offrirci quest’insegnamento: finché non riconosciamo di essere un miscuglio di luce e di tenebre, di qualità e di difetti, di amore e di odio, di altruismo e di egocentrismo, di maturità e di immaturità, continuiamo ad erigere barriere dentro e fuori di noi, a diffondere pregiudizi e discriminazioni. Solo riconoscendo noi stessi e perdonandoci possiamo perdonare l’altro, senza stabilire più gerarchie, giudizi o forme di dominio discriminatorie, proprio perché siamo così in grado di riconoscere ciò che realmente siamo e di ricomprendere ogni aspetto del nostro io, inserendolo in una visione d’interezza verso l’unità. E questo desiderio di pienezza, da cui nasce il nostro relazionarci all’io e al tu, non può prescindere da un rapporto originariamente ternario, in cui ci riscopriamo perdonati ed amati totalmente e senza limiti, quindi capaci di perdonare ed amare, proprio nella misura in cui attingiamo ad un Amore perdonante che ci trascende.
[1]M. Signore, Comunità e riconoscimento, in AA.VV., Libertà e comunità, Editrice Messaggero, Padova 2005, p. 40.
[2]Alcuni degli interpreti hegeliani a cui mi riferisco sono: P.-J. Labarrière, Structures et mouvement dialectique dans la Phénoménologie de l’esprit de Hegel, Aubier-Montaigne, Paris 1968; sempre dello stesso autore Introduction à une lecture de la Phénoménologie de l’esprit, Aubier-Montaigne, Paris 1979; R. Racinaro, Realtà e conciliazione in Hegel. Dagli scritti teologici alla filosofia della storia,De Donato, Bari 1975, p. 137 e sgg.; J. Hyppolite, Genèse et structure de la “Phénoménologie de l’Esprit” de Hegel, Aubier-Montaigne, Paris 1946; tr. it. di G. A. De Toni, Genesi e struttura della “Fenomenologia dello Spirito” di Hegel, La Nuova Italia, Firenze 1972; S. Landucci, Hegel: la coscienza e la storia. Approssimazioni alla “Fenomenologia dello spirito”, La Nuova Italia, Firenze 1976; E. De Negri, Interpretazione di Hegel, Sansoni, Firenze 1969; F. Chiereghin, La “Fenomenologia dello spirito” di Hegel, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1994 e P. Vinci, «Coscienza infelice» e «anima bella». Commentario della Fenomenologia dello Spirito di Hegel, Guerini e Associati, Milano 2002; H. Kuch, Herr und Knecht. Anerkennung und symbolische Macht im Anschluss an Hegel, Campus Verlag, Frankfurt-New York 2012; R. Mancini, La fragilità dello Spirito. Leggere Hegel per comprendere il mondo globale, Franco Angeli, Milano 2019.
[3] L’espressione è riportata da Hegel stesso nella Prefazione dell’opera in riferimento allo spirito del suo tempo: cfr. Phänomenologie des Geistes, in Gesammelte Werke, vol. IX, hrsg. von W. Bonsiepen und R. Heede, Felix Meiner Verlag, Hamburg 1980, pp. 14-15; tr. it. a cura di E. De Negri, Fenomenologia dello spirito, La Nuova Italia, Firenze1973, 2 voll., vol. I, pp. 8-9. Da questo momento citerò quest’opera hegeliana con la sigla PhG, indicando la pagina del testo in edizione originale e riportando tra parentesi la pagina relativa alla traduzione italiana.
[4] Rispetto alla categoria dell’amore e al ruolo che riveste negli scritti giovanili hegeliani rinvio al più celebre dei testi francofortesi: G.W.F. Hegel, Der Geist des Christentums und sein Schicksal, in Hegels Theologische Jugendschriften, hrsg. von H. Nohl, Minerva GmbH, Frankfurt am Main 1966; tr. it. di E. Mirri, Lo spirito del cristianesimo e il suo destino, L.U. Japadre Editore, L’Aquila 1970.
[5] Il mettere in guardia contro qualsiasi lettura della Fenomenologia, così come degli abbozzi sistematici giovanili e jenesi, condotta in funzione del pensiero hegeliano maturo è uno dei punti fermi dell’interpretazione preziosa di Pöggeler. Verra esprime perfettamente questa linea interpretativa nell’introduzione alla raccolta di saggi su Hegel, sottolineando la tensione propria delle ricerche di Pöggeler: «lo sforzo di vedere non il metodo contro il sistema, o il sistema contro il metodo, secondo alternative tante volte proposte, ma di intendere invece il pensiero hegeliano quale Denkweg che è inutile e controproducente voler racchiudere entro ricostruzioni rigide e definitive, ma che rimane estremamente fecondo e suggestivo per le sue aporie». Cfr. O. Pöggeler, Hegel. L’idea di una Fenomenologia dello spirito, Guida editori, Napoli 1986, p. 8.
[6]PhG, p. 108 (vol. I, p. 151).
[7]“Ich, das Wir, und Wir, das Ich ist”, cfr. PhG, p. 108 (vol. I, p. 152).
[8]Ibidem, p. 18 (vol. I, p. 13).
[9]Ibidem, cfr. pp. 18-19 (vol. I, pp. 13-15).
[10]J. Hyppolite, Genèse et structure de la “Phénoménologie de l’Esprit, tr. it. cit., pp. 200-201.
[11]PhG, p. 110 (vol. I, p. 155).
[12]In quest’alternativa si manifesta assai chiaramente l’interpretazione che Kojève offre dell’Anerkennen hegeliano: “Il Riconoscimento (Anerkennen) è un’azione (Tun), e non soltanto conoscenza. Ma questa azione non è opposta alla conoscenza. È un’azione conoscente, una conoscenza attiva”. Interessante, quindi, il rapporto che lega azione e conoscenza all’interno del riconoscimento. Cfr. A. Kojève, Introduction à la lecture de Hegel, Éditions Gallimard, Paris 1947; tr. it. a cura di G. F. Frigo, Introduzione alla lettura di Hegel, Adelphi, Milano 1996, p. 66.
[13]PhG, p. 112 (vol. I, p. 159).
[14]Ibidem, p. 113 (vol. I, p. 161).
[15]F. Chiereghin, La “Fenomenologia dello spirito” di Hegel, cit., p. 91.
[16]PhG, p. 114 (vol. I, p. 161).
[17]Ibidem, p. 115 (vol. I, p. 162). La traduzione di De Negri è stata da me lievemente modificata.
[18]Cfr. F. Chiereghin, La “Fenomenologia dello spirito” di Hegel, cit., pp. 90-97.
[19]H. G. Gadamer, Hegels Dialektik, J.C.B. Mohr (Paul Siebeck), Tübingen 1971; tr. it. di R. Dottori, La dialettica di Hegel, Marietti, Torino 1973, p. 85.
[20]P.-J. Labarrière, Structures et mouvement dialectique dans la Phénoménologie de l’esprit de Hegel, cit., p. 90.
[21]PhG, p. 111 (vol. I, p. 157).
[22]Ibidem, pp. 354-355 (vol. II, pp. 183-184).
[23]Ibidem, p. 355 (vol. II, p. 184).
[24]Ibidem, p. 357 (vol. II, p. 187).
[25]Su questo tema cfr. P.-J. Labarrière, Introduction à une lecture de la Phénoménologie de l’esprit, cit., pp. 180-184.
[26]PhG, p. 359 (vol. II, p. 190).
[27]Ibidem, pp. 360-361 (vol. II, p. 193).
[28]Ibidem, p. 360 (vol. II, p. 193).
[29]Ibidem, p. 362 (vol. II, p. 196).
[30]J. Hyppolite, Genèse et structure de la “Phénoménologie de l’Esprit ” de Hegel, tr. it. cit., p. 649.
[31]Interessanti, nel rapporto che lega chi ha commesso una colpa e chi perdona, sono le riflessioni condotte da H. Arendt, che vede una coappartenenza tra perdono e vendetta, nonostante la loro opposizione: “colui che perdona rinuncia a vendicarsi perché anche lui avrebbe potuto essere colpevole. Colui che si vendica non vuole perdonare perché può fare la stessa cosa che gli è stata fatta. […] In altre parole, nel perdono e nella vendetta, ciò che l’altro ha fatto diventa ciò che io stesso avrei potuto fare, o che posso fare”. Cfr. H. Arendt, Diario Filosofico. Frammenti (1950-1964), «Micromega», n. 5, 2003, pp. 25-38.